Con la morte di Papa Francesco si chiude un’epoca che ha lasciato un’impronta profonda nella storia della Chiesa e della soggettività contemporanea. Jorge Mario Bergoglio, il primo papa proveniente dall’America Latina, ha incarnato una discontinuità rispetto ai modelli precedenti: meno sovrano teologico e più testimone, meno maestro di dottrina e più uomo del Vangelo vissuto nella carne del mondo. La sua eredità è già materia di interpretazione, ma una chiave ci sembra particolarmente feconda: quella che Lacan offre con il termine scarità.
Non si tratta di un semplice calco della parola “carità”. Lacan, in un passaggio denso e paradossale del suo Seminario VII, afferma: “Io non do la carità. Io do la scarità.” Qui si parla non di un dare che colma, ma di un dare che sottrae, di un gesto che non risponde alla domanda dell’altro col soddisfacimento, ma lo rilancia verso il proprio desiderio. Il soggetto etico, per Lacan, non è chi consola, ma chi resta fedele al vuoto che abita l’umano. È colui che, come Antigone, si espone a ciò che non può essere rappresentato.
In questo senso, Papa Francesco non è stato il papa della carità nel senso classico e rassicurante del termine, ma qualcosa di più scandaloso e per certi versi più evangelico: il papa della scarità. La sua figura è stata segnata da una costante rinuncia a occupare il posto dell’Altro: ha decentrato il papato, lo ha desimbolizzato, ha disattivato l’aura monarchica che ancora resisteva nei palazzi vaticani. Non ha voluto regnare, ma abitare.
Nel suo stile pastorale, questo si è tradotto in gesti di prossimità, certo, ma soprattutto in un’assunzione della propria mancanza. Francesco ha mostrato che anche il papa può chiedere perdono, può sbagliare, può tacere. Di fronte agli scandali della Chiesa non ha reagito con la potenza dell'autorità, ma con la fragilità di chi accetta di non poter riparare tutto. Ha preso su di sé il peso di una Chiesa ferita, senza pretendere di guarirla del tutto. Ha scelto di restare nella ferita, facendola parlare.
Questa è la scarità: non un vuoto da colmare, ma un vuoto da custodire. È ciò che ha permesso a molti — anche ai non credenti — di rispecchiarsi nella sua figura. Non perché dicesse ciò che volevano sentirsi dire, ma perché, come il vero terapeuta o il vero educatore, sapeva come non saturare lo spazio. Ha dato voce a ciò che nella Chiesa e nel mondo restava inascoltato: i poveri, i migranti, i popoli periferici, i fedeli che vivono amori “irregolari”. Non ha dato loro una soluzione, ma una parola.
Il suo pontificato, sul piano politico, è stato segnato da un’opposizione radicale all’individualismo neoliberista. Ha denunciato senza mezzi termini “l’economia che uccide”, i “nuovi idoli del denaro”, la “globalizzazione dell’indifferenza”. Tuttavia, non ha offerto un sistema alternativo, né ha cercato di ricostruire un ordine forte. Anche qui, ha operato secondo la logica della scarità: ha tolto sicurezze, ha disturbato le coscienze, ha indicato un’etica dell’inquietudine. Il suo messaggio sociale non è stato un programma, ma un appello aperto.
Nel rapporto con la modernità, Francesco ha cercato un equilibrio difficile: ha accolto il pluralismo, ma non si è dissolto in esso; ha dialogato con la scienza, con le altre religioni, con la cultura secolare, ma ha mantenuto una posizione di differenza. Una differenza non arrogante, ma testimone: quella di chi non ha paura di mostrare il proprio limite.
Forse è proprio in questo che sta la sua santità: non nella perfezione, ma nella fedeltà a un vuoto. Non nella coerenza, ma nella tensione. Francesco non ha voluto incarnare il Padre, ma l’uomo che ne testimonia l’assenza operante. Come un segno, un simbolo che non chiude, ma apre. Come una soglia, fragile e luminosa.
Papa Francesco lascia dietro di sé una Chiesa ancora spaccata, attraversata da tensioni dottrinali e culturali profonde. Ma lascia anche una traccia: quella di un papa che ha osato non colmare, non coprire, non dominare. Un papa che ha mostrato, con la sua vita, che la scarità può essere più feconda della carità. E che l’amore, per essere davvero umano, deve passare per la mancanza.