«Il deserto cresce: guai a chi in sé cela deserti»
— Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra
La Modernità e la crisi dell’Assoluto
Nietzsche ha intuito come pochi altri il destino della modernità: con la “morte di Dio” si sarebbe aperto uno spazio vuoto, abitato da nuovi idoli e nuove volontà di potenza. Ma non si tratta solo di un crollo della fede, bensì dell’evaporazione di ogni fondamento stabile per la Legge, il Senso e il Desiderio. In termini lacaniani, potremmo dire che si è dissolto il Nome-del-Padre come garante dell’ordine simbolico, lasciando il soggetto esposto a un Reale senza mediazioni.
L’Occidente ha reagito a questa perdita assolutizzando altri registri: la tecnica, il capitale, la scienza, il consumo. Il vuoto lasciato da Dio è stato colmato da forme secolarizzate di assoluto, non meno dogmatiche. Lungi dall’aprire una pluralità libera di sensi, la crisi del sacro ha spesso prodotto fondamentalismi moderni. Come ha scritto Lacan, il discorso del capitalista promette di eludere la castrazione simbolica: "funziona a meraviglia, ma proprio per questo va verso la catastrofe" (Lacan, “Radiophonie”).
Il ritorno dei fondamentalismi
Nel vuoto lasciato dall’Assoluto religioso, si sono affacciati nuovi assolutismi. Da un lato i fondamentalismi religiosi, che riattivano in forma regressiva e violenta il significante Padre. Dall’altro, una tecnocrazia globale che sostituisce l’autorità con l’algoritmo e la decisione con la previsione. In entrambi i casi, ciò che si evita è il confronto con il Reale: l’inconsistenza dell’Altro, il non-senso radicale del desiderio umano.
Il fondamentalismo religioso reintroduce un Dio-Altro totale, che ordina e punisce; la tecnocrazia promette un mondo senza soggettività, dove tutto può essere calcolato. In questa polarità, la modernità si mostra in tutta la sua ambivalenza: emancipatrice e ansiogena, razionale e delirante. La verità è che nessuno vuole davvero abitare il Reale: si preferisce l’Altro pieno, sia sotto forma di Shari’a che di Intelligenza Artificiale.
Capitalismo e autoritarismi: una dialettica inquietante
Non va dimenticato che anche il capitalismo è un fondamentalismo. Come scrive Žižek, esso funziona come “una religione senza teologia”: totalizzante, globale, non negoziabile. Ma oggi il suo dominio non è più indiscusso. Dopo la lunga stagione della globalizzazione liberale, assistiamo a un ritorno dell’elemento statuale e autoritario: Russia, Cina, India e molte altre nazioni promuovono modelli che intrecciano capitalismo e controllo sociale, mercato e comando.
La Russia di Putin propone una restaurazione simbolica in chiave nazionale-religiosa, mescolando ortodossia, patriottismo e gestione centralizzata. La Cina afferma un capitalismo tecnocratico senza democrazia, in cui il Partito assume il ruolo di S1: significante-padrone che regola senso, storia e identità. Gli USA, pur restando una potenza capitalistica liberale, si trovano attraversati da pulsioni autoritarie interne e da una sfida esterna che ne relativizza l’universalismo.
In questo scenario multipolare, il capitalismo non sparisce: si adatta. Assume coloriture culturali diverse, si ibrida con modelli verticali, perde la sua maschera liberal-progressista. Nasce una dialettica tra mercato e comando, tra algoritmo e decisione, tra flusso e muro. E forse, come suggeriva Lacan nella sua lettura del Discorso del capitalista, questa dialettica è destinata a esplodere, perché elude troppo a lungo la questione della mancanza.
L’Europa e la sfida della simbolizzazione
In questo contesto, l’Europa appare fragile ma anche potenzialmente feconda. Non ha più un centro, ma conserva la memoria del tragico, del conflitto, della pluralità. Potrebbe rappresentare una via alternativa tra fondamentalismi religiosi e totalitarismi tecnici, tra mercato assoluto e Stato assoluto. Ma per farlo dovrebbe ripensare radicalmente il proprio rapporto con il Reale, rinunciando all’illusione di una armonia preconfezionata.
Ciò significa riscoprire il limite come risorsa: la castrazione simbolica come condizione di libertà, non come perdita da negare. Significa, in termini politici, pensare la legge non come imposizione ma come campo di mediazione. E accettare che la verità non sia mai tutta, che il soggetto sia sempre decentrato, che nessun sistema possa redimere una volta per tutte la mancanza d’essere.
Conclusione
La modernità è il tempo della mancanza dell’Altro. Nietzsche lo ha anticipato, Lacan lo ha teorizzato, la geopolitica lo conferma. Il rischio è di sostituire l’Altro che manca con dei simulacri assoluti: Dio, mercato, algoritmo, Stato. La sfida è un’altra: abitare il Reale, senza dogmi, senza garanzie, senza padroni. Solo così il soggetto – e forse anche l’Europa – potrà tornare a desiderare.
Breve Bibliografia
- Nietzsche, F. (1882). La gaia scienza.
- Lacan, J. (1970). Radiophonie in Autres Écrits.
- Lacan, J. (1972). Il Seminario XX – Encore.
- Žižek, S. (2006). Viviamo in tempi interessanti.
- Han, B.-C. (2014). La società della trasparenza.
- Esposito, R. (2009). Pensiero vivente.