martedì 29 luglio 2025

📲 Iperconnessione e pressione alla performance



💢Quando il soggetto si consuma nell'ideale di essere sempre attivo

Nel mondo contemporaneo, la connessione è diventata una condizione continua. Lavoriamo online, comunichiamo online, costruiamo la nostra immagine sui social, riceviamo notifiche anche mentre dormiamo. Questa iperconnessione, più che un’opportunità, si configura sempre più come un imperativo: essere raggiungibili, pronti, aggiornati, performanti.


🔄 Prestare, produrre, postare

Nel lavoro, la reperibilità si è trasformata in un dovere silenzioso. Si risponde alle mail a tarda sera, si è sempre “sul pezzo”, si dimostra di esserci, anche quando non si è più davvero lì. Anche la sfera personale risente di questa logica: si pubblica per mostrarsi attivi, felici, presenti. Ma tutto questo rischia di diventare un circuito chiuso: si esiste solo se si produce, se si appare, se si dimostra qualcosa.

La pressione alla performance non riguarda più solo il lavoro, ma ogni dimensione dell’esperienza. Ogni tempo è tempo da ottimizzare. Ogni gesto è leggibile come un contenuto. L’inazione, la pausa, il silenzio diventano sospetti.


🧠 Cosa succede al soggetto

Questa modalità continua di esposizione e prestazione ha un prezzo psichico. Spesso emergono:

  • uno stato di allerta cronica, con ansia e difficoltà a “staccare”;
  • vissuti di inadeguatezza, confrontandosi con modelli irrealistici;
  • una crescente difficoltà a desiderare, cioè a distinguere ciò che si vuole da ciò che si dovrebbe volere.

In termini psicoanalitici, il soggetto rischia di essere interamente asservito al godimento dell’Altro, cioè al circuito di aspettative e visibilità che lo cattura, senza spazio per elaborare la propria mancanza.


👩‍💻 Un esempio clinico

X. è una libera professionista nel settore creativo. Cura il suo sito, pubblica sui social, risponde a ogni messaggio dei clienti in tempi rapidissimi. All’apparenza è organizzata, ma racconta un senso crescente di esaurimento. Quando prova a prendersi una pausa, avverte un’inquietudine profonda. Dice: “Non so più se sto lavorando o se sto solo cercando di non deludere nessuno. Anche il tempo libero mi sembra lavoro, solo che non lo riconosco come tale”.


🔎 Un riferimento lacaniano

Lacan, nel suo discorso del capitalista, ha messo a fuoco un tipo di legame sociale in cui il soggetto è preso in una catena di consumo e produzione continua, dove la mancanza non ha più posto. Ogni oggetto è lì per colmare, per soddisfare, per funzionare. Ma se non c’è mancanza, non può esserci nemmeno desiderio.

Tuttavia, Lacan non contrappone semplicemente desiderio e Altro. Al contrario: “Il desiderio è il desiderio dell’Altro” (Seminario XI). Il desiderio nasce nell’Altro, si struttura nel linguaggio, si articola nel campo della domanda. Ma non si esaurisce in ciò che l’Altro chiede: emerge nello scarto, nel resto che sfugge alla domanda dell’Altro, in quel vuoto che la prestazione cerca costantemente di negare.


🧭 Spunto conclusivo: dare tempo alla mancanza

In una cultura che premia la velocità e misura il valore attraverso la visibilità, sottrarsi può essere un atto etico. Non per fuggire dall’Altro, ma per riaprire un tempo diverso: non solo funzionale, non solo occupato, ma abitato.

Disconnettersi non è rifiutare il legame, ma introdurre un limite: al godimento, alla domanda, alla prestazione continua. È in questo tempo ritrovato che può affacciarsi un desiderio proprio, un tempo soggettivo che non sia solo il riflesso dell’Altro.


sabato 26 luglio 2025

La Modernità e la sfida del Reale

«Il deserto cresce: guai a chi in sé cela deserti»

— Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra


La Modernità e la crisi dell’Assoluto

Nietzsche ha intuito come pochi altri il destino della modernità: con la “morte di Dio” si sarebbe aperto uno spazio vuoto, abitato da nuovi idoli e nuove volontà di potenza. Ma non si tratta solo di un crollo della fede, bensì dell’evaporazione di ogni fondamento stabile per la Legge, il Senso e il Desiderio. In termini lacaniani, potremmo dire che si è dissolto il Nome-del-Padre come garante dell’ordine simbolico, lasciando il soggetto esposto a un Reale senza mediazioni.

L’Occidente ha reagito a questa perdita assolutizzando altri registri: la tecnica, il capitale, la scienza, il consumo. Il vuoto lasciato da Dio è stato colmato da forme secolarizzate di assoluto, non meno dogmatiche. Lungi dall’aprire una pluralità libera di sensi, la crisi del sacro ha spesso prodotto fondamentalismi moderni. Come ha scritto Lacan, il discorso del capitalista promette di eludere la castrazione simbolica: "funziona a meraviglia, ma proprio per questo va verso la catastrofe" (Lacan, “Radiophonie”).


Il ritorno dei fondamentalismi

Nel vuoto lasciato dall’Assoluto religioso, si sono affacciati nuovi assolutismi. Da un lato i fondamentalismi religiosi, che riattivano in forma regressiva e violenta il significante Padre. Dall’altro, una tecnocrazia globale che sostituisce l’autorità con l’algoritmo e la decisione con la previsione. In entrambi i casi, ciò che si evita è il confronto con il Reale: l’inconsistenza dell’Altro, il non-senso radicale del desiderio umano.

Il fondamentalismo religioso reintroduce un Dio-Altro totale, che ordina e punisce; la tecnocrazia promette un mondo senza soggettività, dove tutto può essere calcolato. In questa polarità, la modernità si mostra in tutta la sua ambivalenza: emancipatrice e ansiogena, razionale e delirante. La verità è che nessuno vuole davvero abitare il Reale: si preferisce l’Altro pieno, sia sotto forma di Shari’a che di Intelligenza Artificiale.


Capitalismo e autoritarismi: una dialettica inquietante

Non va dimenticato che anche il capitalismo è un fondamentalismo. Come scrive Žižek, esso funziona come “una religione senza teologia”: totalizzante, globale, non negoziabile. Ma oggi il suo dominio non è più indiscusso. Dopo la lunga stagione della globalizzazione liberale, assistiamo a un ritorno dell’elemento statuale e autoritario: Russia, Cina, India e molte altre nazioni promuovono modelli che intrecciano capitalismo e controllo sociale, mercato e comando.

La Russia di Putin propone una restaurazione simbolica in chiave nazionale-religiosa, mescolando ortodossia, patriottismo e gestione centralizzata. La Cina afferma un capitalismo tecnocratico senza democrazia, in cui il Partito assume il ruolo di S1: significante-padrone che regola senso, storia e identità. Gli USA, pur restando una potenza capitalistica liberale, si trovano attraversati da pulsioni autoritarie interne e da una sfida esterna che ne relativizza l’universalismo.

In questo scenario multipolare, il capitalismo non sparisce: si adatta. Assume coloriture culturali diverse, si ibrida con modelli verticali, perde la sua maschera liberal-progressista. Nasce una dialettica tra mercato e comando, tra algoritmo e decisione, tra flusso e muro. E forse, come suggeriva Lacan nella sua lettura del Discorso del capitalista, questa dialettica è destinata a esplodere, perché elude troppo a lungo la questione della mancanza.


L’Europa e la sfida della simbolizzazione

In questo contesto, l’Europa appare fragile ma anche potenzialmente feconda. Non ha più un centro, ma conserva la memoria del tragico, del conflitto, della pluralità. Potrebbe rappresentare una via alternativa tra fondamentalismi religiosi e totalitarismi tecnici, tra mercato assoluto e Stato assoluto. Ma per farlo dovrebbe ripensare radicalmente il proprio rapporto con il Reale, rinunciando all’illusione di una armonia preconfezionata.

Ciò significa riscoprire il limite come risorsa: la castrazione simbolica come condizione di libertà, non come perdita da negare. Significa, in termini politici, pensare la legge non come imposizione ma come campo di mediazione. E accettare che la verità non sia mai tutta, che il soggetto sia sempre decentrato, che nessun sistema possa redimere una volta per tutte la mancanza d’essere.


Conclusione

La modernità è il tempo della mancanza dell’Altro. Nietzsche lo ha anticipato, Lacan lo ha teorizzato, la geopolitica lo conferma. Il rischio è di sostituire l’Altro che manca con dei simulacri assoluti: Dio, mercato, algoritmo, Stato. La sfida è un’altra: abitare il Reale, senza dogmi, senza garanzie, senza padroni. Solo così il soggetto – e forse anche l’Europa – potrà tornare a desiderare.


Breve Bibliografia

  • Nietzsche, F. (1882). La gaia scienza.
  • Lacan, J. (1970). Radiophonie in Autres Écrits.
  • Lacan, J. (1972). Il Seminario XX – Encore.
  • Žižek, S. (2006). Viviamo in tempi interessanti.
  • Han, B.-C. (2014). La società della trasparenza.
  • Esposito, R. (2009). Pensiero vivente.




 



giovedì 17 luglio 2025

I disturbi di personalità

  I disturbi di personalità sono modi di essere stabili e rigidi, che creano disagio a chi li vive e a chi è loro vicino. Il soggetto che ne soffre tende a non percepire il problema in sé, ma a viverlo come proveniente dall’esterno: le relazioni, il mondo, gli altri.

Secondo il DSM-5, si tratta di modelli duraturi e disfunzionali di esperienza e comportamento, che si manifestano fin dalla prima età adulta e provocano compromissione nel funzionamento sociale, lavorativo e affettivo.

Non si tratta di semplici tratti caratteriali, ma di configurazioni soggettive pervasive, che resistono al cambiamento e generano una sofferenza relazionale cronica.


🧩 Un quadro clinico variegato

Il DSM suddivide i disturbi di personalità in dieci categorie, raggruppate in tre cluster. Per chiarezza espositiva, possiamo sintetizzare i più rilevanti:

Borderline: instabilità dell’identità, delle relazioni e delle emozioni. Il soggetto oscilla tra idealizzazione e svalutazione, tra dipendenza e rottura, tra euforia e vuoto.

Narcisistico: bisogno di ammirazione, grandiosità, ma anche ipersensibilità al giudizio e vergogna non detta.

Paranoide: diffidenza costante, lettura persecutoria delle intenzioni altrui.

Evitante: ansia sociale intensa, timore del giudizio, evitamento delle relazioni intime.

Antisociale: inosservanza delle norme, disinibizione, uso dell’altro come mezzo.

Queste configurazioni sono descrittive ma non spiegano il perché soggettivo. Per farlo, è necessario andare oltre la classificazione.


🧠 Oltre le etichette: la struttura soggettiva

In psicoanalisi – soprattutto nell’orientamento lacaniano – non si lavora con disturbi, ma con strutture: nevrosi, psicosi, perversione.

Quello che il DSM chiama “disturbo borderline” può, ad esempio, corrispondere a:

una nevrosi grave, con angoscia di castrazione non simbolizzata;

una psicosi non scompensata (psicosi ordinaria), dove manca un ancoraggio simbolico (il Nome-del-Padre), ma esistono supplenze stabili (il corpo, l’Altro, l’amore);

oppure a una posizione che sfugge alle categorie cliniche classiche, ma in cui il discorso del soggetto può orientare il lavoro clinico.

In ogni caso, non si tratta di tipologie ma di logiche del funzionamento soggettivo:

Come si posiziona il soggetto rispetto al desiderio?

Che posto ha l’Altro nella sua economia psichica?

In che modo gestisce il godimento e la legge?


👤 Un esempio clinico

Una donna giovane arriva in consultazione dopo l’ennesima rottura affettiva. Alterna momenti di seduzione e idealizzazione a improvvise crisi di rabbia e chiusura. Si descrive come “sempre tradita” ma anche “distruttiva”, teme l’abbandono ma spinge l’altro ad andarsene. Usa il corpo come superficie di sfogo (autolesioni, tatuaggi compulsivi), si sente vuota, ma rifiuta ogni inquadramento psichiatrico.

In ottica DSM: disturbo borderline di personalità.

In ottica lacaniana: assenza di un riferimento simbolico stabile, immersione in un godimento non mediato, oscillazione continua tra domanda e attacco.

Il lavoro analitico si fonda sulla possibilità che qualcosa del desiderio emerga, al di là delle richieste e delle identificazioni fittizie.


🔍 Diagnosi differenziale: non solo tratti

Molti tratti “paranoidi”, “narcisistici” o “evitanti” possono appartenere a strutture diverse:

Il paranoide può essere un ossessivo (nevrotico) o un psicotico (con delirio compensato).

Il narcisista può avere struttura isterica, con il desiderio regolato dallo sguardo dell’Altro.

L’evitante può essere nevrotico fobico, oppure un soggetto che tenta di limitare l’eccesso del godimento psichico.

La differenza non è nei comportamenti, ma nella logica del discorso, nel posto che ha la legge, e nella posizione rispetto alla castrazione.


🧭 Il trattamento: sostenere una posizione soggettiva

Con i soggetti “di personalità”, il lavoro non consiste nel correggere il comportamento, ma nel favorire un passaggio dalla ripetizione alla parola.

Ciò implica:

ascoltare ciò che si ripete senza cercare di correggerlo subito;

non imporsi come Altro che sa, ma costruire un transfert che tenga;

consentire l’emergere del desiderio, anche là dove il soggetto sembra perso nel godimento o nella difesa paranoica.


📍 Conclusione

I disturbi di personalità ci mostrano forme diverse della difficoltà a stabilire un legame simbolico stabile. Sono tentativi soggettivi – spesso disperati – di tenersi insieme, difendersi, esistere.

L’approccio psicoanalitico non cancella la diagnosi, ma la attraversa, cercando di restituire dignità alla sofferenza e possibilità al soggetto. Anche ciò che appare carattere può diventare tratto singolare, se attraversato dalla parola.





DSA e psicoanalisi: quando l’errore parla

Nel Seminario XXIII, Jacques Lacan introduce il termine sinthomo: non un sintomo da “curare”, ma un modo unico, personale, con cui ciascuno tiene insieme il proprio rapporto con il corpo, il linguaggio e ciò che procura piacere o fastidio. È un equilibrio soggettivo, più che un problema da eliminare.

Con questo sguardo, i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) – dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia – possono essere letti non solo come difficoltà cognitive, ma come modalità soggettive con cui un bambino si rapporta al sapere, alla scuola e al mondo degli adulti.

Oltre alla lettura psicoanalitica, sappiamo oggi che i DSA hanno una base neurobiologica e genetica: studi di neuroimaging e genetica mostrano differenze cerebrali e predisposizione ereditaria, che influenzano l’elaborazione di lettura, scrittura e calcolo. L’approccio psicoanalitico non contraddice questi dati, ma si concentra su come il soggetto vive e gestisce la propria difficoltà.


Dislessia: leggere come esperienza simbolica

La lentezza o gli errori nella lettura possono riflettere una forma di resistenza soggettiva, più che una semplice difficoltà tecnica. Leggere ad alta voce può essere percepito come un atto di sottomissione a un sapere vissuto come opprimente.

  • In termini lacaniani, il bambino negozia il rapporto tra linguaggio e desiderio: gli errori diventano un modo di affermare la propria soggettività, senza rinunciare al piacere o alla propria identità.


Disortografia: l’errore come firma personale

Molti bambini conoscono le regole ortografiche, ma continuano a commettere errori. L’errore può diventare una strategia soggettiva, un modo per esprimere sé stessi e la propria differenza in contesti familiari o scolastici percepiti come esigenti.

  • Questo non significa trascurare l’apprendimento, ma riconoscere che l’errore può essere un segnale del modo personale di costruire il sinthomo.


Disgrafia: il corpo che incontra il linguaggio

Scrivere implica lasciare che il corpo si lasci attraversare dal linguaggio. Blocchi, tratto incerto o interrotto possono indicare una resistenza corporea simbolica.

  • Dal punto di vista lacaniano, il corpo segnala il proprio rapporto unico con il linguaggio e con il desiderio: strumenti compensativi come tablet o penne digitali possono diventare parti del sinthomo, aiutando il bambino a mantenere equilibrio e motivazione.


Discalculia: il numero e la Legge

Il numero spesso rappresenta la regola, la separazione, la misura. Alcuni bambini rifiutano il calcolo o le tabelline non per una difficoltà cognitiva pura, ma perché il numero diventa un segnale di distacco o separazione.

  • Questo può accadere in contesti dove il legame emotivo è molto intenso o percepito come vincolante. L’uso di strategie ludiche o strumenti compensativi permette al bambino di gestire la distanza simbolica e il proprio rapporto con la Legge.


Conclusione: ascoltare e accompagnare

Una lettura lacaniana dei DSA invita a non ridurre il disturbo a un difetto da correggere, ma a riconoscere il bambino come soggetto. Interventi efficaci combinano supporto educativo, strumenti compensativi e ascolto psicoanalitico, aiutando il bambino a trovare un modo sostenibile e personale di rapportarsi al sapere.

Il disturbo diventa così un punto di partenza, un’occasione per comprendere come il soggetto costruisce il proprio legame con linguaggio, corpo e desiderio. Ogni difficoltà o errore può essere la traccia di un bambino che cerca la propria voce.


Per chi vuole approfondire:

  • J. Lacan, Seminario XXIII. Il sinthomo, Einaudi
  • L. Brusa, I disturbi dell’Apprendimento, Quodlibet, 2024

✨ Ogni “errore” può essere letto come la traccia di un modo unico di stare al mondo.


mercoledì 16 luglio 2025

Dio è inconscio. Perché l’ateismo non basta

 



«La vera questione dell’ateismo è che Dio è inconscio»
— Jacques Lacan, Seminario XX – Encore (1972–1973)

 

Lacan non ha mai smesso di sorprenderci con le sue formule taglienti e provocatorie. Ma tra tutte, una spicca per la sua potenza teorica e simbolica:


«La vera questione dell’ateismo è che Dio è inconscio».


Una frase che rovescia la prospettiva razionalista del moderno “non credente” e ci invita a pensare in modo diverso il rapporto tra soggetto, fede e linguaggio.

L’inconscio non è ateo

Per Lacan, Dio non è un oggetto di fede, ma un significante. Non qualcosa da credere o negare, ma una funzione simbolica: il nome dell’Altro assoluto, del punto da cui proviene la Legge, il senso, la colpa, il desiderio stesso.
Quando dice che Dio è inconscio, Lacan non intende che Dio si nasconde in qualche angolo della psiche, ma che la funzione di Dio opera nella struttura del linguaggio stesso, là dove prende forma l’inconscio.

Freud aveva già mostrato che la religione nasce da bisogni profondi: la protezione, la colpa, il bisogno di un Padre. Ma Lacan va oltre: anche se ci si dichiara atei, il “posto di Dio” può continuare a strutturare il nostro rapporto con l’ideale, con la Legge, con il godimento.


Anche l’ateo ha un Dio

Il soggetto che dice “non credo” non è per questo liberato dalla funzione che Dio occupava nel proprio discorso.
Anzi: se non ha elaborato quel significante, Dio può ritornare sotto altre forme.
Può diventare Scienza assoluta, Ideale morale, Mercato, Nazione, Progresso, Successo.
L’ateo non è immune dal sacro. Lo ha solo spostato.

In questo senso, l’ateismo ingenuo è una rimozione, non una liberazione. È il rischio di non sapere più come e dove Dio agisce dentro di sé, nel proprio modo di desiderare, obbedire, colpevolizzarsi.
Un ateismo che non attraversa l’inconscio può essere più dogmatico di molte fedi.


La traversata del significante “Dio”

Lacan non ci chiede di credere in Dio. Ci invita a trattare il significante “Dio” come un sintomo, qualcosa che ha strutturato il soggetto e che merita ascolto, non negazione.
L’unica forma di “ateismo” autentico, in questa prospettiva, è un’elaborazione soggettiva della funzione di Dio nell’inconscio.
Un lavoro che passa per il riconoscimento di come abbiamo ricevuto la Legge, di cosa ci comanda da dentro, di come immaginiamo il nostro giudice, la colpa, la redenzione.

L’ateismo non è dire “Dio non esiste”, ma interrogare il luogo da cui Dio parlava. Solo così si può disattivare il potere assoluto di quel significante.


Il posto vuoto

Forse, in fondo, l’ateismo radicale è impossibile.
Perché esiste sempre, nella struttura del soggetto, un posto per Dio. Anche solo come vuoto.
E questo vuoto — che può chiamarsi mancanza, Legge, Altro, Nome-del-Padre — non è qualcosa da colmare, ma da abitare consapevolmente.

L’etica che ne deriva non è quella del credente né quella del razionalista, ma di chi sa che non c’è garanzia.
Che il senso non è dato.
Che l’Altro non esiste, ma ci parla lo stesso.
E che Dio, anche rimosso, lascia tracce nel modo in cui parliamo, godiamo, desideriamo.


Conclusione

“La vera questione dell’ateismo è che Dio è inconscio” non è una formula mistica, ma una diagnosi strutturale.
Non si può semplicemente liberarsi di Dio, come non ci si libera del desiderio o del linguaggio.
Ci si può solo interrogare:

  • Quale posto occupa Dio nella mia storia?
  • In che forma parla ancora in me?
  • Quali nomi lo hanno sostituito?

In questa traversata, non c’è verità assoluta, ma un soggetto che si responsabilizza del proprio rapporto con l’Altro, anche quando l’Altro è silenzioso.


lunedì 14 luglio 2025

L'Isteria oggi: quando il sintomo interroga il desiderio

 

L’isteria non è scomparsa con le donne in crinolina dell’Ottocento. Non è nemmeno una “malattia di genere”, come certi luoghi comuni ancora suggeriscono. L’isteria, nel linguaggio della psicoanalisi, è una struttura soggettiva, un modo specifico di stare nel mondo, di soffrire e di cercare una verità su di sé… chiedendola all’Altro.

Che cos’è oggi l’isteria?

L’isterico contemporaneo non arriva più in seduta con paralisi isteriche o svenimenti. Piuttosto, si presenta con sintomi somatici fluttuanti, crisi d’ansia, sensazioni di vuoto, bisogno costante di approvazione, oppure con un'identità che cambia di continuo. Ma dietro tutto questo, c’è sempre una domanda implicita: “Chi sono per te?”.

È una domanda rivolta all’Altro – che sia il partner, un genitore, un capo, o anche il terapeuta. Il soggetto isterico si mette al posto dell’oggetto del desiderio dell’Altro, vuole piacere, vuole essere riconosciuto… ma senza mai identificarsi completamente con quel posto. C’è sempre una scissione, una tensione, una sfida.

Due esempi clinici

  • Donna, 27 anni, cambia spesso lavoro, relazioni, città. Ha dolori cronici senza cause mediche evidenti. Dice: “Non so mai cosa voglio davvero”. Ogni cambiamento è una nuova scena in cui spera di trovare finalmente la “risposta” a chi è.

  • Uomo, 42 anni, ha attacchi di panico e si sente sempre sotto pressione: “Devo essere perfetto per non essere abbandonato”. Vive nell’ansia di deludere, ma anche nel rancore di non essere mai davvero visto.

In entrambi i casi, il sintomo funziona come un messaggio cifrato: qualcosa che non riesce a essere detto in parole, ma che si scrive nel corpo o nel comportamento.

La posta in gioco: il desiderio

Nel percorso analitico, l’obiettivo non è “aggiustare” il sintomo o trovare una definizione stabile di sé. Al contrario, si tratta di riconoscere quel vuoto strutturale che abita ogni soggetto, quel punto dove non sappiamo chi siamo – e da lì, dare voce al proprio desiderio.

Per Lacan, l’isteria ha un merito enorme: ha inventato la psicoanalisi, proprio perché ha osato porre all’Altro (medico, scienziato, uomo…) la domanda: “Tu che dici che sai, che ne fai del mio corpo e del mio enigma?”

In conclusione

L’isteria contemporanea non è un disturbo da diagnosticare e contenere. È un modo — a volte doloroso, ma vitale — di mantenere aperta la domanda sul desiderio, su chi siamo per l’Altro, e su chi potremmo essere per noi stessi. Non chiede una risposta definitiva, ma uno spazio dove quella domanda possa finalmente respirare.


giovedì 10 luglio 2025

🌍 Crisi globale: economia, guerra e godimento. Lettura della disgregazione contemporanea


1. Crisi multipla: economia, desiderio, governance

  • Per Marx, la crisi è interna al capitale stesso, che produce contraddizioni tra valore d’uso e accumulazione di plusvalore.
  • Per Keynes, la crisi è fallimento del coordinamento tra investimento, consumo e aspettative: quando nessun attore prende l’iniziativa, il sistema collassa.
  • Per Lacan, il discorso capitalista produce un godimento senza mancanza, dove l’Altro simbolico è espulso e il soggetto funziona come ingranaggio.

Insieme, questi tre sguardi ci mostrano un mondo in cui:

  • il capitale cerca solo accumulazione,
  • lo Stato ha rinunciato a ogni funzione anticiclica e coordinativa,
  • il soggetto è sottomesso al godimento cieco.


2. La guerra come manifestazione catastrofica delle contraddizioni

Le guerre in Ucraina e Gaza non sono solo eventi politici o geopolitici: sono la manifestazione catastrofica delle contraddizioni sistemiche.

  • Per Marx, la guerra è spesso una "valvola di sfogo" per il capitale in crisi, un modo per distruggere capitale e forza lavoro in eccesso, e rilanciare cicli di accumulazione.
  • Per Keynes, la guerra esplode quando fallisce il coordinamento economico tra Stati, e l’investimento pubblico viene sostituito dalla corsa agli armamenti e dalla logica del panico.
  • Per Lacan, la guerra rappresenta il ritorno del reale in forma cruda: quando la parola viene espulsa, resta solo il godimento dell’annientamento.

L’assenza di un Altro simbolico condiviso – sia esso la diplomazia, il diritto internazionale, o la cooperazione economica – lascia spazio a identità paranoiche, fantasie di purezza, potere senza legittimità.

Le guerre contemporanee sono dunque il luogo in cui convergono:

  • la crisi della rappresentanza,
  • la crisi del capitale,
  • la crisi del senso.

Sono, a tutti gli effetti, il punto di rottura del legame globale.


3. Disordine geopolitico: dal mercato mondiale a zone di godimento

Keynes sognava un mondo coordinato attraverso istituzioni multilaterali (FMI, Banca Mondiale) e bilanciamenti commerciali (Bretton Woods). Oggi, invece, assistiamo a:

Zona Logica dominante Sintomo
USA Politica monetaria + dazi Ritorno al protezionismo competitivo
Cina Investimento statale strategico Capitalismo guidato ma opaco
UE Austerità e paralisi Frammentazione interna
Russia Comando verticale Guerra come strumento di coesione
Israele Ethno-capitalismo militarizzato Guerra permanente
Sud globale Dipendenza e shock esterni Reazioni a catena di instabilità

Marx direbbe: è la crisi terminale del mercato mondiale. Keynes: è la rottura della fiducia sistemica. Lacan: è il godimento che rifiuta l’Altro.


4. Il fallimento dell’intervento pubblico

Un punto decisivo in ottica keynesiana è che gli Stati, dopo la crisi del 2008, hanno:

  • salvato le banche, ma non riformato i meccanismi del profitto;
  • stampato moneta, ma non investito in infrastrutture o redistribuzione;
  • alimentato la speculazione, ma non riattivato la domanda interna in modo duraturo.

Ciò ha alimentato:

  • l’accumulazione di debito pubblico senza contropartita produttiva,
  • il ritorno delle élite finanziarie come nuovi padroni,
  • l’inflazione come conflitto redistributivo irrisolto.

In ottica lacaniana, lo Stato non è più garante dell’Altro, ma funziona come S1 amministrativo, gestore di algoritmi, incapace di produrre legame.


5. Antigone e il rifiuto del “funzionamento senza soggetto”

In un mondo in cui:

  • il capitalismo si auto-riproduce senza limiti,
  • il discorso sociale è strutturato sull'eccitazione e sul controllo,
  • lo Stato abdica alla sua funzione regolativa,

Antigone diventa figura politica fondamentale: non è nostalgia dell’ordine, ma testimonianza di un’etica del limite.

In termini keynesiani:

  • serve una nuova volontà collettiva che rompa l’equilibrio perverso tra rendita e miseria, tra algoritmo e guerra.

In termini lacaniani:

  • serve una riapertura del desiderio, che rimetta la mancanza al centro del legame.


Conclusione: senza mancanza, senza progetto

Per Marx, la crisi viene dal profitto cieco. Per Keynes, dal fallimento della fiducia e dell’intervento pubblico. Per Lacan, dalla cancellazione della mancanza e dell’Altro.

Oggi, le tre crisi coincidono:

  • crisi economica (disuguaglianze, inflazione, debito),
  • crisi politica (guerre, nazionalismi, ritorno del comando),
  • crisi simbolica (assenza di desiderio, saturazione del godimento).

In assenza di soggetti che manchino, progettino, coordinino e parlino, il mondo si disgrega tra comando militare e funzionamento algoritmico.

La posta in gioco non è solo il PIL, ma la possibilità stessa del legame umano e politico.


📚 Bibliografia essenziale

  • Karl Marx, Il Capitale, vol. I-III
  • John M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, 1936
  • Jacques Lacan, Il seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi, 1969-70
  • Wolfgang Streeck, Tempo guadagnato, 2013
  • Nancy Fraser, Capitalismo cannibale, 2022
  • Alain Badiou, La vera vita, 2016
  • Slavoj Žižek, Il coraggio della disperazione, 2017
  • Christian Marazzi, Capitale e Linguaggio 


mercoledì 9 luglio 2025

Leader e Formazioni Politiche


Introduzione

La relazione tra leader e massa è un nodo centrale per comprendere le dinamiche politiche contemporanee. Fin da Freud (Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 1921), la psicoanalisi ha messo in luce come il leader operi come figura d’identificazione primaria, capace di organizzare il desiderio e canalizzare l’investimento libidico collettivo.

Con Lacan, e in particolare con la teoria dei quattro discorsi (Il rovescio della psicoanalisi, 1969-70), il leader appare non tanto come individuo carismatico, ma come funzione simbolica, un punto di sutura che tiene insieme un legame sociale. Ogni tipo di leadership si può così leggere in relazione a una struttura psichica, a un discorso dominante, e a una particolare modalità con cui la massa si organizza attorno a essa.


Tipi di Leadership, Strutture Psichiche e Legame Sociale

Tipo di leadership Struttura psichica del leader Discorso dominante Struttura della massa Esempi
Perversa Perversa Discorso del Padrone Complicità feticistica, godimento trasgressivo Hitler, Mussolini, Trump, tratti in Putin
Paranoide Paranoide Padrone / Universitario Identificazione persecutoria, coesione nell’odio Stalin, Netanyahu (in parte), Putin
Isterica Isterica Discorso dell’Isterica Idealizzazione, domanda etica incessante Zelensky, Greta Thunberg, leader progressisti UE
Ossessiva Ossessiva Universitario / Padrone Adesione razionale, controllo difensivo De Gaulle, Cavour, Draghi
Generativa Simbolicamente situata Padrone pluralizzato / Analista Simbolizzazione condivisa, cooperazione orizzontale Gandhi, M.L. King, Allende, Spinelli, Delors
Analitica Funzione di causa (liminare) Discorso dell’Analista Soggettivazione, apertura del desiderio Leader decentrati, assemblearismo radicale


Leader perversi: la legge come godimento

Le leadership perverse, come quelle di Hitler e Mussolini, si fondano su un godimento autoritario: la Legge non è simbolica ma volontà personale del leader. Le masse non vi si oppongono, ma vi aderiscono in modo feticistico, trovando godimento nell’obbedienza e nella sottomissione. Il leader perverso si offre come oggetto causa del godimento collettivo, convertendo il desiderio in fedeltà cieca.

Donald Trump rappresenta una versione postmoderna di questa struttura: la sua leadership non si fonda su coerenza o verità, ma sulla capacità di mobilitare un godimento trasgressivo, fondato sulla rottura con il politicamente corretto, sull’oscenità comunicativa e sull’identificazione narcisistica. Trump non governa: seduce, provoca, incarna il desiderio del "dire ciò che nessuno osa dire". La sua parola è feticcio, non messaggio.

Nelle masse che lo seguono si attiva un godimento condiviso: il piacere di vedere infranta la Legge simbolica delle élite, delle istituzioni, della civiltà liberale. Il suo potere non si basa sulla verità ma sulla performatività: è vero perché è stato detto da lui.


Leader paranoidi: il nemico come collante

La leadership paranoide costruisce il legame sociale attorno a una minaccia: il Nemico è l’elemento coesivo. Il leader paranoide – come Stalin, o in parte Netanyahu – organizza la massa in funzione difensiva, trasformando l’angoscia in identificazione persecutoria.

Putin fonde questa modalità con elementi perversi: da un lato costruisce un’identità nazionale attraverso la minaccia esterna (NATO, Occidente, dissidenti), dall’altro si pone come figura intoccabile, che incarna la Legge come potere assoluto. La sua leadership è fredda, autoritaria, impermeabile alla domanda.


Leader isterici e ossessivi: la domanda e la norma

Il leader isterico, come Zelensky o Greta Thunberg, si rivolge all’Altro con una domanda etica incessante: perché questo mondo è così ingiusto? Non propone risposte, ma attiva movimenti, sollecita, inquieta. Questo stile può mobilitare grandi energie, ma tende anche all’instabilità, perché non si fonda su una simbolizzazione forte ma su una tensione.

Il leader ossessivo, al contrario, cerca ordine e coerenza. Agisce a partire da un principio normativo o tecnico. È il caso di De Gaulle, Cavour, e – in forma tecnocratica – di Mario Draghi, che incarna una leadership razionale, controllata, difensiva. La massa si identifica con la solidità, con la promessa di un sapere esperto, spesso depoliticizzato.


Leader generativi e analitici: simbolo e desiderio

La leadership generativa produce simbolizzazione. Non impone, ma orienta. Leader come Gandhi, Martin Luther King o Salvador Allende non si pongono come padroni, ma come figure situate simbolicamente, capaci di dare forma al desiderio collettivo. In Europa, solo parzialmente alcune figure come Altiero Spinelli o Jacques Delors hanno incarnato questo stile, promuovendo un’Europa come progetto etico e politico condiviso.

La leadership analitica, infine, è rara. Non si presenta come guida, ma come funzione che causa desiderio. Il leader analitico non occupa il posto del sapere né quello del godimento, ma apre lo spazio della parola, della soggettivazione. Alcune esperienze assembleari, movimenti orizzontali, forme di militanza senza leader, possono essere lette in questa prospettiva.


Leadership europea: crisi simbolica e ricerca di senso

La leadership europea attuale si presenta come frammentata, oscillante, spesso simbolicamente povera. Alcuni leader (Draghi, Scholz) adottano un tono ossessivo-tecnocratico; altri (Macron) oscillano tra isteria e decisionismo padronale. Le forze progressiste, quando esistono, parlano con registro isterico, ma faticano a proporre un significante unificante.

In questo contesto, l’Europa appare più come apparato amministrativo che come luogo desiderabile. Manca una leadership generativa, capace di parlare al desiderio e non solo al bisogno. Manca un significante condiviso che nomini il legame. Dove non c’è simbolizzazione, il potere torna a oscillare tra burocrazia e populismo.


Conclusione: verso una nuova funzione del leader?

In un’epoca segnata dalla crisi della rappresentanza, dal ritorno del godimento autoritario e dalla scomposizione del legame sociale, ripensare la funzione del leader significa interrogare ciò che tiene insieme una collettività.

Non si tratta di scegliere tra carisma o competenza, ma di interrogare il luogo simbolico del leader: è ancora possibile una leadership che non catturi il desiderio, ma lo orienti senza dominarlo? È possibile passare dalla fascinazione all’etica, dalla padronanza alla responsabilità?

La psicoanalisi ci offre una bussola per leggere il presente. Ma il futuro resta aperto.


Bibliografia essenziale

  • Freud, S. (1921). Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Opere, vol. XI.
  • Lacan, J. (1969-70). Il rovescio della psicoanalisi. Seminario XVII.
  • Recalcati, M. (2007). L’uomo senza inconscio. Raffaello Cortina.
  • Lazzarato, M. (2012). La fabbrica dell’uomo indebitato. DeriveApprodi.
  • Žižek, S. (2006). La soggettivazione politica. Meltemi.


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