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giovedì 17 luglio 2025

Adattarsi ai contesti lavorativi e sociali

Adattarsi non significa solo funzionare

In psicoanalisi, e in particolare secondo Jacques Lacan, l’adattamento non coincide con il semplice “funzionare bene”. Non è solo efficienza o inserimento sociale. È piuttosto il modo in cui il soggetto si colloca nel discorso dell’Altro: l’insieme di leggi, aspettative, ruoli e valori che lo circondano.

Fin dalla nascita, entriamo in un mondo di parole, norme e richieste. Lacan chiama questo insieme l’Altro (con la A maiuscola): non è una persona, ma il linguaggio, la cultura, le istituzioni. Adattarsi significa confrontarsi con ciò che l’Altro vuole da noi — ma anche con ciò che non possiamo essere per lui.


Adattamento e invisibilità

Pensiamo a un giovane migrante: nel suo paese era studente, figlio, tecnico. Nel nuovo contesto è visto solo come manodopera. Questo mancato riconoscimento può generare disagio, apatia, sintomi. Il problema non è la “scarsa motivazione”: è il desiderio che non trova posto. Il soggetto si sente invisibile.

Lacan individua al centro dell’identità un significante fondamentale, chiamato significante padrone (S1). È una parola o un’idea che organizza il senso di sé: “insegnante”, “giusto”, “madre”, “lavoratore instancabile”… Ma se questo significante ci è imposto, o viene meno, può generare smarrimento o vuoto.

Accade, ad esempio, in certi percorsi lavorativi protetti per persone con disabilità. Anche se l’attività è utile, se non tocca il desiderio rimane esterna, meccanica. Non trasforma il soggetto, non incide sulla sua posizione nel mondo. Il lavoro, per essere esperienza viva, deve avere senso soggettivo.


Oggetto a: la causa del desiderio

Un concetto centrale è l’oggetto a: non è un oggetto materiale, ma ciò che ci manca e ci spinge a desiderare, a creare, a legare. È la causa del desiderio. Non è ciò che siamo, ma ciò attorno a cui ci costituiamo. Ritrovare un legame con questo oggetto permette di tornare a vivere, anche se in modo fragile.

Il rischio è che l’ambiente sociale riduca le persone a funzioni: “quello che produce”, “quella che assiste”. Qui l’adattamento si trasforma in alienazione: il soggetto si adegua, ma smette di esistere come soggetto desiderante. La sua parola si spegne.


Inventare una posizione propria

La psicoanalisi non propone tecniche per adattarsi meglio. Offre piuttosto uno spazio per trovare una posizione singolare nel legame sociale. Non si tratta sempre di ribellarsi, ma di inventare un modo proprio di esserci, anche nei limiti.

Viviamo in un tempo che esige flessibilità continua. Ma il vero benessere non nasce dalla conformità. Nasce dalla possibilità di esprimere qualcosa di proprio, nel lavoro, nei legami, nella vita. Solo così si può parlare di un adattamento che non annulla il soggetto, ma lo include.


Crisi esistenziali

Quando il senso vacilla

Ci sono momenti nella vita in cui ci si sente smarriti. Ciò che prima dava senso — il lavoro, i legami, i progetti — improvvisamente appare vuoto o estraneo. Non è solo tristezza o stanchezza, ma una perdita di orientamento più profonda. Ci si comincia a chiedere: chi sono? cosa desidero davvero? quale direzione prendere?

Questa condizione, che possiamo chiamare crisi esistenziale o crisi identitaria, non è necessariamente una malattia. Spesso nasce da un cambiamento importante, da una perdita, o da un disagio silenzioso che si è accumulato nel tempo. È come se dentro di noi si facesse strada una voce che dice: “così non funziona più”.


L'identità costruita nel linguaggio dell’Altro

Secondo Lacan, ognuno costruisce la propria identità attraverso le parole e le immagini che riceve dagli altri: la famiglia, la scuola, la società. Sono questi i significanti che ci danno un nome, un ruolo, un posto nel mondo. Ma arriva un momento in cui quei significanti non bastano più: non ci rappresentano, o addirittura ci stanno stretti. Il soggetto — come lo chiama Lacan — si scopre allora diviso, in tensione tra ciò che ha sempre mostrato e qualcosa di più profondo che fatica a emergere.

In questi momenti entra in crisi anche il rapporto con l’Altro: non solo le figure significative della nostra vita, ma tutto ciò che rappresenta l’insieme delle regole, della cultura, delle aspettative sociali. Quando l’Altro smette di offrire risposte — oppure quando ci accorgiamo che quelle risposte non ci bastano più — può aprirsi un tempo di vuoto. Ma anche un tempo di apertura.


La differenza con la depressione

A differenza della depressione, dove spesso tutto si spegne e si perde interesse per ogni cosa, nella crisi esistenziale rimane viva una domanda soggettiva: chi sono davvero? cosa mi muove? cosa desidero al di là di ciò che mi è stato insegnato a volere?

La psicoanalisi non offre risposte preconfezionate, ma uno spazio dove queste domande possono essere ascoltate e percorse. Anche ciò che non si riesce a dire — un sintomo, un blocco, un disagio — può cominciare a prendere forma. Lacan chiama “reale” proprio ciò che ci sfugge, che non ha parole, ma insiste: nei sogni, nel corpo, nell’angoscia.


Verso un modo più autentico di esserci

Un percorso analitico non mira a “tornare come prima”. Al contrario: può aiutare a trovare un modo più autentico di stare al mondo, anche se inizialmente incerto. A volte, per riprendere il filo della propria vita, è necessario accettare che qualcosa debba cambiare. La crisi, allora, non è solo rottura: può essere anche una soglia, un passaggio verso un’esistenza più fedele al proprio desiderio.





Crescita personale

 

1. Non si nasce soggetti

Dal punto di vista psicoanalitico, crescere non coincide semplicemente con lo sviluppo fisico o con l’adattamento sociale. Non si tratta di diventare “grandi” nel senso comune, ma di diventare soggetti: ossia esseri capaci di desiderare in proprio, di interrogarsi sul senso della propria esistenza, di rispondere — con parole proprie — a ciò che accade.


Il soggetto, dice Lacan, è un effetto del linguaggio: si struttura nel rapporto con l’Altro, nel modo in cui riceve e interpreta i segni, i nomi, i silenzi, gli sguardi. Crescere, allora, significa passare da una posizione passiva — in cui si è parlati dall’Altro — a una posizione attiva, in cui si prende parola e si assume la propria mancanza.


2. Separarsi dall’ideale

Crescere comporta una perdita: lasciare andare l’ideale dell’Altro. Tutti siamo cresciuti con immagini interiorizzate di ciò che “dovremmo essere”: il bravo bambino, il figlio realizzato, il genitore competente, l’adulto sicuro. Ma finché restiamo aggrappati a questi ideali, non possiamo davvero scegliere.

La crescita soggettiva avviene quando ci si separa da questi modelli: non per ribellione, ma per scoprire che il proprio desiderio non coincide con quello altrui. È il momento in cui si comincia a dire “io” non come imitazione, ma come atto.


3. Incontrare la mancanza

Nel processo di crescita, prima o poi, ci si imbatte in un punto di crisi. Un sintomo, una rottura, un fallimento, un lutto. È qui che si apre la possibilità di un passaggio soggettivo. Il soggetto si costituisce nella mancanza, non nella pienezza. Ma per arrivare a riconoscerlo serve tempo, e soprattutto un luogo dove questo vuoto possa essere detto — e non subito riempito.

Molte richieste di terapia nascono da questi punti di frattura: "Non so più cosa voglio", "Mi sento vuoto", "Ho tutto ma non sto bene". In questi casi, il dolore non va eliminato in fretta, ma ascoltato come segnale di un desiderio che bussa, spesso da anni, senza trovare parola.


4. Fare con ciò che manca

La crescita non è mai lineare. Non si diventa “composti” o “risolti”. Si impara piuttosto a fare con ciò che manca: con ciò che non si sa di sé, con i propri limiti, con l’incoerenza del proprio desiderio. Crescere significa non aspettarsi più che l’Altro risponda al nostro enigma, ma iniziare a rispondere noi stessi, con atti, con scelte, anche parziali.

Questa posizione non coincide con l’autosufficienza, ma con la responsabilità soggettiva. Si cresce quando si smette di incolpare gli altri o il destino, e si comincia a interrogarsi: Cosa posso farne io di ciò che mi è toccato vivere?


5. Crescita e desiderio

In ultima analisi, crescere significa trovare un modo soggettivo di abitare il proprio desiderio. Un desiderio che non si fonda sull’oggetto da possedere, ma sulla tensione che muove la vita. La psicoanalisi non mira a “far star bene” nel senso adattivo del termine, ma a sostenere il soggetto nel compito più difficile e più etico: desiderare a partire da sé, e non da un copione prestabilito.


Conclusione: un atto, non una meta

Crescere non è un traguardo. È un atto che si rinnova ogni volta che si sceglie di non restare bloccati in una posizione morta, ogni volta che si rinuncia all’ideale per farsi carico della propria singolarità. Nel tempo dell’efficienza e dell’automiglioramento, questa prospettiva è controcorrente: crescere non vuol dire diventare migliori, ma più veri.



Ciclo di vita

  Quando pensiamo al ciclo della vita, spesso immaginiamo una sequenza ordinata di tappe: infanzia, adolescenza, età adulta, vecchiaia. Ma la psicoanalisi lacaniana ci invita a guardare oltre questa idea lineare. Per Lacan, la vita psichica del soggetto non procede semplicemente “in avanti” nel tempo, ma si struttura attraverso momenti speciali, veri e propri punti di svolta in cui il soggetto deve confrontarsi con questioni fondamentali legate al proprio desiderio e alla propria identità.

Vediamo insieme come si può leggere l’adolescenza, l’età adulta e la vecchiaia secondo questo punto di vista.


Adolescenza: la scoperta di sé attraverso la crisi

L’adolescenza è spesso vista come un periodo difficile, pieno di contraddizioni, ribellioni, confusione. Lacan la interpreta come un momento in cui il soggetto si scontra per la prima volta con un vuoto profondo: quello di un Altro che non può più dire chi sei, che non garantisce più un senso chiaro.

Il corpo cambia, la sessualità emerge, e ciò che prima era scontato si fa improvvisamente enigmatico. L’adolescente si trova così a dover inventare una nuova posizione rispetto a sé stesso e al mondo, perché il linguaggio e le regole che fino a quel momento lo sorreggevano sembrano perdere forza.

Questo si manifesta in tanti modi: momenti di chiusura, comportamenti provocatori, agiti, ma anche tentativi silenziosi di ritrovare un senso attraverso la parola o la creatività.

Come intervenire?

La psicoanalisi non cerca di “aggiustare” questi comportamenti, né di imporre un modello di comportamento “normale”. Piuttosto, offre uno spazio in cui l’adolescente può esprimere il proprio disagio e cominciare a nominare ciò che sente dentro, anche quando è confuso o contraddittorio. Spesso bastano piccoli segnali, parole lasciate in sospeso, per aprire una strada verso la scoperta di un desiderio proprio, che non sia solo la ripetizione di ciò che l’Altro vorrebbe.


Età adulta: il compromesso con il proprio desiderio

L’età adulta è spesso descritta come il momento della stabilità: lavoro, famiglia, ruoli sociali. Lacan invece la vede come il tempo in cui il soggetto cerca un compromesso tra il proprio desiderio e le esigenze dell’Altro, cioè la società, la cultura, i valori condivisi.

In questa fase, molte persone si trovano a vivere una forma di alienazione: fanno scelte di vita non sempre consapevoli, si sacrificano per doveri o aspettative, perdendo di vista ciò che realmente desiderano. I sintomi come ansia, stress, o insoddisfazione spesso segnalano questo disallineamento tra sé e l’ideale sociale.

Come intervenire?

La psicoanalisi aiuta a far emergere il senso nascosto dietro il sintomo e a mettere in discussione le scelte ripetute che il soggetto fa, spesso senza piena consapevolezza. L’obiettivo non è far “funzionare meglio” la persona, ma aiutarla a entrare in contatto con ciò che davvero la muove, permettendo un atto di scelta più autentico e libero.

Vecchiaia: la caduta delle maschere e il ritorno all’essenziale

La vecchiaia è spesso associata al declino fisico e sociale, a una perdita di ruolo e di prestigio. Ma da un punto di vista psicoanalitico, è anche un momento di trasformazione profonda: molte delle immagini e dei ruoli che il soggetto aveva costruito nel corso della vita si disfano, lasciando il posto a una nuova modalità di essere.

Può emergere un senso di vuoto, di fallimento, o invece una liberazione dal bisogno di apparire, di “essere qualcuno”. In questa fase, il soggetto può finalmente abitare un godimento più essenziale, legato a piccoli piaceri, alla memoria, a gesti semplici.

Come intervenire?

L’intervento analitico nella vecchiaia non punta a “riattivare” la persona secondo modelli giovanili, ma a sostenere la possibilità di esistere in una nuova forma, più autentica, anche se più fragile. Si tratta di accogliere il tempo che passa, senza forzare la ripresa, valorizzando ciò che resta vivo nel soggetto, spesso attraverso ascolto e attenzione ai dettagli.

Conclusione: una visione del ciclo di vita non lineare

Lacan ci insegna che il soggetto non si sviluppa semplicemente secondo un percorso cronologico prevedibile, ma attraverso momenti di discontinuità e crisi, in cui è chiamato a riorganizzare il proprio rapporto con il desiderio e il mondo.

Adolescenza, età adulta e vecchiaia sono quindi non solo fasi biologiche, ma momenti in cui il soggetto può ritrovarsi, perdersi o reinventarsi.

La psicoanalisi, in questo quadro, non è un “progetto di crescita” ma un sostegno per attraversare questi momenti di crisi, dando spazio a ciò che è singolare e irrepetibile in ciascuno.



Lutto e perdita

  

Nella vita di ogni soggetto si susseguono perdite: alcune visibili, altre silenziose; alcune socialmente riconosciute, altre negate o rimosse. La psicoanalisi non limita il lutto alla morte, ma lo estende a tutte quelle esperienze in cui qualcosa che dava senso, consistenza o identità al soggetto viene meno. La perdita riguarda ciò che cade dal legame con l’Altro e, in questo, tocca sempre un punto strutturale.

Perdita di una persona, di un ruolo, di un luogo, di un’idea di sé: ogni perdita significativa mette in crisi l’immagine che il soggetto ha costruito nel tempo. Lacan ci ricorda che il soggetto è un effetto del linguaggio e del desiderio dell’Altro: quando l’Altro si sottrae, o cambia il suo volto, si produce uno scarto che può aprire al dolore, ma anche alla trasformazione.

Nel lutto, ciò che si perde non è mai solo l’oggetto concreto, ma il posto che quell’oggetto occupava nel proprio mondo simbolico. Il lutto mette a nudo il vuoto strutturale del soggetto, quel “mancare-a-essere” che Lacan ha descritto con la nozione di oggetto a: oggetto causa del desiderio, ma anche oggetto della perdita originaria, mai pienamente colmabile.


Forme del lutto

C’è il lutto manifesto, quello che segue una morte riconosciuta. Ma ci sono anche i lutti muti: l’abbandono, la separazione, la perdita del lavoro, una diagnosi invalidante, la migrazione, l’invecchiamento, la perdita delle illusioni. In questi casi, la società non sempre concede lo spazio per elaborare la perdita. Il soggetto rischia allora di restare solo con il suo dolore, senza parole per dirlo.

Nella clinica, ciò che spesso porta un soggetto in analisi è proprio una perdita non simbolizzata. Si presenta come ansia, stanchezza, vuoto, irritabilità, blocco. Ma sotto, c’è spesso un lutto non fatto. Non si tratta di consolare né di spiegare, ma di dare voce a quella perdita. Di permettere al soggetto di attraversare il proprio modo singolare di separarsi da ciò che non è più, e di riconfigurare il proprio desiderio.


Un esempio clinico

Una paziente si presenta in terapia dopo un trasloco forzato, dovuto a un conflitto familiare. A prima vista, sembra una questione logistica. Ma emergono presto malinconia, insonnia, difficoltà a orientarsi. La perdita della casa si rivela essere perdita del luogo dell’infanzia, del legame con i genitori, del proprio senso di stabilità. Non c’è morte, ma c’è lutto. In analisi, questo evento attuale si collega ad altre perdite precedenti, mai davvero elaborate. Il lavoro analitico consente di nominare ciò che è stato perduto e di ritrovare un punto da cui desiderare.


Non tutto si elabora

La psicoanalisi non promette una guarigione completa. Non tutto si supera, non tutto si chiude. Alcune perdite lasciano un segno permanente. Ma anche ciò che non si può dire pienamente può essere inscritto in una nuova posizione soggettiva. Il lutto, allora, non è solo un dolore da attraversare: è anche un atto, un modo singolare di separarsi, di farsi soggetto della propria mancanza.

In un’epoca che tende a rimuovere il lutto, a sostituire in fretta ciò che si perde, la psicoanalisi offre uno spazio per fermarsi, ascoltare, e dare un senso a ciò che manca. Perché nel luogo della perdita può riemergere il desiderio.

Disabilità e famiglia

  

Quando la disabilità entra in famiglia

Quando in una famiglia entra in scena la disabilità di un figlio, nulla resta come prima. Si modificano gli equilibri, si attivano risorse ma anche fragilità. Il cosiddetto “trauma della diagnosi” non riguarda solo un dato clinico, ma l’interruzione del racconto immaginario che ogni genitore costruisce sul proprio figlio. L’ideale si incrina e può aprirsi uno spazio difficile ma anche generativo: quello dell’incontro con il figlio reale.


Attraversare un lutto simbolico

All’origine di questo processo c’è spesso un lutto silenzioso: quello per il figlio immaginato. Non si tratta di “accettare” in modo lineare, ma di trasformare nel profondo le attese e il proprio ruolo genitoriale. Solo attraversando questa perdita simbolica diventa possibile incontrare davvero il figlio, non più come proiezione, ma come soggetto altro da sé.


Il figlio come soggetto, non oggetto di cura

La persona con disabilità rischia spesso di essere vista come oggetto fragile da proteggere. Ma ogni soggetto, anche se non parla o non si adatta alle aspettative sociali, è portatore di una presenza unica, di segnali che chiedono ascolto. Questo ascolto può passare attraverso un gesto, un silenzio, un rifiuto. Riconoscerlo come soggetto significa lasciar emergere qualcosa di suo, anche se non corrisponde a ciò che si sperava.


La funzione della terza posizione

In molte famiglie, si crea una diade molto stretta tra madre e figlio con disabilità, mentre la figura paterna o una terza posizione simbolica resta sullo sfondo. Lacan chiama questa terza funzione Nome-del-Padre: una separazione che consente a madre e figlio di non essere tutto l’uno per l’altra. Senza questa differenziazione, il figlio rischia di diventare il completamento del desiderio genitoriale, e la disabilità può rinforzare questa dinamica.


Fratelli eccellenti, ma in silenzio

Accanto al figlio con disabilità, spesso ci sono fratelli “perfetti”: autonomi, maturi, responsabili. Ma dietro questa efficienza si nasconde a volte una rinuncia precoce a sé. Alcuni arrivano all’adolescenza o all’età adulta con sintomi depressivi o ritiri sociali. Solo riconoscendo il proprio diritto a esistere come soggetti, e non solo come risorse familiari, possono ritrovare uno spazio per sé.


L’enigma del soggetto e il rispetto del limite

Ogni soggetto ha una parte che sfugge, anche quando si parla di disabilità. Non tutto si può tradurre in bisogni o interventi. La psicoanalisi, con Lacan, ci invita a rispettare questo enigma: educare significa anche saper sostare nell’incertezza, senza voler spiegare tutto. È lì che può emergere il soggetto nella sua singolarità.


Una rete che accompagni senza invadere

La famiglia non deve essere lasciata sola, ma nemmeno sopraffatta da presenze che occupano tutto lo spazio. Le équipe educative e terapeutiche sono preziose se sostengono il legame, senza sostituirlo. Accompagnare vuol dire essere presenti, anche quando non ci sono risposte chiare. È da questa posizione che può nascere una possibilità nuova di vivere insieme, nella difficoltà ma anche nel desiderio.



I disturbi di personalità

  I disturbi di personalità sono modi di essere stabili e rigidi, che creano disagio a chi li vive e a chi è loro vicino. Il soggetto che ne soffre tende a non percepire il problema in sé, ma a viverlo come proveniente dall’esterno: le relazioni, il mondo, gli altri.

Secondo il DSM-5, si tratta di modelli duraturi e disfunzionali di esperienza e comportamento, che si manifestano fin dalla prima età adulta e provocano compromissione nel funzionamento sociale, lavorativo e affettivo.

Non si tratta di semplici tratti caratteriali, ma di configurazioni soggettive pervasive, che resistono al cambiamento e generano una sofferenza relazionale cronica.


🧩 Un quadro clinico variegato

Il DSM suddivide i disturbi di personalità in dieci categorie, raggruppate in tre cluster. Per chiarezza espositiva, possiamo sintetizzare i più rilevanti:

Borderline: instabilità dell’identità, delle relazioni e delle emozioni. Il soggetto oscilla tra idealizzazione e svalutazione, tra dipendenza e rottura, tra euforia e vuoto.

Narcisistico: bisogno di ammirazione, grandiosità, ma anche ipersensibilità al giudizio e vergogna non detta.

Paranoide: diffidenza costante, lettura persecutoria delle intenzioni altrui.

Evitante: ansia sociale intensa, timore del giudizio, evitamento delle relazioni intime.

Antisociale: inosservanza delle norme, disinibizione, uso dell’altro come mezzo.

Queste configurazioni sono descrittive ma non spiegano il perché soggettivo. Per farlo, è necessario andare oltre la classificazione.


🧠 Oltre le etichette: la struttura soggettiva

In psicoanalisi – soprattutto nell’orientamento lacaniano – non si lavora con disturbi, ma con strutture: nevrosi, psicosi, perversione.

Quello che il DSM chiama “disturbo borderline” può, ad esempio, corrispondere a:

una nevrosi grave, con angoscia di castrazione non simbolizzata;

una psicosi non scompensata (psicosi ordinaria), dove manca un ancoraggio simbolico (il Nome-del-Padre), ma esistono supplenze stabili (il corpo, l’Altro, l’amore);

oppure a una posizione che sfugge alle categorie cliniche classiche, ma in cui il discorso del soggetto può orientare il lavoro clinico.

In ogni caso, non si tratta di tipologie ma di logiche del funzionamento soggettivo:

Come si posiziona il soggetto rispetto al desiderio?

Che posto ha l’Altro nella sua economia psichica?

In che modo gestisce il godimento e la legge?


👤 Un esempio clinico

Una donna giovane arriva in consultazione dopo l’ennesima rottura affettiva. Alterna momenti di seduzione e idealizzazione a improvvise crisi di rabbia e chiusura. Si descrive come “sempre tradita” ma anche “distruttiva”, teme l’abbandono ma spinge l’altro ad andarsene. Usa il corpo come superficie di sfogo (autolesioni, tatuaggi compulsivi), si sente vuota, ma rifiuta ogni inquadramento psichiatrico.

In ottica DSM: disturbo borderline di personalità.

In ottica lacaniana: assenza di un riferimento simbolico stabile, immersione in un godimento non mediato, oscillazione continua tra domanda e attacco.

Il lavoro analitico si fonda sulla possibilità che qualcosa del desiderio emerga, al di là delle richieste e delle identificazioni fittizie.


🔍 Diagnosi differenziale: non solo tratti

Molti tratti “paranoidi”, “narcisistici” o “evitanti” possono appartenere a strutture diverse:

Il paranoide può essere un ossessivo (nevrotico) o un psicotico (con delirio compensato).

Il narcisista può avere struttura isterica, con il desiderio regolato dallo sguardo dell’Altro.

L’evitante può essere nevrotico fobico, oppure un soggetto che tenta di limitare l’eccesso del godimento psichico.

La differenza non è nei comportamenti, ma nella logica del discorso, nel posto che ha la legge, e nella posizione rispetto alla castrazione.


🧭 Il trattamento: sostenere una posizione soggettiva

Con i soggetti “di personalità”, il lavoro non consiste nel correggere il comportamento, ma nel favorire un passaggio dalla ripetizione alla parola.

Ciò implica:

ascoltare ciò che si ripete senza cercare di correggerlo subito;

non imporsi come Altro che sa, ma costruire un transfert che tenga;

consentire l’emergere del desiderio, anche là dove il soggetto sembra perso nel godimento o nella difesa paranoica.


📍 Conclusione

I disturbi di personalità ci mostrano forme diverse della difficoltà a stabilire un legame simbolico stabile. Sono tentativi soggettivi – spesso disperati – di tenersi insieme, difendersi, esistere.

L’approccio psicoanalitico non cancella la diagnosi, ma la attraversa, cercando di restituire dignità alla sofferenza e possibilità al soggetto. Anche ciò che appare carattere può diventare tratto singolare, se attraversato dalla parola.





Adolescenza

  

Uno sguardo psicoanalitico

L’adolescenza è un momento complesso e delicato della vita, in cui il corpo, la mente e le relazioni si trasformano profondamente. Non è solo una “fase da superare”, ma un vero e proprio evento soggettivo: l’adolescente cerca un nuovo modo di stare nel mondo e di costruire la propria identità.


Il corpo che cambia e il “reale” della pubertà

Con la pubertà, il corpo si modifica rapidamente e in modo spesso destabilizzante. Lacan parla dell’“evento reale della pubertà”: un cambiamento che arriva senza preavviso e rompe l’equilibrio precedente. Il corpo comincia a vivere un godimento nuovo, difficile da comprendere e da nominare.

Questa trasformazione può generare ansia, vergogna, chiusura o esibizionismo. Sono tentativi di affrontare un reale che sfugge al controllo e alla parola.


La crisi dei legami simbolici

Con l’adolescenza, si modificano i rapporti con i genitori e le figure d’autorità. Il giovane non vuole più essere definito solo dal ruolo di “figlio” o “studente”, ma cerca nuovi riferimenti, come amici, ideali o gruppi di appartenenza.

Questa ricerca può essere confusa e incerta. Quando manca un significante forte che orienti il soggetto, possono emergere vuoto, angoscia o sintomi.

Il terapeuta non sostituisce questi riferimenti, ma crea uno spazio dove l’adolescente può cominciare a trovare la propria voce.


Il sintomo come messaggio

In adolescenza possono comparire sintomi come ansia, ritiro sociale, autolesionismo o disturbi alimentari. Invece di cercare subito di eliminarli, la psicoanalisi invita ad ascoltarli.

Ogni sintomo ha una funzione soggettiva: può proteggere, dire no o esprimere un conflitto interno. Accoglierlo senza giudizio permette al soggetto di trasformarlo o sostituirlo con forme più vivibili.


Un esempio: il silenzio che parla

Una ragazza adolescente viene portata in consultazione per un progressivo isolamento: non parla quasi più, ha smesso di andare a scuola e passa molto tempo da sola. I familiari sono preoccupati e chiedono aiuto per “farla tornare com’era prima”.

Nei primi incontri, la ragazza resta in silenzio, evita lo sguardo, ma non rifiuta la presenza del terapeuta. Quest’ultimo non forza la parola, ma rispetta i suoi tempi.

Col tempo, emergono piccoli segnali: scritti, frammenti di pensiero, domande accennate. La ragazza racconta di sentirsi “invisibile e troppo vista”, di non riconoscersi nel ruolo che gli altri le attribuiscono.

Il silenzio diventa allora una forma di difesa, ma anche di affermazione di sé contro un’identità imposta. In terapia, si trasforma lentamente in parola e creatività.

La ragazza non torna “quella di prima”, ma comincia a prendersi uno spazio proprio, a dire qualcosa di sé.


Il ruolo del terapeuta: presenza e ascolto

In psicoanalisi, il terapeuta non dà risposte immediate né corregge comportamenti. Offre uno spazio di ascolto e accoglienza, dove il soggetto può emergere senza pressioni.

La pazienza e la discrezione sono essenziali: rispettare il tempo soggettivo permette alla parola di nascere.


Una clinica del rispetto e della soggettivazione

La clinica dell’adolescenza non mira a conformare il giovane a una norma, ma a sostenerlo nella costruzione della propria soggettività.

È una pratica etica, che rispetta il desiderio fragile e la ricerca individuale.


Cosa ci muove davvero? L'orientamento motivazionale nell’orientamento lacaniano

Motivazione e desiderio: uno sguardo psicoanalitico

Quando pensiamo alla motivazione, la immaginiamo spesso come una forza interna che ci spinge verso un obiettivo: studiare, lavorare, migliorare noi stessi, prenderci cura degli altri. Ma la psicoanalisi – in particolare quella di Jacques Lacan – ci invita a guardare oltre: da dove nasce davvero questa spinta? Cosa muove profondamente il nostro agire?

Per la psicoanalisi, non siamo guidati solo da bisogni coscienti – come avere successo o sentirci realizzati – ma da qualcosa di più radicale: una mancanza strutturale. Non si tratta di un oggetto preciso che manca, ma di una condizione costitutiva dell’essere umano come soggetto parlante. Proprio questa mancanza origina il desiderio, che – a differenza del bisogno – non si colma mai del tutto.

Il desiderio non nasce in solitudine: si struttura sempre in relazione all’Altro – inteso non solo come l’altro significativo (genitori, insegnanti…), ma come l’insieme delle aspettative, dei valori, delle richieste simboliche che ci circondano. Fin da piccoli, impariamo a desiderare attraverso lo sguardo dell’Altro: cosa è apprezzato? Cosa rende degni d’amore? Cosa ci si aspetta da noi per “valere”?

È in questo senso che Lacan afferma: “il desiderio è il desiderio dell’Altro”. Non desideriamo solo oggetti, ma desideriamo essere desiderati. La motivazione, allora, non è una semplice energia interna, ma un modo in cui il soggetto cerca di rispondere a ciò che pensa l’Altro voglia da lui.


Il significante padrone e l’ideale interiorizzato

Lacan introduce il concetto di significante padrone (S1): una parola, un’idea, un’identità che assume un valore dominante nella nostra storia e organizza il modo in cui ci rappresentiamo. Può essere “intelligente”, “bravo”, “fallito”, “utile”, “generoso”… Questo significante guida inconsciamente la nostra motivazione, ma può anche intrappolarci, legandoci a un ideale che non ci appartiene davvero.

Così, quello che crediamo “nostro desiderio” può in realtà essere una risposta automatica a un dovere interiorizzato, a una richiesta implicita che vogliamo soddisfare per non deludere, per sentirci all’altezza, per non perdere l’amore.


Una clinica del desiderio

Il lavoro psicoanalitico non mira a “potenziare” la motivazione, come accade in certi approcci orientati alla performance. Piuttosto, si tratta di riconoscere da dove viene ciò che vogliamo, distinguendo tra il desiderio proprio e quello imposto. Questo avviene nel transfert, cioè nella relazione con l’analista, dove il soggetto ripropone inconsapevolmente i suoi modi abituali di stare nel legame.

Un esempio: una giovane entra in analisi dopo aver lasciato l’università. Dice di sentirsi priva di motivazione. Ma nel tempo emerge che ha vissuto sotto un forte ideale paterno di eccellenza. Il suo “blocco” non è assenza di desiderio, ma un modo per sottrarsi a un’identità non scelta. Solo quando riconosce questa dinamica può iniziare a fare spazio a scelte più autentiche.

Per la psicoanalisi, l’orientamento motivazionale non si riduce alla volontà di raggiungere un fine, ma riguarda il modo in cui il desiderio prende forma nel soggetto, nel suo rapporto con l’Altro. Riconoscere questa origine consente di non esserne schiavi. È lì che nasce la possibilità di desiderare davvero.




DSA e psicoanalisi: quando l’errore parla

 

Nel Seminario XXIII, Jacques Lacan introduce il termine sinthomo: non un sintomo da "curare", ma un modo unico, personale, con cui ciascuno riesce a tenere insieme il proprio rapporto con il corpo, con il linguaggio e con ciò che ci dà piacere o fastidio. È qualcosa che tiene in equilibrio, più che un problema da eliminare.

Con questo sguardo, anche i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) – come dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia – possono essere letti non solo come difficoltà cognitive, ma come modalità soggettive, spesso inconsce, con cui un bambino si relaziona al sapere, alla scuola e al mondo degli adulti.

Come scrive Luisella Brusa in I disturbi dell’Apprendimento (Quodlibet, 2024), è importante spostarsi da un’idea di intervento correttivo verso una clinica del riconoscimento: riconoscere il bambino come soggetto, con un modo tutto suo di stare al mondo e imparare.


Dislessia: leggere è anche sottomettersi?

A volte la lentezza o gli errori nella lettura non nascondono solo difficoltà tecniche, ma una forma di resistenza. Per alcuni bambini, leggere correttamente può sembrare come ubbidire troppo a un sapere vissuto come opprimente. Gli errori diventano allora un modo per dire: “Io non mi piego”.


Disortografia: l’errore come segnale

Molti bambini conoscono le regole dell’ortografia, ma continuano a sbagliarle. L’errore, allora, sembra quasi una firma personale, un modo per affermare sé stessi. Soprattutto in famiglie molto esigenti o dove ci si sente sempre in confronto con fratelli “perfetti”, scrivere “sbagliando” può diventare un modo per dire: “Io sono diverso, non sarò come voi volete”.


Disgrafia: quando il corpo non vuole scrivere

Scrivere non è solo un gesto tecnico: è lasciare che il proprio corpo si lasci attraversare dal linguaggio. Quando la mano si blocca, il tratto è incerto o spezzato, può esserci una resistenza più profonda. Il corpo si oppone, come se scrivere significasse lasciar andare qualcosa a cui si è troppo legati.


Discalculia: il numero fa paura?

In psicoanalisi, il numero è spesso legato alla Legge, alla regola, alla separazione. Alcuni bambini rifiutano il calcolo, le tabelline, senza vere difficoltà cognitive. In alcuni casi, il numero viene vissuto come un segnale di distacco, in famiglie dove il legame con la madre è molto stretto. Il numero, allora, spaventa perché separare fa male.


Conclusione: ascoltare, non correggere

Guardare ai DSA con occhi psicoanalitici significa non ridurli a difetti da correggere, ma riconoscerli come risposte soggettive. La psicoanalisi non impone una normalità, ma cerca di accompagnare il bambino a trovare un modo tutto suo, sostenibile, di stare in rapporto con il sapere.

Il disturbo, allora, non è un ostacolo da superare a tutti i costi, ma un punto di partenza. È lì che qualcosa si dice. È lì che si affaccia un desiderio.


Per chi vuole approfondire:

  • J. Lacan, Seminario XXIIIIl sinthomo, Einaudi
  • L. Brusa, I disturbi dell’Apprendimento, Quodlibet.                 

  • ✨ Ogni “errore” può essere la traccia di un bambino che cerca la propria voce.

Rapporto genitori-figli


1. La famiglia oggi: uno spazio fragile

Oggi la famiglia è uno dei luoghi in cui più si manifestano segnali di disagio nei bambini e negli adolescenti. Crisi d’ansia, isolamento, scoppi di rabbia, difficoltà a crescere: tutto questo accade spesso dentro le mura domestiche, dove i ruoli sono cambiati e i confini sono meno chiari. Non si tratta solo di problemi educativi, ma di qualcosa che ha a che fare con i legami più profondi.

La psicoanalisi, in particolare quella ispirata a Jacques Lacan, ci offre strumenti per comprendere questo disagio. Ci invita a guardare non tanto ai comportamenti, ma al posto che ogni membro occupa nel legame familiare, al modo in cui si trasmette il desiderio e si gestisce la separazione.


2. Quando il padre non introduce più un limite

Lacan parlava della funzione paterna non come semplice presenza fisica del padre, ma come capacità di introdurre la legge, dire dei “no”, separare. Oggi, questa funzione è spesso in crisi. Il padre può essere presente, ma non prende posizione. La madre allora occupa tutto lo spazio, anche parlando “al posto del padre”. Il figlio rischia di rimanere intrappolato in una relazione troppo stretta, da cui non riesce a separarsi.

🧩 Esempio: un padre che non interviene mai, lascia tutto alla madre. Il figlio diventa il centro della sua attenzione, ma anche del suo bisogno. Questo può impedire al figlio di costruirsi come soggetto autonomo.


3. La madre desiderante e la madre “tutta”

Secondo Lacan, una madre desiderante ama il figlio, ma gli lascia spazio per crescere e separarsi. Al contrario, una madre “tutta” si fonde con il figlio, lo trattiene, gode della relazione simbiotica. Questo può portare a sintomi: ansia, ritiro, opposizione, blocchi evolutivi.

🧩 Esempio: un adolescente che non riesce a uscire di casa, a frequentare amici o a progettare il futuro, vive ancora dentro un legame che non si è mai spezzato.


4. Non conta la forma, ma la funzione

Le famiglie oggi sono molto diverse: coppie separate, famiglie ricostituite, genitori dello stesso sesso. Ma ciò che conta non è la forma della famiglia, bensì le funzioni simboliche che vengono svolte. Un bambino ha bisogno di qualcuno che introduca il limite, sostenga la frustrazione, permetta la separazione.

🧩 Esempio: in una coppia omogenitoriale, se uno dei due genitori sa dire dei “no”, sa lasciare spazio e tollerare l’assenza, allora quella funzione è garantita, e il figlio può crescere bene.


5. Il “padre che gode” e la confusione

Quando manca la funzione paterna simbolica, può emergere un padre reale: assente, seduttivo, autoritario o troppo amico. Lacan lo chiamava “padre che gode”: colui che mette in scena il proprio desiderio senza limite, che vuole essere amato, che compete col figlio.

🧩 Esempio: padri che fanno a gara con i figli adolescenti, che vogliono essere complici o simpatici, più che guida e riferimento. Questo può generare angoscia e disorientamento nei figli.


6. Cosa vediamo nei servizi educativi

Molti educatori e operatori che lavorano con bambini e ragazzi riportano situazioni in cui i giovani:

  • non accettano regole ma sembrano cercarle;
  • esplodono in crisi o si ritirano;
  • si attaccano agli adulti nei servizi come se cercassero un “vero” genitore.

🧩 Esempio: nei centri per minori, ci sono ragazzi che provocano, sfidano, mettono alla prova. È come se cercassero qualcuno capace di reggere, di contenere, di dare un segnale stabile.


✅ Conclusione: una presenza che separa

Ciò che davvero conta nella crescita di un figlio non è solo l’amore o la dedizione. Serve anche una presenza capace di separare, di introdurre la mancanza, di dire dei “no”. Una presenza che non si sostituisce al figlio, ma lo accompagna lasciandogli spazio.

La psicoanalisi ci ricorda che non è la quantità di tempo che un genitore passa con il figlio a fare la differenza, ma la qualità del legame: saper desiderare il figlio, ma anche lasciarlo andare.


📚 Per approfondire

  • Jacques Lacan, Il rovescio della psicoanalisi (Seminario XVII)
  • Jacques Lacan, Encore (Seminario XX)
  • Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco, Le mani della madre
  • J.-A. Miller, Il posto dell’insegnamento di Lacan nella storia della psicoanalisi


Per capire davvero cosa succede oggi nelle famiglie, bisogna ascoltare i legami, i desideri, e soprattutto il posto lasciato alla parola e alla separazione.




Crisi nel rapporto di coppia


1. La coppia come legame simbolico
Il rapporto di coppia è molto più di un semplice legame affettivo o fisico: è una relazione costruita nel linguaggio e nel simbolico. Jacques Lacan ci ricorda che «l’amore è dare ciò che non si ha a qualcuno che non lo vuole» — una frase che sintetizza bene la complessità del desiderio nella coppia. L’amore e il sesso non coincidono pienamente, perché il desiderio, fondato sulla mancanza, è sempre sfuggente e si articola in una dinamica di dare e ricevere che non si esaurisce mai.

2. Il desiderio e la sua natura complessa
Per Lacan, il desiderio non è un bisogno immediatamente soddisfacibile, ma una mancanza strutturale che spinge il soggetto a cercare nell’Altro ciò che non ha. Nella coppia, ciascuno desidera l’altro ma, proprio perché il desiderio è fondato sulla mancanza, non può mai essere completamente colmato. Questa dinamica spiega perché, anche nelle relazioni più solide, possono nascere insicurezze e momenti di crisi, dovuti al continuo spostarsi del desiderio.

3. Quando scoppia la crisi
La crisi si manifesta quando il linguaggio – cioè la parola che dovrebbe mediare tra i desideri e le aspettative – si fa ambiguo o si interrompe. Le incomprensioni si moltiplicano e diventa difficile trovare un terreno comune. Lacan sottolinea che in questi momenti si rivela un “vuoto simbolico”: il legame non riesce più a reggersi su un sistema condiviso di significati. È in queste rotture che emergono i conflitti inconsci che spesso restano nascosti nella vita quotidiana.

4. Scegliere tra restare o separarsi
La decisione di continuare insieme o di separarsi non è mai solo razionale. Lacan parla di «significante padrone» per indicare quel nucleo di parole e valori che guida le scelte di un soggetto e struttura la sua identità. Ogni scelta è quindi un gesto soggettivo che definisce il rapporto con se stessi e con l’Altro. La separazione può allora diventare una scelta consapevole, non una sconfitta, ma un momento di rinnovamento.

5. La crisi come occasione di crescita
Nonostante il dolore, la crisi può aprire la strada a una trasformazione profonda. Essa invita a mettere in discussione vecchi schemi, a esplorare desideri nascosti e a costruire nuove forme di relazione. Guardare la crisi come un’occasione e non solo come un ostacolo permette di aprirsi a nuove possibilità, dentro e fuori dalla coppia.

6. Il ruolo della parola
La parola è lo strumento che permette di ripristinare il legame simbolico quando sembra perduto. Riprendere la comunicazione, senza giudizio e con ascolto, consente di rimettere in moto il dialogo e di dare forma al desiderio, rendendo possibile una nuova comprensione reciproca.

In sintesi, la crisi di coppia è un momento complesso che coinvolge desiderio, linguaggio e simbolico. La famosa frase di Lacan «l’amore è dare ciò che non si ha a qualcuno che non lo vuole» ci ricorda come il desiderio sia sempre una tensione e come la parola possa aprire la via per ritrovare senso e trasformazione nel legame.










lunedì 14 luglio 2025

L'Isteria oggi: quando il sintomo interroga il desiderio

 

L’isteria non è scomparsa con le donne in crinolina dell’Ottocento. Non è nemmeno una “malattia di genere”, come certi luoghi comuni ancora suggeriscono. L’isteria, nel linguaggio della psicoanalisi, è una struttura soggettiva, un modo specifico di stare nel mondo, di soffrire e di cercare una verità su di sé… chiedendola all’Altro.

Che cos’è oggi l’isteria?

L’isterico contemporaneo non arriva più in seduta con paralisi isteriche o svenimenti. Piuttosto, si presenta con sintomi somatici fluttuanti, crisi d’ansia, sensazioni di vuoto, bisogno costante di approvazione, oppure con un'identità che cambia di continuo. Ma dietro tutto questo, c’è sempre una domanda implicita: “Chi sono per te?”.

È una domanda rivolta all’Altro – che sia il partner, un genitore, un capo, o anche il terapeuta. Il soggetto isterico si mette al posto dell’oggetto del desiderio dell’Altro, vuole piacere, vuole essere riconosciuto… ma senza mai identificarsi completamente con quel posto. C’è sempre una scissione, una tensione, una sfida.

Due esempi clinici

  • Donna, 27 anni, cambia spesso lavoro, relazioni, città. Ha dolori cronici senza cause mediche evidenti. Dice: “Non so mai cosa voglio davvero”. Ogni cambiamento è una nuova scena in cui spera di trovare finalmente la “risposta” a chi è.

  • Uomo, 42 anni, ha attacchi di panico e si sente sempre sotto pressione: “Devo essere perfetto per non essere abbandonato”. Vive nell’ansia di deludere, ma anche nel rancore di non essere mai davvero visto.

In entrambi i casi, il sintomo funziona come un messaggio cifrato: qualcosa che non riesce a essere detto in parole, ma che si scrive nel corpo o nel comportamento.

La posta in gioco: il desiderio

Nel percorso analitico, l’obiettivo non è “aggiustare” il sintomo o trovare una definizione stabile di sé. Al contrario, si tratta di riconoscere quel vuoto strutturale che abita ogni soggetto, quel punto dove non sappiamo chi siamo – e da lì, dare voce al proprio desiderio.

Per Lacan, l’isteria ha un merito enorme: ha inventato la psicoanalisi, proprio perché ha osato porre all’Altro (medico, scienziato, uomo…) la domanda: “Tu che dici che sai, che ne fai del mio corpo e del mio enigma?”

In conclusione

L’isteria contemporanea non è un disturbo da diagnosticare e contenere. È un modo — a volte doloroso, ma vitale — di mantenere aperta la domanda sul desiderio, su chi siamo per l’Altro, e su chi potremmo essere per noi stessi. Non chiede una risposta definitiva, ma uno spazio dove quella domanda possa finalmente respirare.


giovedì 5 giugno 2025

Il potere di generare: leadership diffusa e soggettività sociale in trasformazione

Potere di generare


📌 Abstract

L’articolo propone una riflessione critica sulla leadership generativa come forma emergente di soggettivazione collettiva nel lavoro contemporaneo, con particolare attenzione al terzo settore e al sindacalismo critico. In un contesto segnato dalla crisi del management tradizionale e dalla trasformazione delle istituzioni del lavoro, emergono pratiche di leadership distribuita che non si fondano sul comando, ma sulla capacità di attivare, sostenere e accompagnare processi generativi di senso e cooperazione. Attraverso una lettura che integra contributi teorici della psicologia sociale, della filosofia politica e della psicoanalisi lacaniana, l’articolo indaga i nodi critici e le potenzialità di queste esperienze, portando esempi tratti dal mondo del lavoro sociale e dei movimenti sindacali di base.

1. Introduzione: una crisi simbolica e organizzativa del lavoro

Nel cuore della crisi del capitalismo cognitivo e dell’economia delle piattaforme, il lavoro appare attraversato da una duplice contraddizione: da un lato la crescente frammentazione dei diritti e dei legami professionali; dall’altro, il riemergere di pratiche comunitarie, collaborative e politicamente consapevoli, che interrogano il modello dominante di leadership come puro esercizio di comando e controllo.

Come osservano Bonomi e Masiero (2020), nella società post-fordista emergono nuove soggettività che non si lasciano più organizzare secondo schemi gerarchici rigidi, ma richiedono forme di riconoscimento e partecipazione che valorizzino l’esperienza e l’iniziativa. La nozione di "leadership generativa" (Magatti, 2022) permette di leggere questi fenomeni in chiave trasformativa, come processi in cui non si trasmette solo potere, ma si produce soggettività, senso, e legami nuovi.

2. Cos’è la leadership generativa

La leadership generativa è un concetto emerso per indicare una forma di guida che non si limita a gestire o motivare, ma che attiva spazi di senso condiviso, di innovazione sociale e di trasformazione reciproca. Magatti (2022) parla di una leadership che "non si impone ma dispone", che ha la capacità di generare contesti e possibilità più che di esercitare controllo.

Questa forma di leadership è spesso situata e diffusa, come notano Pearce & Conger (2003), che la descrivono come "shared leadership", cioè una funzione che può emergere collettivamente e che si sviluppa lungo relazioni orizzontali, non necessariamente vincolata a ruoli o gerarchie formali. È una funzione che può emergere in momenti critici, o in modo rotante, come nei gruppi cooperativi o nei collettivi sindacali.

3. Lacan, il desiderio e la funzione del vuoto nella leadership

Jacques Lacan ha mostrato come ogni struttura del potere sia anche una struttura del desiderio. Il significante-padrone (S1) non è solo comando, ma ciò che organizza il discorso e orienta il desiderio collettivo (Lacan, 1981). Quando il comando manageriale perde legittimità simbolica, la funzione del leader non può più consistere nell’imposizione di norme, ma nel sostenere spazi vuoti in cui possano emergere soggettività.

Come suggerisce il Lacan del Seminario XI (1975), il desiderio si sostiene su un vuoto strutturale, e dunque anche la funzione del leader può essere interpretata come custodia di uno spazio simbolico generativo, e non come occupazione autoritaria. Questo è ciò che accade in molte esperienze del terzo settore e del sindacalismo critico, dove l’autorità si reinventa come ascolto radicale e messa in questione reciproca.

4. Due casi esemplari

4.1. Un collettivo educativo in area metropolitana

In una cooperativa sociale impegnata nell’accoglienza di famiglie migranti, l’équipe educativa ha rifiutato una struttura gerarchica rigida, scegliendo di ruotare la funzione di coordinamento tra i vari educatori. Si è trattato di una leadership "distribuita" e "non delegata" (Pearce & Conger, 2003), dove la capacità di guidare è emersa dall’esperienza e dalle relazioni.

Il risultato è stato un gruppo più coeso, capace di proporre innovazioni anche rischiose, rafforzando il senso di appartenenza e di responsabilità collettiva. È emersa una leadership generativa, che ha attivato soggettività senza fondarsi sul potere formale.

4.2. Un’assemblea sindacale di base nei servizi pubblici

In una grande città del Nord Italia, un gruppo di operatori sociosanitari, educatori e tecnici precari ha dato vita a un’assemblea intersettoriale, ispirata a pratiche mutualistiche. L’assenza di una figura fissa di portavoce ha favorito l’emergere di competenze multiple: comunicazione, lettura normativa, organizzazione dal basso.

Questa modalità ha permesso l’attivazione di nuove soggettività politiche, in linea con quanto afferma Giorgi (2022): "il lavoro che resiste non è solo quello che rivendica, ma quello che produce legami e senso". La leadership, in questi contesti, è funzione relazionale e generativa, più che gerarchica o rappresentativa.

5. Soggettività generativa e sindacalismo critico

Il sindacalismo critico — che comprende esperienze autonome, di base e anche talune trasformazioni interne alla rappresentanza tradizionale — rappresenta un terreno fertile per forme di leadership generativa. Giorgi (2022) parla di una "politica della cooperazione situata" che produce leadership relazionali e temporanee.

In questo contesto, il ruolo del leader non è comandare o rappresentare, ma connettere, tradurre, ascoltare, stimolare. Come affermano Carli e Paniccia (2003), è nell’analisi della domanda collettiva che può emergere una funzione generativa del coordinamento, al servizio di processi partecipativi.

6. Conclusioni

In un’epoca in cui il modello organizzativo tradizionale è sempre più inefficace, la leadership generativa si configura come pratica trasformativa. Nei contesti del terzo settore e nel sindacalismo critico, essa rompe la logica verticale del potere e propone un’altra visione: quella del potere di generare, del potere di sostenere vite e legami, e non solo performance.

Come nota Dejours (2009), "il lavoro contiene una dimensione di verità" che non può essere catturata dalla sola logica dell’efficienza. La leadership generativa custodisce questa verità, promuovendo spazi di parola, ascolto e trasformazione reciproca.


📚 Bibliografia

  • Bonomi, A. & Masiero, M. (2020). La società circolare. DeriveApprodi.
  • Carli, R. & Paniccia, R.M. (2003). Psicologia della partecipazione. FrancoAngeli.
  • Dejours, C. (2009). La banalità dell’ingiustizia sociale. Raffaello Cortina.
  • Giorgi, C. (2022). Il lavoro che resiste. Manifestolibri.
  • Lacan, J. (1975). Il seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1981). Il seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi. Einaudi.
  • Magatti, M. (2022). Generare libertà. Accedere al futuro. Feltrinelli.
  • Mazzoleni, G. (2023). Leadership generativa. Oltre il management tradizionale. Vita e Pensiero.
  • Pearce, C. L. & Conger, J. A. (2003). Shared Leadership: Reframing the Hows and Whys of Leadership. SAGE.
  • Sandri, G. (2018). Fare cooperazione oggi. Edizioni Gruppo Abele.


mercoledì 21 maggio 2025

L'odio nel transfert e nel controtransfert: una lettura lacaniana, con un confronto con Klein e Winnicott


L’odio, come dimensione soggettiva e relazionale, ha una presenza centrale nella clinica psicoanalitica, soprattutto quando si manifesta nel transfert e nel controtransfert. Nella prospettiva lacaniana, questa affettività primaria assume una valenza strutturale e non meramente accidentale, come invece potrebbe apparire in approcci più adattivi o evolutivi. Non si tratta semplicemente di un ostacolo alla cura, bensì di un momento rivelatore della struttura del soggetto e del suo rapporto con l’Altro.


L'odio nel transfert

Jacques Lacan ha affrontato la questione dell'odio all'interno della relazione transferale, in particolare nella lezione del 20 aprile 1960 del Seminario L’etica della psicoanalisi, dove, rifacendosi ad Aristotele, pone l’odio (misos) come l’affetto che mira all’essere dell’altro, mentre l’amore ne mira il bene. L’odio, in quanto tale, non è secondario rispetto all’amore: è della stessa stoffa. Nella relazione analitica, il soggetto può manifestare un odio tenace e violento verso l’analista, che non va inteso in senso personale ma come effetto del posto simbolico che l’analista occupa, quello di causa del desiderio e luogo dell’Altro.

L’analista, infatti, in quanto sostituto del soggetto supposto sapere (sujet supposé savoir), è chiamato a sostenere proiezioni e investimenti che mettono in gioco nuclei profondi della pulsione, del fantasma e della storia soggettiva. L’odio può emergere quando l’analista tocca o smaschera il godimento inconscio legato alla sofferenza, o quando il soggetto percepisce un’opacità nel suo desiderio. È spesso nel momento in cui l’analista si sottrae, non soddisfa la domanda d’amore, che il soggetto risponde con aggressività e odio.


Il desiderio dell’analista e la posizione etica

Nel Seminario XI (I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi), Lacan insiste sul concetto di "desiderio dell’analista" come ciò che orienta la cura. Questo desiderio non è desiderio personale, ma desiderio puro, spogliato, che non mira a soddisfare, né a rassicurare. È un desiderio che accetta l’odio del paziente, che lo attraversa, che ne sostiene l’elaborazione. L’analista è chiamato a sostenere la posizione di oggetto a, oggetto causa del desiderio, e quindi a tollerare di essere ridotto a cosa, a oggetto di odio, a rifiuto, senza retrocedere.

Il desiderio dell’analista implica una funzione di “buca” nel sapere: si tratta di non voler sapere tutto, di non pretendere di colmare l’Altro, ma di sostenere il vuoto strutturale che abita il soggetto. È proprio questa posizione che permette al transfert di evolvere e di aprirsi al movimento interpretativo e all’atto analitico. Come scrive Lacan nel Seminario XI, “Il desiderio dell'analista non è puro desiderio di guarire. È desiderio che ha incontrato la sua propria castrazione”.


Controtransfert e limite della reattività dell’analista

L’odio non appartiene solo al paziente. Come sottolinea Lacan nel Seminario VIII (Il transfert), l’analista non è immune dalle passioni. Tuttavia, per Lacan, è proprio l’analista che deve lavorare perché le sue passioni non interferiscano. Il concetto di controtransfert, sviluppato in area post-freudiana (es. Heimann, Racker), è ridimensionato da Lacan: l’analista deve rendere la propria posizione quanto più impersonale possibile, non perché si annulla, ma perché la sua soggettività deve diventare funzione.

L’odio dell’analista, quindi, può emergere nella pratica, soprattutto in ambito istituzionale dove i fenomeni di transfert negativo sono amplificati da dinamiche di gruppo, gerarchia e potere. In questi casi, mantenere il desiderio come causa e non come risposta reattiva è ancora più difficile. Il rischio è quello del godimento dell’analista, che si difende attraverso l’identificazione con un sapere o con un ruolo, invece di lasciarsi lavorare dal transfert.


Esempi dalla pratica istituzionale

In contesti educativi o terapeutici con soggetti psicotici o con disabilità, si osserva spesso un transfert negativo massiccio: rifiuto dell’educatore o dell’operatore, insulti, disorganizzazione comportamentale. Un esempio è il caso di un giovane con psicosi che durante il gruppo occupazionale, ad ogni proposta dell’operatore, risponde con l’insulto più feroce e minaccioso. L’operatore, se non è sostenuto da una supervisione e da un’elaborazione simbolica della sua funzione, rischia di rispondere in modo simmetrico: disprezzo, ironia, punizione. È qui che si gioca la possibilità di una funzione analitica o almeno simbolizzante: accettare di essere oggetto dell’odio, e non volerlo colmare con l’amore o con la pedagogia del bene.


Confronto con Melanie Klein e Donald Winnicott

Melanie Klein ha tematizzato a fondo l’aggressività primaria e l’odio nell’ambito della relazione oggettuale. Nella posizione schizo-paranoide, il bambino vive l’oggetto come persecutore, e riversa su di esso odio e distruttività. Solo attraverso l’elaborazione della posizione depressiva è possibile riconoscere l’oggetto buono e cattivo come unificato, e quindi riparare. Da questo punto di vista, l’odio nel transfert è un ritorno di quelle angosce originarie, che l’analista deve contenere e trasformare.

Winnicott, invece, si concentra sul concetto di odio dell’analista, con grande onestà clinica. Nel saggio L’odio nella contropartita terapeutica (1949), afferma che l’analista deve riconoscere e tollerare il proprio odio, soprattutto nel lavoro con pazienti gravi. L’odio che l’analista prova non è necessariamente patologico, ma espressione della realtà della situazione e della frustrazione. La differenza, per Winnicott, sta nel fatto che l’analista non agisce il suo odio, ma lo riconosce, lo sopporta e lo utilizza.

Rispetto a Lacan, sia Klein che Winnicott tendono a concepire l’odio come una fase, un contenuto da trasformare o contenere. Lacan, invece, pone l’odio come strutturale, come parte del desiderio stesso: “l’amore è sempre ricambiato dall’odio”, diceva, indicando che non si dà soggettivazione senza attraversamento del negativo.


Conclusione

Affrontare l’odio nel transfert e nel controtransfert è un passaggio necessario in ogni lavoro clinico e istituzionale che voglia avere un effetto di soggettivazione. Nella prospettiva lacaniana, l’odio non va risolto né rimosso, ma attraversato e letto come segno del reale in gioco. Il desiderio dell’analista, sostenuto dalla propria castrazione e non dal sapere, è ciò che consente di non rispondere alla provocazione, ma di mantenerne aperto il senso.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1959-60). Seminario VII. L’etica della psicoanalisi. Torino: Einaudi, 2008.
  • Lacan, J. (1964). Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi, 2003.
  • Lacan, J. (1960-61). Seminario VIII. Il transfert. Torino: Einaudi, 2021.
  • Klein, M. (1946). Note su alcuni meccanismi schizoidi, in Scritti 1921-1958. Firenze: Martinelli.
  • Klein, M. (1940). Invidia e gratitudine, in Scritti 1921-1958. Firenze: Martinelli.
  • Winnicott, D.W. (1949). L’odio nella contropartita terapeutica, in Sviluppo affettivo e ambiente. Roma: Armando, 1975.
  • Roussillon, R. (1991). Il transfert negativo. Roma: Borla.
  • Mannoni, M. (1969). L’enfant arriéré et la psychanalyse. Paris: Seuil.
  • Recalcati, M. (2010). Il transfert. Milano: Cortina.


sabato 19 aprile 2025

Lo sguardo nella clinica contemporanea: tra inflazione dell'immaginario e pratica di detotalizzazione

 


 


 

 

 




1. Introduzione: l'occhio assoluto

Viviamo in un'epoca dominata dall'"occhio assoluto" (Wajcman), in cui la visibilità pervasiva e la sorveglianza reciproca si coniugano con un'esposizione narcisistica crescente, in particolare nei giovani. Lo sguardo, lungi dall'essere solo percezione, è un punto strutturale della clinica lacaniana: luogo del desiderio, ma anche del godimento e dell'angoscia. La sua trasformazione nel mondo digitale comporta effetti soggettivi inediti e nuove forme di sofferenza psichica. 



2. Dallo sguardo all'occhio: godimento voyeurista ed esibizionismo

Nella clinica contemporanea, il godimento si declina spesso tra l'eccesso del vedere e l'essere visti. Il cellulare, in particolare, si configura come un prolungamento dell'occhio e come significante del sapere universale. I social media diventano scena dell'esibizione e dello sguardo dell'Altro, instaurando dinamiche di godimento esibizionistico e voyeuristico. La risposta soggettiva può essere narcisistica (pancia piatta come segno visibile di valore), compulsiva (scrolling continuo, selfie seriali), oppure depressiva (ritiro e senso di non-esistere se non visto).

In queste risposte, possiamo leggere la tensione tra l'essere oggetto dello sguardo e il tentativo di dominarlo. L'immagine corporea diventa spesso campo di battaglia per questa dialettica: la ricerca del corpo perfetto, dell'estetica conforme, rappresenta il tentativo di darsi un valore nella scena dell'Altro. Ma tale scena è per definizione instabile, insaziabile, mutevole.


3. Clinica dell'adolescenza e occhio assoluto

Nei giovani assistiamo a una crescente identificazione all'immagine e alla ricerca di un riconoscimento totalizzante. La clinica dell'anoressia mostra il corpo come campo di battaglia tra visibilità e controllo. Lacan legge l'anoressica come colei che dice "no" all'Altro, ma che nel rifiuto del cibo mira anche a farsi oggetto assoluto dello sguardo. Il desiderio insoddisfatto si rovescia in godimento mortifero. Qui lo sguardo è trappola e padronanza insieme.

Il corpo dell'anoressica diventa il luogo in cui si nega il godimento dell'Altro e allo stesso tempo si afferma una forma assoluta di padronanza sul desiderio. La funzione dell'immagine è qui centrale, ma è una funzione che si svuota di simbolico, lasciando il soggetto preda di un godimento senza limite.


4. Delocalizzazione, cellulare e godimento non-tutto

Il cellulare introduce una delocalizzazione radicale del sapere, del desiderio e del godimento. Là dove prima vi era una struttura simbolica con dei limiti (il Nome-del-Padre, la Legge, il tempo dell'attesa), ora domina un accesso continuo e immediato, che toglie spazio alla mancanza e quindi al desiderio. Il "non tutto" lacaniano, che è apertura e limite al godimento, viene cancellato dalla pretesa di tutto accessibile, tutto visibile, tutto subito.

Lo smartphone, in quanto oggetto feticcio contemporaneo, si offre come "oggetto causa del desiderio" (a), ma in una forma che tende a saturare, a chiudere, a colmare. Non è più causa nel senso di spinta verso un Altro enigmatico, ma è causa come chiusura del circuito pulsionale su sé stesso. Il sapere non è più mancante, ma è diventato onnipresente, iperdisponibile.


5. Detotalizzazione come effetto e pratica terapeutica

La detotalizzazione è un effetto della funzione paterna e simbolica: essa separa il soggetto dall'Altro e introduce la mancanza, condizione del desiderio. Ma nella clinica contemporanea deve diventare anche una strategia attiva: interrompere la coerenza immaginaria, spezzare il godimento continuo, aprire un vuoto dove possa emergere un dire soggettivo. Detotalizzare vuol dire restituire il limite, non come norma, ma come occasione di differenza e creazione.

La funzione paterna, lungi dall'essere semplice imposizione della legge, è la possibilità di non essere tutto. È apertura al desiderio dell'Altro, ma anche limite alla sua invasività. In un'epoca segnata dalla sua evaporazione, il lavoro analitico è chiamato a reinventarne la funzione: non restaurazione dell'ordine, ma rilancio della mancanza.


6. La clinica della detotalizzazione

In questa prospettiva, la clinica diventa luogo di "detotalizzazione guidata": si tratta di favorire il passaggio dall'immagine fissa al dire singolare, dal godimento chiuso alla domanda. Gli interventi possibili vanno dalla decostruzione dei dispositivi immaginari (rifiuto del setting totalizzante), al rilancio della parola singolare, fino alla costruzione di un nuovo rapporto con lo sguardo, che non sia più padronanza o angoscia, ma spazio vuoto, attraversabile.

Nell'anoressia, ad esempio, si tratta non di restituire l'appetito o la normatività, ma di interrogare la funzione dello sguardo e dell'immagine, restituendo al soggetto la facoltà di dire no senza annientarsi. Nella dipendenza da cellulare, il lavoro non è contro l'uso, ma sulla funzione: qual è il godimento in gioco? Quale sapere si cerca di saturare? Quale mancanza si teme?


7. Conclusione: la clinica del presente

Una clinica del presente è una clinica della sottrazione, dell'interruzione e dell'ascolto del "non tutto". Si tratta di sostenere un lavoro che, partendo dallo sguardo come punto critico, restituisca al soggetto la propria opacità, il proprio enigma, il proprio desiderio. In un mondo che chiede di tutto mostrare, il gesto clinico può consistere nel non guardare tutto, e soprattutto nel non essere tutto visto. Solo così si può riaprire lo spazio del desiderio e del soggetto parlante.

Il compito dell'analista è oggi più che mai quello di aprire una breccia nell'evidenza dell'immagine, nell'immediatezza della visione, nel godimento continuo. Lo sguardo, in quanto scarto rispetto all'occhio, può ancora essere il luogo in cui si produce un desiderio singolare. Ma questo richiede una clinica che non ceda al tutto, che non ceda al senso, che non ceda alla visibilità assoluta. Una clinica del limite, del taglio, e della parola che resiste alla saturazione.



Bibliografia:

  1. Lacan, J. (1964). Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi.
  2. Lacan, J. (1972). Il Seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi.
  3. Waisman, D. (2003). L’Œil Absolu.
  4. Miller, J.-A. (2012). Introduzione alla clinica lacaniana, Roma: Astrolabio 


martedì 1 aprile 2025

Il Trauma

 Il Trauma


1. Il Trauma come Irruzione del Reale

Lacan concepisce il trauma non solo come un evento catastrofico, ma come l'irruzione del Reale, ossia di ciò che sfugge alla simbolizzazione. Nel Seminario XI, afferma:

"Il reale è ciò che sempre ritorna al medesimo posto" (Lacan, 1973, p. 53). Questo significa che il trauma non è semplicemente un'esperienza vissuta, ma un buco nel simbolico che si ripresenta costantemente in modi differenti. Il trauma si manifesta come un'eccedenza di significato che il soggetto non riesce a integrare nel proprio discorso, provocando ripetizioni sintomatiche e angoscia.

2. Trauma e Linguaggio

Il trauma, per Lacan, è intrinsecamente legato alla struttura del linguaggio. Il soggetto, per entrare nell'ordine simbolico, deve rinunciare a un godimento primordiale, un'operazione che può essere vissuta come traumatica. Come sottolinea nel Seminario XX:

"Il godimento è proibito a chi parla come tale" (Lacan, 1975, p. 9). Questa perdita originaria è strutturale e genera un vuoto che il soggetto tenta di colmare attraverso il desiderio e la ripetizione sintomatica. Il trauma può emergere in seguito a una rottura dell'ordine simbolico, come nei momenti di crisi soggettiva o nei processi di sradicamento culturale.

3. La Retroattività del Trauma (Nachträglichkeit)

Riprendendo Freud, Lacan insiste sull'idea che un evento traumatico non sia tale in sé, ma lo diventi retroattivamente. Nel Seminario XI spiega:

"Ciò che si è prodotto come effetto non era dato come tale nell'evento originario" (Lacan, 1973, p. 55). Questo principio di "posteriorità" (Nachträglichkeit) implica che il trauma venga riscritto nel tempo, in funzione delle successive rielaborazioni simboliche. Il soggetto può vivere un evento senza attribuirgli inizialmente un carattere traumatico, ma esso può acquisire questa valenza in un secondo momento, quando un nuovo significante lo riattualizza.

4. Trauma e Godimento

Il trauma non riguarda solo la perdita, ma anche l'incontro con un godimento opaco e insopportabile. Lacan descrive questo fenomeno attraverso il concetto di "jouissance":

"Il trauma è l'incontro con il reale del godimento" (Lacan, 1973, p. 65). Il godimento traumatico non è necessariamente doloroso nel senso comune, ma è qualcosa che eccede il principio di piacere e che il soggetto non riesce a regolare. Questo godimento può manifestarsi sotto forma di sintomi nevrotici, ripetizioni compulsive o angoscia intensa.

5. Il Trauma della Castrazione

Uno dei traumi fondamentali è quello della castrazione simbolica, ossia la scoperta della mancanza strutturale del soggetto:

"Il Nome-del-Padre è il significante che, simbolizzando la mancanza nel desiderio, permette l'accesso al simbolico" (Lacan, 1957, p. 321). La castrazione non è un evento concreto, ma un'operazione simbolica che segna l'ingresso del soggetto nell'ordine della legge e del desiderio. La sua mancata elaborazione può dare origine a strutture patologiche come la psicosi o il pervertimento.

6. Trauma e Psicosi

Nella psicosi, il trauma si manifesta come il ritorno massiccio del Reale, a causa della "forclusione" del Nome-del-Padre:

"Ciò che è forcluso nel simbolico ritorna nel reale" (Lacan, 1956, p. 293). A differenza della nevrosi, dove il trauma può essere rielaborato simbolicamente, nella psicosi esso ritorna sotto forma di allucinazioni o deliri. La mancanza di un significante padrone stabile impedisce al soggetto psicotico di simbolizzare la propria esperienza, lasciandolo esposto a un Reale senza mediazioni.

7. Trauma, Fantasma e Ripetizione

Il trauma è strettamente legato alla dimensione del fantasma, che funge da matrice simbolica attraverso cui il soggetto organizza il proprio rapporto con il desiderio e il godimento. Nel Seminario VI, Lacan afferma:

"Il fantasma è la risposta del soggetto di fronte al desiderio dell'Altro" (Lacan, 1958, p. 184). Quando il trauma si produce, il fantasma può essere sconvolto, lasciando il soggetto in una condizione di angoscia e di smarrimento. La ripetizione compulsiva di situazioni traumatiche può essere vista come un tentativo inconscio di reinscrivere l'evento traumatico nel campo simbolico.

8. Clinica del Trauma in Psicoanalisi

Nel trattamento psicoanalitico, il trauma non viene affrontato direttamente come un evento da "rimuovere", ma come un nodo da decifrare attraverso la parola. L'analisi mira a riaprire lo spazio del desiderio e a consentire al soggetto di dare un senso alla propria esperienza, senza cadere nella rigidità della ripetizione sintomatica. L’atto analitico consiste nel permettere al soggetto di ricostruire il proprio rapporto con il trauma, trovando nuove possibilità di significazione.

Conclusione

Il trauma in Lacan non è un semplice evento accidentale, ma una struttura dell'esperienza umana. Esso deriva dalla stessa costituzione del soggetto nel linguaggio e dal suo rapporto con il desiderio e il godimento. La sua elaborazione non può avvenire tramite una semplice rimozione, ma richiede un lavoro di soggettivazione e di simbolizzazione.

Bibliografia

  • Freud, S. (1895). Progetto di una psicologia. Opere, vol. II.

  • Freud, S. (1920). Al di là del principio di piacere. Opere, vol. IX.

  • Lacan, J. (1956). Intervento sui Seminari di Sainte-Anne. In Scritti.

  • Lacan, J. (1957). L'istanza della lettera nell'inconscio o la ragione dopo Freud. In Scritti.

  • Lacan, J. (1958). Il Seminario, Libro VI: Il desiderio e la sua interpretazione.

  • Lacan, J. (1973). Il Seminario, Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi.

  • Lacan, J. (1975). Il Seminario, Libro XX: Ancora. Torino: Einaudi.

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