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domenica 6 aprile 2025

Somatizzazioni nella clinica lacaniana: corpo, godimento e fallimento della simbolizzazione


La psicoanalisi ha introdotto un radicale cambiamento di prospettiva nel modo di intendere il corpo. Con Freud, il corpo diventa scena della rappresentazione dell’inconscio: i sintomi isterici, nella loro teatralità e nelle loro conversioni, mettono in luce la dimensione simbolica e desiderante del sintomo. Ma Freud non riduce la somatizzazione alla conversione: già negli scritti sulle nevrosi attuali, egli distingue una serie di manifestazioni corporee che non si prestano all’interpretazione simbolica, ma che sembrano connesse direttamente con un eccesso di eccitazione. In queste patologie, non vi è rappresentazione, ma un corpo colpito da un’energia non elaborabile psichicamente: una sorta di “scarica” senza senso.

Lacan, riprendendo e radicalizzando questa distinzione, propone una svolta. Per Lacan, il corpo non è naturale, non è dato biologicamente, ma si costituisce attraverso il rapporto con il linguaggio. È un corpo parlante, corps parlant, affetto dal significante. La lalangue – termine che designa il corpo originario del linguaggio materno, prima della strutturazione simbolica – imprime sul corpo delle tracce di godimento, delle marche che non sono ancora significanti, ma che operano come residui del reale.

Il corpo, dunque, nella clinica lacaniana, non è l’organismo, ma ciò che resta del passaggio del linguaggio sull’organismo. Il godimento (jouissance) è l’effetto di questa operazione: eccedenza, sovraccarico, residuo che non si lascia del tutto simbolizzare. Il soggetto è effetto del significante, ma il corpo conserva una zona opaca che sfugge alla rappresentazione. Le somatizzazioni, in questo quadro, non sono semplicemente “messaggi del corpo”, come a volte suggerisce una certa vulgata psicodinamica, ma effetti di un godimento non simbolizzato, non mediato, che prende corpo.


Conversione, scarica, invasione: tre figure cliniche

Nel tentativo di precisare il posto delle somatizzazioni, è utile distinguere tre modalità del rapporto tra corpo e godimento:

1. Conversione isterica: è il paradigma freudiano. Il sintomo ha forma di linguaggio, mette in scena una domanda, un desiderio, un conflitto. Il corpo è usato come testo, come enigma, come messaggio all’Altro. È una forma ancora simbolica, anche se deformata. L’isterica mette in atto un sapere sul corpo dell’Altro, e il suo sintomo ha una struttura che può essere interpretata, anche se non decifrata del tutto.

2. Scarica nelle nevrosi attuali (nevrosi d’angoscia, nevrastenia): si tratta di manifestazioni corporee non interpretabili, che Freud distingue dalla conversione. Qui il sintomo non è più il risultato di una rappresentazione inconscia, ma l’effetto diretto di una tensione interna, di un eccesso di libido non legata. In chiave lacaniana, si può leggere come effetto del reale del godimento che non si è potuto legare alla catena significante.

3. Invasione del godimento nella psicosi: in assenza del Nome-del-Padre, la funzione del significante che ordina e limita il godimento viene a mancare. Il corpo può allora essere invaso da fenomeni somatici elementari: dolori insensati, mutazioni corporee, vissuti di estraneità. Il corpo diventa allora luogo dell’irruzione del reale, senza mediazione simbolica. È il godimento puro che si manifesta attraverso il corpo.




Somatizzazione e fallimento della metafora

Il punto centrale che Lacan ci consegna è che la somatizzazione non è solo una conversione simbolica, ma può essere anche fallimento della metafora. Là dove il significante non riesce a produrre una rappresentazione, si ha una metafora fallita che lascia un buco. In quel buco si annida il godimento, che si incarna nel corpo.

Nel Seminario XX, Lacan afferma che il godimento non è localizzabile nella parola, ma nel corpo. Il corpo è la sede del reale, ma solo a partire dalla sua presa nel linguaggio. In assenza di questa presa – o nella sua rottura – il godimento si manifesta nel corpo come perturbazione, come eccesso.

Il soggetto può allora ritrovarsi con un corpo che fa male, un corpo che non funziona, un corpo che si ammala, senza che ciò abbia un senso. Ma non si tratta semplicemente di un corpo “che parla” nel senso metaforico del termine: si tratta piuttosto di un corpo colpito da una lettera muta, una marca di godimento che non è transitata nella catena significante.


Dalla somatizzazione al sinthomo

In questa prospettiva, la funzione del trattamento analitico non è quella di eliminare la somatizzazione, ma di permettere al soggetto di riconfigurare il suo rapporto con il godimento, di inventare un modo singolare di legare il reale al simbolico. È questo che Lacan chiama sinthomo: un nodo, una modalità propria di ogni soggetto per tenere insieme il corpo, il godimento e il legame con l’Altro.

Nel Seminario XXIII, dedicato a Joyce, Lacan mostra come lo scrittore abbia inventato il proprio sinthomo – la scrittura – come modo di tenere insieme un corpo altrimenti disgregato. Il sinthomo non è da interpretare, non ha senso da decifrare: è ciò che consente la tenuta del soggetto.

Nel lavoro analitico, dunque, si tratta meno di interpretare il senso della somatizzazione, e più di sostenere la possibilità di un legame nuovo, reale, tra il soggetto e il proprio corpo, tra il godimento e il simbolico.

In questo senso, alcune somatizzazioni possono trasformarsi: da effetti di intrusione del reale a formazioni di compromesso stabili, se sostenute da un lavoro di soggettivazione e da una nuova posizione etica rispetto al godimento.


Conclusione

La clinica lacaniana delle somatizzazioni ci invita a non ricondurre il sintomo corporeo alla sola dimensione del senso. Ci sono sintomi che parlano, ma anche sintomi che gridano, che segnano il reale di un godimento senza parola. Il compito dell’analisi non è eliminare il sintomo, ma aiutare il soggetto a farne qualcosa: non curare, ma annodare.



Bibliografia essenziale

Freud, S. (1895). Progetto di una psicologia per neurologi. Opere, Vol. II, Boringhieri.

Freud, S. (1896). Le neuropsicosi da difesa. Opere, Vol. II, Boringhieri.

Freud, S. (1926). Inibizione, sintomo e angoscia. Opere, Vol. X, Boringhieri.

Lacan, J. (1975). Il Seminario, Libro XX: Ancora (Encore), a cura di J.-A. Miller, Einaudi.

Lacan, J. (1976). Il Seminario, Libro XXIII: Il sinthomo, a cura di J.-A. Miller, Einaudi.

Lacan, J. (1974). La terza, in La Psicoanalisi, n. 3, Borla.

Miller, J.-A. (2003). La clinica del reale, in La psicoanalisi, n. 36, Borla.

Soler, C. (2009). Il corpo in psicoanalisi, Astrolabio.

Maleval, J.-C. (2000). Logica del delirio, FrancoAngeli.






sabato 15 marzo 2025

Il sintomo e i suoi falsi nomi: dalla nominazione alla soggettivazione


Se il sintomo è ciò che nel soggetto resiste all’ordine simbolico dato—qualcosa che non si lascia del tutto assimilare dalle coordinate del discorso—i suoi falsi nomi sono quei tentativi di addomesticarlo, di ridurlo a un significato già pronto. Il sintomo è una scrittura opaca, che il soggetto porta nel corpo e nel linguaggio; i suoi falsi nomi sono i modi in cui il discorso dominante cerca di tradurlo in qualcosa di leggibile, spesso sottraendogli la sua funzione soggettiva.

Ma perché il sintomo viene sempre nominato in modo falso? Perché non si può dargli un nome una volta per tutte? Il punto è che il sintomo non è semplicemente un disturbo, un deficit o un errore: è un modo con cui il soggetto si tiene nel mondo, un modo di fare legame con l’Altro. La questione non è eliminarlo, ma riconoscere in esso una logica, un possibile uso.


1. Il falso nome come riduzione clinica: dal DSM alla neutralizzazione del soggetto

Nella clinica psichiatrica standard, il sintomo è nominato attraverso categorie diagnostiche: depressione, disturbo ossessivo-compulsivo, ADHD, autismo, schizofrenia… Questi nomi non sono falsi nel senso che siano completamente sbagliati, ma lo diventano quando funzionano come etichette che inchiodano il soggetto, senza lasciare spazio alla sua singolarità.

Ad esempio, se un bambino con difficoltà di apprendimento viene nominato “dislessico”, questa nominazione può aprire a strumenti di supporto, ma può anche chiudere un’altra possibilità: quella di interrogare cosa significa per lui quel blocco nel leggere e nello scrivere. È un problema cognitivo o una forma di rifiuto dell’Altro che gli impone il linguaggio? È un deficit o una modalità sintomatica di resistenza?

Il rischio di questa nominazione clinica è che il sintomo venga trattato come un malfunzionamento da correggere, anziché come un elemento con un senso da decifrare.


2. Il falso nome pedagogico: l’adattamento forzato

Nel campo educativo, il sintomo viene spesso rinominato in funzione dell’integrazione sociale: comportamento problematico, iperattività, difficoltà relazionali, bisogno educativo speciale… Questi nomi sono strumenti operativi, ma possono diventare falsi nomi quando mirano solo ad adattare il soggetto alle regole dell’istituzione, ignorando la sua struttura soggettiva.

Un ragazzo che si isola e rifiuta il contatto può essere classificato come “timido” o “con difficoltà sociali”, ma questo non dice nulla sul perché di questo isolamento. È una difesa contro un’angoscia insostenibile? È una forma di protesta contro un ambiente che non lo riconosce?

Nel lavoro con la disabilità, questo tema è ancora più centrale: nominare un comportamento come “non conforme” può portare a forzare l’adattamento, senza considerare il valore del sintomo per il soggetto stesso.


3. Il falso nome politico: la cattura del sintomo nei discorsi sociali

C’è poi un’altra modalità di falsificazione: quella che trasforma il sintomo in un effetto dell’ordine sociale, senza più riconoscere la parte attiva del soggetto nella sua formazione.

Oggi molte sofferenze vengono lette attraverso griglie sociopolitiche:

La depressione diventa “malattia della società della performance”

L’ansia giovanile diventa “effetto della precarietà”

Il disagio psicologico diventa “trauma dovuto alla violenza strutturale”

Anche qui, non si tratta di negare che ci siano fattori sociali reali. Il problema è quando il sintomo viene letto solo come qualcosa di imposto dall’Altro (la società, il capitalismo, il patriarcato, la scuola, la famiglia…), togliendo al soggetto la possibilità di riconoscere la propria posizione in ciò che gli accade. Se il sintomo è solo un effetto, allora il soggetto diventa una pura vittima, senza nessun margine di lavoro su di sé.

Nel lavoro con gli immigrati, per esempio, il discorso vittimario può essere un falso nome che li incastra in un ruolo passivo, mentre la questione soggettiva del loro sintomo resta in ombra. Un giovane immigrato musulmano che rifiuta la scuola può certo avere difficoltà legate al razzismo o alla discriminazione, ma il suo rifiuto può anche avere una dimensione più interna, legata al modo in cui vive il rapporto con l’autorità, con il sapere, con la trasmissione culturale.


4. Il falso nome dell’autogiustificazione

Infine, il soggetto stesso può darsi dei falsi nomi per evitare di confrontarsi con il proprio sintomo.

“Sono fatto così” → Nome che chiude, senza lasciare spazio alla trasformazione

“È il mio carattere” → Nome che lo naturalizza, come se fosse immutabile

“È colpa dei miei genitori” → Nome che lo colloca interamente nell’Altro

Queste nominazioni funzionano come difese: proteggono il soggetto dall’angoscia di interrogarsi su cosa fare del proprio sintomo.

Verso un nome proprio del sintomo

Se il sintomo ha tanti falsi nomi, esiste un vero nome?

Lacan direbbe che non esiste un nome definitivo, ma esiste la possibilità di costruire un uso del sintomo. Il punto non è eliminarlo, né semplicemente capirlo, ma trovare un modo per fargli posto senza esserne schiacciati.

In educazione e nel sociale, questo significa:

Dare spazio alla parola del soggetto, senza imporgli subito una lettura esterna

Considerare la funzione del sintomo, invece di vederlo solo come un errore da correggere

Permettere che il soggetto trovi un suo modo di nominarsi, senza incasellarlo in categorie chiuse




🔍L'Analisi in Lacan

Fare un’ analisi secondo Jacques Lacan non è semplicemente parlare dei propri problemi. È un’esperienza trasformativa, in cui il soggetto ...