mercoledì 16 luglio 2025

Dio è inconscio. Perché l’ateismo non basta

 



«La vera questione dell’ateismo è che Dio è inconscio»
— Jacques Lacan, Seminario XX – Encore (1972–1973)

 

Lacan non ha mai smesso di sorprenderci con le sue formule taglienti e provocatorie. Ma tra tutte, una spicca per la sua potenza teorica e simbolica:


«La vera questione dell’ateismo è che Dio è inconscio».


Una frase che rovescia la prospettiva razionalista del moderno “non credente” e ci invita a pensare in modo diverso il rapporto tra soggetto, fede e linguaggio.

L’inconscio non è ateo

Per Lacan, Dio non è un oggetto di fede, ma un significante. Non qualcosa da credere o negare, ma una funzione simbolica: il nome dell’Altro assoluto, del punto da cui proviene la Legge, il senso, la colpa, il desiderio stesso.
Quando dice che Dio è inconscio, Lacan non intende che Dio si nasconde in qualche angolo della psiche, ma che la funzione di Dio opera nella struttura del linguaggio stesso, là dove prende forma l’inconscio.

Freud aveva già mostrato che la religione nasce da bisogni profondi: la protezione, la colpa, il bisogno di un Padre. Ma Lacan va oltre: anche se ci si dichiara atei, il “posto di Dio” può continuare a strutturare il nostro rapporto con l’ideale, con la Legge, con il godimento.


Anche l’ateo ha un Dio

Il soggetto che dice “non credo” non è per questo liberato dalla funzione che Dio occupava nel proprio discorso.
Anzi: se non ha elaborato quel significante, Dio può ritornare sotto altre forme.
Può diventare Scienza assoluta, Ideale morale, Mercato, Nazione, Progresso, Successo.
L’ateo non è immune dal sacro. Lo ha solo spostato.

In questo senso, l’ateismo ingenuo è una rimozione, non una liberazione. È il rischio di non sapere più come e dove Dio agisce dentro di sé, nel proprio modo di desiderare, obbedire, colpevolizzarsi.
Un ateismo che non attraversa l’inconscio può essere più dogmatico di molte fedi.


La traversata del significante “Dio”

Lacan non ci chiede di credere in Dio. Ci invita a trattare il significante “Dio” come un sintomo, qualcosa che ha strutturato il soggetto e che merita ascolto, non negazione.
L’unica forma di “ateismo” autentico, in questa prospettiva, è un’elaborazione soggettiva della funzione di Dio nell’inconscio.
Un lavoro che passa per il riconoscimento di come abbiamo ricevuto la Legge, di cosa ci comanda da dentro, di come immaginiamo il nostro giudice, la colpa, la redenzione.

L’ateismo non è dire “Dio non esiste”, ma interrogare il luogo da cui Dio parlava. Solo così si può disattivare il potere assoluto di quel significante.


Il posto vuoto

Forse, in fondo, l’ateismo radicale è impossibile.
Perché esiste sempre, nella struttura del soggetto, un posto per Dio. Anche solo come vuoto.
E questo vuoto — che può chiamarsi mancanza, Legge, Altro, Nome-del-Padre — non è qualcosa da colmare, ma da abitare consapevolmente.

L’etica che ne deriva non è quella del credente né quella del razionalista, ma di chi sa che non c’è garanzia.
Che il senso non è dato.
Che l’Altro non esiste, ma ci parla lo stesso.
E che Dio, anche rimosso, lascia tracce nel modo in cui parliamo, godiamo, desideriamo.


Conclusione

“La vera questione dell’ateismo è che Dio è inconscio” non è una formula mistica, ma una diagnosi strutturale.
Non si può semplicemente liberarsi di Dio, come non ci si libera del desiderio o del linguaggio.
Ci si può solo interrogare:

  • Quale posto occupa Dio nella mia storia?
  • In che forma parla ancora in me?
  • Quali nomi lo hanno sostituito?

In questa traversata, non c’è verità assoluta, ma un soggetto che si responsabilizza del proprio rapporto con l’Altro, anche quando l’Altro è silenzioso.


lunedì 14 luglio 2025

L'Isteria oggi: quando il sintomo interroga il desiderio

 

L’isteria non è scomparsa con le donne in crinolina dell’Ottocento. Non è nemmeno una “malattia di genere”, come certi luoghi comuni ancora suggeriscono. L’isteria, nel linguaggio della psicoanalisi, è una struttura soggettiva, un modo specifico di stare nel mondo, di soffrire e di cercare una verità su di sé… chiedendola all’Altro.

Che cos’è oggi l’isteria?

L’isterico contemporaneo non arriva più in seduta con paralisi isteriche o svenimenti. Piuttosto, si presenta con sintomi somatici fluttuanti, crisi d’ansia, sensazioni di vuoto, bisogno costante di approvazione, oppure con un'identità che cambia di continuo. Ma dietro tutto questo, c’è sempre una domanda implicita: “Chi sono per te?”.

È una domanda rivolta all’Altro – che sia il partner, un genitore, un capo, o anche il terapeuta. Il soggetto isterico si mette al posto dell’oggetto del desiderio dell’Altro, vuole piacere, vuole essere riconosciuto… ma senza mai identificarsi completamente con quel posto. C’è sempre una scissione, una tensione, una sfida.

Due esempi clinici

  • Donna, 27 anni, cambia spesso lavoro, relazioni, città. Ha dolori cronici senza cause mediche evidenti. Dice: “Non so mai cosa voglio davvero”. Ogni cambiamento è una nuova scena in cui spera di trovare finalmente la “risposta” a chi è.

  • Uomo, 42 anni, ha attacchi di panico e si sente sempre sotto pressione: “Devo essere perfetto per non essere abbandonato”. Vive nell’ansia di deludere, ma anche nel rancore di non essere mai davvero visto.

In entrambi i casi, il sintomo funziona come un messaggio cifrato: qualcosa che non riesce a essere detto in parole, ma che si scrive nel corpo o nel comportamento.

La posta in gioco: il desiderio

Nel percorso analitico, l’obiettivo non è “aggiustare” il sintomo o trovare una definizione stabile di sé. Al contrario, si tratta di riconoscere quel vuoto strutturale che abita ogni soggetto, quel punto dove non sappiamo chi siamo – e da lì, dare voce al proprio desiderio.

Per Lacan, l’isteria ha un merito enorme: ha inventato la psicoanalisi, proprio perché ha osato porre all’Altro (medico, scienziato, uomo…) la domanda: “Tu che dici che sai, che ne fai del mio corpo e del mio enigma?”

In conclusione

L’isteria contemporanea non è un disturbo da diagnosticare e contenere. È un modo — a volte doloroso, ma vitale — di mantenere aperta la domanda sul desiderio, su chi siamo per l’Altro, e su chi potremmo essere per noi stessi. Non chiede una risposta definitiva, ma uno spazio dove quella domanda possa finalmente respirare.


giovedì 10 luglio 2025

🌍 Crisi globale: economia, guerra e godimento. Lettura della disgregazione contemporanea


1. Crisi multipla: economia, desiderio, governance

  • Per Marx, la crisi è interna al capitale stesso, che produce contraddizioni tra valore d’uso e accumulazione di plusvalore.
  • Per Keynes, la crisi è fallimento del coordinamento tra investimento, consumo e aspettative: quando nessun attore prende l’iniziativa, il sistema collassa.
  • Per Lacan, il discorso capitalista produce un godimento senza mancanza, dove l’Altro simbolico è espulso e il soggetto funziona come ingranaggio.

Insieme, questi tre sguardi ci mostrano un mondo in cui:

  • il capitale cerca solo accumulazione,
  • lo Stato ha rinunciato a ogni funzione anticiclica e coordinativa,
  • il soggetto è sottomesso al godimento cieco.


2. La guerra come manifestazione catastrofica delle contraddizioni

Le guerre in Ucraina e Gaza non sono solo eventi politici o geopolitici: sono la manifestazione catastrofica delle contraddizioni sistemiche.

  • Per Marx, la guerra è spesso una "valvola di sfogo" per il capitale in crisi, un modo per distruggere capitale e forza lavoro in eccesso, e rilanciare cicli di accumulazione.
  • Per Keynes, la guerra esplode quando fallisce il coordinamento economico tra Stati, e l’investimento pubblico viene sostituito dalla corsa agli armamenti e dalla logica del panico.
  • Per Lacan, la guerra rappresenta il ritorno del reale in forma cruda: quando la parola viene espulsa, resta solo il godimento dell’annientamento.

L’assenza di un Altro simbolico condiviso – sia esso la diplomazia, il diritto internazionale, o la cooperazione economica – lascia spazio a identità paranoiche, fantasie di purezza, potere senza legittimità.

Le guerre contemporanee sono dunque il luogo in cui convergono:

  • la crisi della rappresentanza,
  • la crisi del capitale,
  • la crisi del senso.

Sono, a tutti gli effetti, il punto di rottura del legame globale.


3. Disordine geopolitico: dal mercato mondiale a zone di godimento

Keynes sognava un mondo coordinato attraverso istituzioni multilaterali (FMI, Banca Mondiale) e bilanciamenti commerciali (Bretton Woods). Oggi, invece, assistiamo a:

Zona Logica dominante Sintomo
USA Politica monetaria + dazi Ritorno al protezionismo competitivo
Cina Investimento statale strategico Capitalismo guidato ma opaco
UE Austerità e paralisi Frammentazione interna
Russia Comando verticale Guerra come strumento di coesione
Israele Ethno-capitalismo militarizzato Guerra permanente
Sud globale Dipendenza e shock esterni Reazioni a catena di instabilità

Marx direbbe: è la crisi terminale del mercato mondiale. Keynes: è la rottura della fiducia sistemica. Lacan: è il godimento che rifiuta l’Altro.


4. Il fallimento dell’intervento pubblico

Un punto decisivo in ottica keynesiana è che gli Stati, dopo la crisi del 2008, hanno:

  • salvato le banche, ma non riformato i meccanismi del profitto;
  • stampato moneta, ma non investito in infrastrutture o redistribuzione;
  • alimentato la speculazione, ma non riattivato la domanda interna in modo duraturo.

Ciò ha alimentato:

  • l’accumulazione di debito pubblico senza contropartita produttiva,
  • il ritorno delle élite finanziarie come nuovi padroni,
  • l’inflazione come conflitto redistributivo irrisolto.

In ottica lacaniana, lo Stato non è più garante dell’Altro, ma funziona come S1 amministrativo, gestore di algoritmi, incapace di produrre legame.


5. Antigone e il rifiuto del “funzionamento senza soggetto”

In un mondo in cui:

  • il capitalismo si auto-riproduce senza limiti,
  • il discorso sociale è strutturato sull'eccitazione e sul controllo,
  • lo Stato abdica alla sua funzione regolativa,

Antigone diventa figura politica fondamentale: non è nostalgia dell’ordine, ma testimonianza di un’etica del limite.

In termini keynesiani:

  • serve una nuova volontà collettiva che rompa l’equilibrio perverso tra rendita e miseria, tra algoritmo e guerra.

In termini lacaniani:

  • serve una riapertura del desiderio, che rimetta la mancanza al centro del legame.


Conclusione: senza mancanza, senza progetto

Per Marx, la crisi viene dal profitto cieco. Per Keynes, dal fallimento della fiducia e dell’intervento pubblico. Per Lacan, dalla cancellazione della mancanza e dell’Altro.

Oggi, le tre crisi coincidono:

  • crisi economica (disuguaglianze, inflazione, debito),
  • crisi politica (guerre, nazionalismi, ritorno del comando),
  • crisi simbolica (assenza di desiderio, saturazione del godimento).

In assenza di soggetti che manchino, progettino, coordinino e parlino, il mondo si disgrega tra comando militare e funzionamento algoritmico.

La posta in gioco non è solo il PIL, ma la possibilità stessa del legame umano e politico.


📚 Bibliografia essenziale

  • Karl Marx, Il Capitale, vol. I-III
  • John M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, 1936
  • Jacques Lacan, Il seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi, 1969-70
  • Wolfgang Streeck, Tempo guadagnato, 2013
  • Nancy Fraser, Capitalismo cannibale, 2022
  • Alain Badiou, La vera vita, 2016
  • Slavoj Žižek, Il coraggio della disperazione, 2017
  • Christian Marazzi, Capitale e Linguaggio 


mercoledì 9 luglio 2025

Leader e Formazioni Politiche


Introduzione

La relazione tra leader e massa è un nodo centrale per comprendere le dinamiche politiche contemporanee. Fin da Freud (Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 1921), la psicoanalisi ha messo in luce come il leader operi come figura d’identificazione primaria, capace di organizzare il desiderio e canalizzare l’investimento libidico collettivo.

Con Lacan, e in particolare con la teoria dei quattro discorsi (Il rovescio della psicoanalisi, 1969-70), il leader appare non tanto come individuo carismatico, ma come funzione simbolica, un punto di sutura che tiene insieme un legame sociale. Ogni tipo di leadership si può così leggere in relazione a una struttura psichica, a un discorso dominante, e a una particolare modalità con cui la massa si organizza attorno a essa.


Tipi di Leadership, Strutture Psichiche e Legame Sociale

Tipo di leadership Struttura psichica del leader Discorso dominante Struttura della massa Esempi
Perversa Perversa Discorso del Padrone Complicità feticistica, godimento trasgressivo Hitler, Mussolini, Trump, tratti in Putin
Paranoide Paranoide Padrone / Universitario Identificazione persecutoria, coesione nell’odio Stalin, Netanyahu (in parte), Putin
Isterica Isterica Discorso dell’Isterica Idealizzazione, domanda etica incessante Zelensky, Greta Thunberg, leader progressisti UE
Ossessiva Ossessiva Universitario / Padrone Adesione razionale, controllo difensivo De Gaulle, Cavour, Draghi
Generativa Simbolicamente situata Padrone pluralizzato / Analista Simbolizzazione condivisa, cooperazione orizzontale Gandhi, M.L. King, Allende, Spinelli, Delors
Analitica Funzione di causa (liminare) Discorso dell’Analista Soggettivazione, apertura del desiderio Leader decentrati, assemblearismo radicale


Leader perversi: la legge come godimento

Le leadership perverse, come quelle di Hitler e Mussolini, si fondano su un godimento autoritario: la Legge non è simbolica ma volontà personale del leader. Le masse non vi si oppongono, ma vi aderiscono in modo feticistico, trovando godimento nell’obbedienza e nella sottomissione. Il leader perverso si offre come oggetto causa del godimento collettivo, convertendo il desiderio in fedeltà cieca.

Donald Trump rappresenta una versione postmoderna di questa struttura: la sua leadership non si fonda su coerenza o verità, ma sulla capacità di mobilitare un godimento trasgressivo, fondato sulla rottura con il politicamente corretto, sull’oscenità comunicativa e sull’identificazione narcisistica. Trump non governa: seduce, provoca, incarna il desiderio del "dire ciò che nessuno osa dire". La sua parola è feticcio, non messaggio.

Nelle masse che lo seguono si attiva un godimento condiviso: il piacere di vedere infranta la Legge simbolica delle élite, delle istituzioni, della civiltà liberale. Il suo potere non si basa sulla verità ma sulla performatività: è vero perché è stato detto da lui.


Leader paranoidi: il nemico come collante

La leadership paranoide costruisce il legame sociale attorno a una minaccia: il Nemico è l’elemento coesivo. Il leader paranoide – come Stalin, o in parte Netanyahu – organizza la massa in funzione difensiva, trasformando l’angoscia in identificazione persecutoria.

Putin fonde questa modalità con elementi perversi: da un lato costruisce un’identità nazionale attraverso la minaccia esterna (NATO, Occidente, dissidenti), dall’altro si pone come figura intoccabile, che incarna la Legge come potere assoluto. La sua leadership è fredda, autoritaria, impermeabile alla domanda.


Leader isterici e ossessivi: la domanda e la norma

Il leader isterico, come Zelensky o Greta Thunberg, si rivolge all’Altro con una domanda etica incessante: perché questo mondo è così ingiusto? Non propone risposte, ma attiva movimenti, sollecita, inquieta. Questo stile può mobilitare grandi energie, ma tende anche all’instabilità, perché non si fonda su una simbolizzazione forte ma su una tensione.

Il leader ossessivo, al contrario, cerca ordine e coerenza. Agisce a partire da un principio normativo o tecnico. È il caso di De Gaulle, Cavour, e – in forma tecnocratica – di Mario Draghi, che incarna una leadership razionale, controllata, difensiva. La massa si identifica con la solidità, con la promessa di un sapere esperto, spesso depoliticizzato.


Leader generativi e analitici: simbolo e desiderio

La leadership generativa produce simbolizzazione. Non impone, ma orienta. Leader come Gandhi, Martin Luther King o Salvador Allende non si pongono come padroni, ma come figure situate simbolicamente, capaci di dare forma al desiderio collettivo. In Europa, solo parzialmente alcune figure come Altiero Spinelli o Jacques Delors hanno incarnato questo stile, promuovendo un’Europa come progetto etico e politico condiviso.

La leadership analitica, infine, è rara. Non si presenta come guida, ma come funzione che causa desiderio. Il leader analitico non occupa il posto del sapere né quello del godimento, ma apre lo spazio della parola, della soggettivazione. Alcune esperienze assembleari, movimenti orizzontali, forme di militanza senza leader, possono essere lette in questa prospettiva.


Leadership europea: crisi simbolica e ricerca di senso

La leadership europea attuale si presenta come frammentata, oscillante, spesso simbolicamente povera. Alcuni leader (Draghi, Scholz) adottano un tono ossessivo-tecnocratico; altri (Macron) oscillano tra isteria e decisionismo padronale. Le forze progressiste, quando esistono, parlano con registro isterico, ma faticano a proporre un significante unificante.

In questo contesto, l’Europa appare più come apparato amministrativo che come luogo desiderabile. Manca una leadership generativa, capace di parlare al desiderio e non solo al bisogno. Manca un significante condiviso che nomini il legame. Dove non c’è simbolizzazione, il potere torna a oscillare tra burocrazia e populismo.


Conclusione: verso una nuova funzione del leader?

In un’epoca segnata dalla crisi della rappresentanza, dal ritorno del godimento autoritario e dalla scomposizione del legame sociale, ripensare la funzione del leader significa interrogare ciò che tiene insieme una collettività.

Non si tratta di scegliere tra carisma o competenza, ma di interrogare il luogo simbolico del leader: è ancora possibile una leadership che non catturi il desiderio, ma lo orienti senza dominarlo? È possibile passare dalla fascinazione all’etica, dalla padronanza alla responsabilità?

La psicoanalisi ci offre una bussola per leggere il presente. Ma il futuro resta aperto.


Bibliografia essenziale

  • Freud, S. (1921). Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Opere, vol. XI.
  • Lacan, J. (1969-70). Il rovescio della psicoanalisi. Seminario XVII.
  • Recalcati, M. (2007). L’uomo senza inconscio. Raffaello Cortina.
  • Lazzarato, M. (2012). La fabbrica dell’uomo indebitato. DeriveApprodi.
  • Žižek, S. (2006). La soggettivazione politica. Meltemi.


sabato 28 giugno 2025

Vasco Rossi: una voce che dà corpo al sintomo contemporaneo

                              
Vasco's concert

"Eh già, sembrava la fine del mondo / ma sono ancora qua."
(Eh… già, 2011)

Vasco Rossi è molto più di un’icona musicale: è un fenomeno sociale che attraversa decenni di trasformazioni culturali, dando voce a un malessere che spesso resta inespresso. Non è un profeta né un guaritore. Non offre risposte, ma restituisce parola – e soprattutto corpo – a ciò che nella soggettività contemporanea resta senza nome: la confusione, la voglia, il desiderio che non sa dove andare.

La sua voce roca, imperfetta, imperniata di eccessi e fragilità, non è un “difetto stilistico” ma una forma di oggetto pulsionale, qualcosa che si inscrive direttamente sul corpo di chi ascolta. In termini lacaniani, potremmo dire che Vasco è oggetto voce, ovvero un frammento di godimento che tocca l’inconscio più che la comprensione razionale.


Il cantante che non guida ma accompagna

"Voglio una vita esagerata / piena di guai."
(Vita spericolata, 1983)

Fin dall’inizio Vasco ha preso le distanze dai modelli normativi – morali, religiosi, educativi – della tradizione italiana. Non ha cercato di proporre un nuovo ordine simbolico, ma ha mostrato la possibilità di restare accanto al vuoto, senza cedere alla disperazione né alla restaurazione di autorità fittizie.

In questo, la sua figura rappresenta non tanto un’alternativa quanto un’esposizione sincera. Egli non indica la via, ma testimonia che si può stare nella mancanza. Ed è proprio per questo che risuona con la condizione esistenziale di molti.


Il sintomo che tiene insieme

"C’è chi dice no, io non mi muovo."
(C’è chi dice no, 1987)

In psicoanalisi, il sintomo non è semplicemente un disturbo da eliminare. È una soluzione soggettiva al disagio, un modo – spesso paradossale – con cui il soggetto tenta di tenersi insieme. Le canzoni di Vasco non “curano”, ma mettono in scena il sintomo, e così lo rendono condivisibile, legabile, non più isolato.

L’identificazione che molti stabiliscono con lui – spesso potente, viscerale – può essere letta in termini di identificazione immaginaria: ci si riconosce in ciò che lui mostra, ci si sente rappresentati. Questo non è necessariamente un ostacolo. Può essere, al contrario, una prima forma di legame, una soglia di accesso al proprio sentire.


Il rispetto dell’alterità

Un aspetto meno evidente ma importante del repertorio di Vasco riguarda le figure femminili, che raramente sono stereotipate o ridotte a oggetti del desiderio. In brani come Albachiara o Sally, l’altro è lasciato nel suo enigma. Non viene posseduto, decifrato o conquistato, ma riconosciuto nella sua irriducibilità.

Questo atteggiamento, raro nel panorama musicale, apre uno spazio etico. Un rispetto della differenza che, pur nel linguaggio semplice della canzone, parla un linguaggio simbolico alto.


Il concerto come rito contemporaneo

"La gente non ha bisogno di spiegazioni, ha bisogno di sentire che non è sola."
(Intervista a Rolling Stone, 2018)

Nel contesto sociale odierno, dove prevale la disgregazione dei legami e il ritiro individuale, i concerti di Vasco rappresentano un raro spazio di risonanza collettiva. Il concerto non è solo intrattenimento: è rito, è legame, è esperienza del corpo in mezzo ad altri corpi che vibrano allo stesso ritmo.

In questi momenti, la confusione si trasforma in appartenenza, anche solo per qualche ora. E forse è in questo che si genera un senso.


Una figura-sintomo nel tempo del vuoto simbolico

In conclusione, Vasco Rossi rappresenta una figura-sintomo nel tempo del vuoto simbolico.
Non è guida spirituale, non è ideologo. È qualcuno che dà corpo a una forma di godimento imperfetta, sincera, esposta, con cui tanti possono entrare in risonanza.

Come ogni sintomo, non guarisce, ma tiene insieme. E nel suo modo di stare sul palco – fragile, ironico, ostinato – incarna qualcosa del soggetto contemporaneo: non risolto, ma vivo.

E questo, forse, è già molto.



venerdì 27 giugno 2025

ADHD: una lettura lacaniana del sintomo iperattivo-disattentivo


ADHD: una lettura lacaniana del sintomo iperattivo-disattentivo

Introduzione

Il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) è oggi uno dei disturbi più frequentemente diagnosticati nell’infanzia e nell’adolescenza. Il modello dominante di lettura è di tipo neurobiologico e comportamentale, orientato alla gestione dei sintomi e alla normalizzazione del comportamento. La psicoanalisi, e in particolare l’insegnamento di Jacques Lacan, propone invece una radicale messa in questione di questo paradigma: ci invita a interrogarci non su ciò che manca al bambino, ma su ciò che in lui eccede, sul senso soggettivo del suo sintomo, sul rapporto tra godimento, desiderio e discorso.


1. Il sintomo come risposta soggettiva

Lungi dall’essere un semplice "deficit", il comportamento iperattivo o disattento può essere letto come una risposta del soggetto a un impasse nel legame con l’Altro. Come insegna Lacan nel Seminario XI, “non c’è soggetto che non sia effetto di un significante per un altro significante”. Se manca un significante stabile che fondi l'identità simbolica del soggetto, si crea una condizione di disorganizzazione soggettiva.

In diversi casi clinici si osserva come i bambini manifestino comportamenti di agitazione o distrazione come risposta alla difficoltà di collocarsi nel desiderio dell’Altro. L’iperattività può rappresentare un modo per farsi vedere, per occupare uno spazio soggettivo non assegnato simbolicamente. Il sintomo non è allora un semplice disfunzionamento, ma una forma di appello, una modalità di sopravvivenza nel legame.


2. L’iperattività come difesa contro l’angoscia

Nell’ADHD il tempo sembra collassare: il soggetto non sa attendere, è preda dell’urgenza. Questo può essere letto come un tentativo di evitare l’incontro con la mancanza. Come osserva Lacan nel Seminario XX, “il reale del godimento, se non è mediato dal simbolico, invade il corpo”. Il bambino iperattivo agisce per non pensare, si muove per non sentire, occupa lo spazio per non cadere nel vuoto.

In alcune situazioni cliniche, il bambino mostra come la frenesia del corpo sia una barriera contro l’emersione dell’angoscia. Attraverso disegni o frammenti di parola, può emergere un vissuto di inseguimento, di minaccia indefinita, che l’azione corporea tenta di neutralizzare. Il sintomo protegge il soggetto da un confronto diretto con ciò che non ha nome.


3. Il fallimento dell’Altro simbolico

La funzione dell’Altro (genitoriale, educativo, sociale) è quella di offrire al soggetto una cornice simbolica, una Legge che consenta l’inserimento nel discorso. Nell’ADHD questa funzione sembra venuta meno. La madre è spesso troppo presente, il padre evanescente o senza parola. Il bambino resta in balia di un godimento senza argine.

Alcune situazioni cliniche mostrano come, in assenza di una funzione separativa, il bambino resti immerso in un legame simbiotico che impedisce l’instaurarsi di una posizione soggettiva. Il sintomo iperattivo o disattento diventa così una modalità di reazione a un eccesso di presenza dell’Altro, che invade lo spazio del soggetto.


4. Il discorso capitalista e l’iper-adattamento

Nel Seminario XVII Lacan descrive il discorso capitalista come un dispositivo in cui il soggetto è spinto alla produzione e al godimento immediato. In questo contesto, il bambino iperattivo è spesso il prodotto di una richiesta eccessiva: deve performare, adattarsi, non perdere tempo. Quando non riesce a farlo, viene medicalizzato.

In contesti familiari o scolastici molto esigenti, l’iperattività può insorgere come risposta inconscia a un ideale di efficienza inaccessibile. Alcuni bambini sembrano dire, con il corpo, “io non ci sto”, opponendosi inconsciamente a una logica di prestazione totalizzante.


5. La clinica della separazione

L’intervento psicoanalitico con soggetti iperattivi o disattenti non mira alla correzione del sintomo, ma alla sua soggettivazione. Si tratta di restituire al bambino la possibilità di entrare nel linguaggio, di nominare il proprio disagio, di riconoscere il desiderio dell’Altro e distinguersene.

Il lavoro clinico coinvolge spesso anche i genitori e gli insegnanti, per riformulare il posto del bambino nella rete simbolica. Laddove il sintomo occupa tutto lo spazio, la parola può riaprirlo. Anche piccoli segni, come un disegno ripetuto o una frase enigmatica, possono diventare l’inizio di una separazione soggettiva dal godimento e dall’Altro.


Conclusione

L’ADHD, letto alla luce della psicoanalisi lacaniana, non è un disturbo da correggere ma un sintomo da ascoltare. Un grido del corpo, una risposta al fallimento dell’Altro, un tentativo disperato di fare legame. Restituire al bambino la sua dimensione di soggetto è l’etica della clinica orientata dal desiderio.


Bibliografia

  • Lacan, J. (1973). Il Seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1970). Il Seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1973). Il Seminario. Libro XX: Ancora. Einaudi.
  • Mannoni, M. (1970). Il bambino, il folle e l’artista. Einaudi.
  • Maleval, J.-C. (2003). L’autismo: un’altra lettura possibile. Borla.
  • Laurent, E. (2005). La clinica del soggetto ipermoderno. In Attualità della psicoanalisi.
  • Di Ciaccia, A. (2006). La clinica del bambino e l’orientamento lacaniano. Quodlibet.
  • Recalcati, M. (2010). L’uomo senza inconscio. Da Freud al neoliberismo. Raffaello Cortina.


Quando il sapere inciampa. Una lettura psicoanalitica dei DSA


Il sinthomo e il sapere

Nel Seminario XXIII, Jacques Lacan introduce il concetto di sinthomo: non più un sintomo da decifrare per guarire, ma una soluzione singolare, un nodo che permette al soggetto di tenere insieme la propria esperienza tra corpo, linguaggio e godimento. È un modo per reggere l’impatto del linguaggio e dell’Altro, un punto di tenuta, non un difetto.

In quest’ottica, anche i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) – come dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia – possono essere letti non soltanto come deficit cognitivi, ma come formazioni sinthomatiche. Cioè: modalità personali, a volte inconsce, con cui un bambino prende posizione rispetto al sapere, alla scuola, alla famiglia, alla Legge.

Come scrive Luisella Brusa in I disturbi dell’Apprendimento (Quodlibet, 2024), occorre spostare lo sguardo “dall’intervento riparativo al riconoscimento del soggetto”, superando una logica normalizzante e aprendo a una clinica del legame con il sapere.


Dislessia: inciampare per non cedere

Dietro la lentezza o l’errore nella lettura può nascondersi una forma di resistenza simbolica. Per alcuni bambini, leggere bene non è solo una competenza tecnica, ma può significare sottomettersi al sapere dell’Altro. Gli errori diventano così modi di difendersi, di prendere distanza da un comando vissuto come troppo intrusivo.


Disortografia: l’errore come segno soggettivo

Molti bambini conoscono le regole ortografiche, ma continuano a violarle con regolarità. L’errore si ripete come una firma, un gesto che afferma la propria differenza, specie in contesti familiari dove dominano il perfezionismo o il confronto con fratelli “migliori”. L’errore diventa allora un modo per dire: non sarò come vi aspettate.


Disgrafia: il corpo che resiste alla scrittura

Scrivere implica lasciare che il corpo sia attraversato dal linguaggio. Ma in alcuni bambini la scrittura si inceppa: la mano si irrigidisce, il tratto è spezzato, il gesto diventa faticoso. Questo può indicare una difficoltà di separazione, una resistenza a lasciar passare il significante attraverso il corpo senza produrre disagio o godimento eccessivo.


Discalculia: il numero come segno di separazione

Il numero, nella teoria lacaniana, è collegato alla Legge, alla funzione paterna, alla possibilità di separarsi. Alcuni bambini rifiutano il numero, la tabellina, il calcolo, senza apparenti motivi cognitivi. A volte ciò avviene in contesti dove il legame con la madre o l’ambiente familiare è ancora troppo fusivo: il numero diventa allora un simbolo della separazione non tollerata.


Conclusione: il DSA come espressione soggettiva

Guardare ai DSA come strutture sinthomatiche significa non ridurli a malfunzionamenti, ma coglierli come risposte creative. La psicoanalisi non si propone di correggere l’errore, ma di accompagnare il soggetto a costruire un rapporto sostenibile e singolare con il sapere.

Il disturbo diventa così un punto di partenza, non un punto da eliminare. È lì che si annida un desiderio da ascoltare.


Per approfondire

  • Lacan, J. (1975-76). Il Seminario. Libro XXIII. Il sinthomo. Einaudi
  • Brusa, L. (2024). I disturbi dell’Apprendimento. Prospettive psicoanalitiche e dispositivi pedagogici. Quodlibet
  • Maleval, J.-C. (2012). Il bambino autistico e la sua scrittura. Astrolabio
  • Recalcati, M. (2007). L’uomo senza inconscio. Raffaello Cortina
  • Cosenza, G. (a cura di). (2018). La clinica dei disturbi dell’apprendimento. FrancoAngeli


Dietro ogni “errore”, un soggetto in cerca di parola.





martedì 17 giugno 2025

La Polis tra Neoliberismo e Comunitarismo: democrazia critica e resistenza del soggetto

 


Nel XXI secolo, la democrazia si trova stretta tra due forze simboliche di grande potenza: da un lato il neoliberismo, che dissolve progressivamente i legami sociali attraverso l'individualizzazione estrema e la razionalità economica totalizzante; dall'altro, il neocomunitarismo identitario, che risponde a questa dissoluzione con forme di chiusura, risentimento e difesa identitaria. In questo scenario complesso, si rende sempre più necessario pensare e praticare una democrazia critica, capace di accogliere la tensione tra queste due tendenze e di custodire la complessità del soggetto.

Il neoliberismo, che ha segnato l'ordine globale sin dagli anni Ottanta, ha prodotto ingiustizie profonde e durature. Il suo principio guida è la trasformazione di ogni ambito della vita in mercato: lavoro, scuola, cura, cultura. Il soggetto è spinto a pensarsi come imprenditore di se stesso, responsabile unico del proprio destino. Questa ideologia, che all'apparenza promette libertà, finisce per generare precarietà, solitudine e colpa. Le istituzioni pubbliche, debolite o privatizzate, non riescono più a sostenere i legami simbolici che strutturano la vita collettiva.

Di fronte a questa frattura, molti gruppi sociali reagiscono riscoprendo la forza dell'appartenenza: religiosa, etnica, nazionale o culturale. È il campo del neocomunitarismo identitario, che si esprime in forme diverse: dai fondamentalismi religiosi ai nazionalismi sovranisti, fino a movimenti comunitari chiusi e oppositivi. Queste forme rispondono a un bisogno reale di protezione, ma lo fanno spesso irrigidendo il simbolico, trasformando la differenza in minaccia, il confine in muro.

Eppure, il comunitarismo non è necessariamente regressivo. Se riconosciuto e accompagnato, può trasformarsi in comunitarismo critico: una forma di legame che mantiene la memoria, la cura e l'appartenenza, ma le apre al confronto, alla pluralità e alla responsabilità. Non più comunità identiche a sé stesse, ma comunità che riflettono sul proprio fondamento simbolico, che interrogano il proprio rapporto con l'altro.

È qui che la psicoanalisi ha molto da dire. Lacan ha mostrato come il soggetto sia sempre diviso, marcato dalla mancanza, e come ogni identificazione sia, al tempo stesso, necessaria e fittizia. Il soggetto ha bisogno di un significante padrone (S1) per stabilire la propria posizione, ma non coincide mai pienamente con esso. Questo scarto è il luogo stesso del desiderio e della libertà. La psicoanalisi, allora, non nega il bisogno di comunità, ma lo attraversa, lo decifra, ne svela le rigidità e le aperture possibili.

Nel lavoro clinico, educativo e sociale, vediamo ogni giorno soggetti presi tra la solitudine neoliberale e l'abbraccio soffocante dell'identità. Giovani, migranti, lavoratori precari cercano senso, ascolto, legame. La psicoanalisi può offrire uno spazio di parola in cui queste tensioni siano rese dicibili, in cui il soggetto sia riconosciuto nella sua irriducibile singolarità, ma anche nella sua iscrizione in un legame.

In questo orizzonte, la democrazia critica si presenta non come un semplice sistema procedurale, ma come forma simbolica della mediazione. Essa accoglie il conflitto senza volerlo eliminare, riconosce la differenza senza gerarchizzarla, apre spazi in cui i soggetti e le comunità possano articolare la propria voce. Quando la democrazia incontra forme di comunitarismo critico, si aprono esperienze concrete di "polis": spazi dove la cittadinanza non è solo appartenenza giuridica, ma partecipazione reale, cura del bene comune, costruzione di senso condiviso.

Possiamo citare come esempi:

  • Il terzo settore e le reti dei commons, che creano legami solidaristici nel cuore dell'economia;
  • il municipalismo democratico di Porto Alegree, Barcellona, Parigi, Napoli e altre città europee, che tenta di radicare la democrazia nella vita quotidiana;
  • alcune esperienze di scuola popolare e di pedagogia radicale, dove il sapere diventa condivisione e liberazione.
  • Reti di mutuo soccorso nate in contesti urbani come Barcellona che hanno rafforzato comunità solidali, mentre la mediazione interculturale è attiva in città multiculturali come Parigi e Napoli. 
  • Piattaforme di economia collaborativa e gruppi di auto-aiuto diffusi in questi contesti testimoniano nuove forme di legame sociale e partecipazione.

Questi esempi non sono modelli da imitare, ma segni che un altro incontro è possibile. Un incontro tra libertà e legame, tra differenza e appartenenza, tra soggetto e comunità. In questo senso, la democrazia critica può anche diventare comunitarismo critico: non negazione della comunità, ma suo attraversamento riflessivo, simbolico, aperto.

Lavorare per la democrazia oggi significa resistere alla doppia disumanizzazione del mercato e dell'identità chiusa. Significa difendere lo spazio della parola, del conflitto simbolico, del desiderio. Significa affermare che il soggetto non è mai del tutto inglobabile, né dal capitale, né dalla tribù. Ma anche che il soggetto non è mai solo: ha bisogno di luoghi, riti, nomi, legami.

Ecco allora il compito: trasformare la polis in uno spazio in cui soggetti e comunità possano non solo esistere, ma significare. In cui la psicoanalisi non sia un sapere separato, ma una pratica della parola e dell'ascolto capace di illuminare le faglie della contemporaneità.

Bibliografia sintetica

  • Brown, W. (2019). La fine della democrazia?. Einaudi.
  • Brague, R. (2009). Il futuro dell'Occidente. Cantagalli.
  • Lacan, J. (1964). Il seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.
  • Nancy, J.-L. (2000). Essere singolare plurale. Einaudi.
  • Mouffe, C. (2005). Sulla politica. Democrazia e antagonismo nel capitalismo globale. Meltemi.
  • Taylor, C. (1994). Radici dell'io. Feltrinelli.
  • Zizek, S. (2008). Vivere alla fine dei tempi. Ponte alle Grazie.
  • Butler, J. (2004). Vite precarie. Meltemi.
  • Han, B.-C. (2022). La crisi della narrazione. Einaudi.


Il vuoto nella pratica istituzionale: un'etica dell'attesa







1. Il vuoto come esperienza concreta nei servizi

Nel lavoro quotidiano nei servizi socio-sanitari ed educativi, il vuoto si presenta come esperienza concreta: momenti di sospensione, inattività, silenzio. Pause improvvise nel ritmo istituzionale, tempi morti tra un’attività e l’altra, assenze che sembrano pesare sull’atmosfera. Talvolta, questi vuoti sono vissuti come errori da colmare, falle nel dispositivo da riparare. Eppure, se ci si sottrae alla logica dell’efficienza immediata, si può riconoscere in questi interstizi il riemergere del reale, quell’eccedenza che sfugge all’organizzazione e che interroga profondamente la nostra posizione etica di operatori.


2. Vuoto, desiderio e mancanza nel soggetto

La psicoanalisi lacaniana ci invita a un'altra lettura: il vuoto non è assenza di senso, ma condizione strutturale del desiderio. Il soggetto umano si costituisce attorno a una mancanza originaria – il manque-à-être – che non va colmata, ma riconosciuta e sostenuta. Lacan afferma che “non c’è atto simbolico se non nel vuoto” (Seminario V): è nel vuoto che può emergere un nuovo significante, un atto soggettivo. In questa luce, i momenti “vuoti” nel lavoro educativo o terapeutico non sono da eliminare, ma da abitare con rispetto.


3. Il disagio degli operatori di fronte al vuoto

Nelle équipe, il vuoto mette spesso in crisi l’identificazione con un ideale di efficienza e di progettazione continua. L’operatore che si confronta con un’utenza silenziosa, apatica, non cooperante, può sentirsi inutile o inadeguato. Il rischio è la reazione ansiosa: colmare subito, agire, riempire. Ma questa risposta rischia di negare il tempo del soggetto e l’opportunità del desiderio. È necessario uno spostamento: dalla prestazione alla presenza, dalla fretta al rispetto per il tempo logico del soggetto.


4. Il tempo logico e l’attesa significativa

Lacan distingue il tempo cronologico da quello logico: il soggetto non si costituisce nel tempo lineare, ma attraverso rotture, sospensioni, atti. L’etica istituzionale che accoglie questa logica può offrire spazi dove il tempo del soggetto sia rispettato, e dove il desiderio possa articolarsi senza essere spinto o ridotto a bisogno. È la capacità di attendere senza esigere che rende fecondo un incontro. L’operatore che sa attendere senza forzare assume una posizione prossima a quella dell’analista.


5. Esempi clinici e quotidianità del vuoto

Pensiamo a un adolescente in un centro educativo che non partecipa alle attività, rifiuta ogni dialogo, sembra non volere nulla. La tentazione è quella di “fare qualcosa”: organizzare, intervenire, proporre. Ma può essere proprio l’assenza di intervento diretto, il rispetto per quel ritiro, a creare uno spazio dove qualcosa accada. Un giorno, forse, quel ragazzo chiede una musica, una frase, uno sguardo: in quel momento il soggetto ha occupato il vuoto con un proprio gesto.


6. Il vuoto come occasione di soggettivazione

Come ricorda Massimo Recalcati nella sua Clinica del vuoto, è nell’assenza dell’Altro che garantisce – nel tempo in cui il grande Altro si mostra mancante – che può emergere la soggettività autentica. Non si tratta di abbandono, ma di sostegno non intrusivo. Il vuoto non è il nulla, ma il luogo potenziale dove il soggetto può produrre un atto proprio, non imposto, non eterodiretto. Anche nelle riunioni d’équipe, momenti di disorientamento o sospensione progettuale possono divenire, se ben accolti, spazi di elaborazione collettiva e di ripensamento dell’azione.


7. Etica della presenza e clinica dell’inconsistenza

Questa pratica del vuoto richiede una trasformazione della posizione dell’operatore: non più colui che offre sempre senso, ma colui che sa sostenere l’inconsistenza del sapere. Una presenza che non pretende, che non chiude, che non anticipa. Si tratta, in termini lacaniani, di “occupare il posto dell’oggetto a”, ovvero sostenere la mancanza dell’Altro senza volerla saturare. Questo è il vero atto clinico, che riguarda tanto l’istituzione quanto la relazione uno per uno.


8. Conclusione: una politica della mancanza

In un tempo istituzionale dominato dalla logica dell’efficienza, accogliere il vuoto è un gesto clinico e politico. È un’etica dell’attesa, della presenza non saturante, della fiducia nel tempo soggettivo. Il vuoto, lungi dall’essere un fallimento, è ciò che rende possibile l’invenzione, la parola, l’atto. È lì che può emergere il soggetto, con il proprio tempo, la propria voce, la propria mancanza.

Bibliografia

  • Lacan, J. (1957-58). Il Seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio. Torino: Einaudi.
  • Lacan, J. (1966). Scritti. Torino: Einaudi.
  • Recalcati, M. (2010). Clinica del vuoto. Milano: Raffaello Cortina.
  • Heidegger, M. (1927). Essere e tempo. Milano: Longanesi.
  • Fink, B. (1995). The Lacanian Subject. Princeton University Press.


domenica 15 giugno 2025

Il disagio nella famiglia contemporanea

1. Introduzione: famiglia e disagio oggi

Oggi la famiglia è uno degli spazi dove più si manifesta il disagio psichico di bambini e adolescenti. Il cambiamento dei ruoli tradizionali e la perdita di punti di riferimento chiari hanno reso il contesto familiare più fragile e confuso. Spesso si passa da una trasmissione di desideri e valori a un ambiente fatto di attese, pressioni e incomprensioni.

La psicoanalisi lacaniana ci offre una chiave per comprendere queste trasformazioni: tutto ruota attorno al Nome-del-Padre, al significante, e al modo in cui il desiderio si trasmette tra le generazioni.


2. Il declino del Nome-del-Padre

Jacques Lacan, già negli anni ’60, parlava del declino della funzione paterna. Questo non significa l’assenza del padre in senso fisico, ma la crisi della funzione simbolica che introduce la legge, il limite, la separazione.

Spesso oggi:

  • il padre non è più percepito come punto di riferimento simbolico;
  • la madre occupa tutto lo spazio relazionale, parlando anche a nome del padre, ma senza quel terzo che dovrebbe dividere e strutturare.

🧩 Esempio: nelle famiglie dove il padre è fisicamente presente ma non prende posizione simbolica, la madre può diventare troppo presente, troppo coinvolta. Il figlio rischia di diventare il suo unico oggetto d’interesse, impedendo la sua autonomia.


3. Madre desiderante o madre “tutta”

Lacan distingue tra:

  • la madre del desiderio, che lascia spazio al figlio per crescere e separarsi;
  • la madre “tutta”, che gode del figlio e non lo lascia andare.

In quest’ultimo caso, il figlio non trova uno spazio per sé, e può sviluppare sintomi ansiosi, depressivi o comportamenti oppositivi.

🧩 Esempio: un ragazzo in adolescenza che non riesce a uscire di casa, ad avere amici, o a separarsi dalla madre: è come se vivesse ancora dentro un legame simbiotico che non si è mai spezzato.


4. Nuove famiglie, nuove funzioni

Famiglie omogenitoriali, ricostituite, monogenitoriali… Oggi le forme familiari sono molte, ma ciò che conta per lo sviluppo di un soggetto non è la forma, bensì la funzione. Ci deve essere qualcuno che sostenga il limite, che rappresenti la legge, che permetta la separazione.

🧩 Esempio: in una coppia omogenitoriale, se uno dei due genitori sa sostenere la mancanza, il limite, e non invade lo spazio del figlio, può garantire una struttura simbolica efficace.


5. Quando il padre reale prende il posto del simbolico

Quando manca la funzione paterna simbolica, può emergere un padre reale: autoritario, assente, o seduttivo. È ciò che Lacan chiama il padre che gode – non colui che introduce la legge, ma che mette in scena il proprio desiderio senza limite.

🧩 Esempio: padri che fanno a gara con i figli adolescenti, che li trattano da amici o da rivali, che non pongono limiti ma vogliono essere “complici”: questo genera confusione e spesso angoscia.


6. Effetti sul piano educativo e clinico

Tutto ciò si traduce in bambini e ragazzi che:

  • non accettano limiti, ma li cercano in modo disperato;
  • manifestano sintomi come acting out, scoppi di rabbia, o ritiro sociale;
  • si attaccano agli educatori come a figure genitoriali sostitutive.

🧩 Esempio: nei servizi per minori, si incontrano spesso ragazzi che mettono alla prova gli adulti, spingendo i limiti, cercando un "no" che a casa non hanno mai ricevuto.


Conclusione

La psicoanalisi ci insegna che non è la presenza fisica dei genitori a fare la differenza, ma la capacità di occupare certe funzioni simboliche: desiderare il figlio, lasciarlo andare, introdurre il limite, aprire uno spazio di parola.

Solo così si può uscire dalla simbiosi, dalla confusione, e offrire al soggetto una via per esistere nel legame con gli altri, senza perdere se stesso.


📚 Bibliografia essenziale

Opere di Jacques Lacan

  • Seminario XVII: Il rovescio della psicoanalisi
  • Seminario XX: Encore
  • J.-A. Miller, Il posto dell’insegnamento di Lacan nella storia della psicoanalisi
  • M. Recalcati, Il complesso di Telemaco (2007); Le mani della madre (2011)


Per capire davvero cosa succede oggi nelle famiglie, bisogna ascoltare i legami, i desideri, e soprattutto il posto lasciato alla parola e alla separazione.




Dio è inconscio. Perché l’ateismo non basta

  «La vera questione dell’ateismo è che Dio è inconscio» — Jacques Lacan, Seminario XX – Encore (1972–1973)   Lacan non ha mai smesso di...