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lunedì 1 settembre 2025

Come finisce una terapia?

 La fine di una terapia psicoanalitica, in chiave lacaniana, non è mai identica per tutti e non coincide con il semplice “stare meglio” o “aver risolto i sintomi”.

Riassumo i punti essenziali:

1. Non è una guarigione totale

La psicoanalisi non promette la cancellazione definitiva del sintomo o la conquista di una vita “senza conflitti”. Piuttosto, il lavoro porta il soggetto a trasformare il proprio rapporto con il sintomo, a decifrarne il senso inconscio e a ridurre il peso della ripetizione.


2. La caduta del soggetto supposto sapere

Il motore dell’analisi è il transfert, cioè l’attribuzione all’analista di un sapere sul proprio enigma. La fine dell’analisi coincide con la caduta di questa supposizione: il paziente non attribuisce più all’analista il sapere sulla sua verità, ma riconosce di essere lui stesso l’autore — e al tempo stesso l’effetto — del proprio discorso inconscio.


3. L’incontro con il reale

Lacan sottolinea che un’analisi porta fino a un punto d’incontro con il reale: ciò che non può essere simbolizzato o pienamente detto. Il soggetto impara ad assumere il proprio modo singolare di rapportarsi a questo reale, piuttosto che subirlo passivamente.


4. L’elaborazione del sintomo

Alla fine di un percorso, il sintomo non sparisce necessariamente, ma si rimodella: smette di essere un ostacolo incomprensibile e può diventare una risorsa, un modo inventivo di vivere. È ciò che Lacan chiama il “sinthomo”: una modalità propria, non più patologica, di tenere insieme il proprio desiderio e la propria vita.


5. Il sapere sul proprio inconscio

Il paziente non dipende più dall’analista per leggere i propri sogni, lapsus, ripetizioni. Acquisisce una familiarità con il funzionamento del proprio inconscio e può continuare a vivere senza restare intrappolato nello stesso circuito di sofferenza.


6. Un’uscita singolare

Ogni fine è diversa:

per alcuni coincide con la possibilità di fare scelte nuove che prima sembravano impossibili;

per altri con la capacità di accettare un limite che non poteva essere simbolizzato;

per altri ancora con l’invenzione di un proprio modo di tenere insieme desiderio, godimento e legame sociale.


👉 In breve: una terapia psicoanalitica finisce quando il soggetto non ha più bisogno dell’analista come garante del suo sapere, quando ha trasformato il proprio rapporto con il sintomo e ha trovato un modo singolare di abitare il proprio desiderio. Non è una conclusione “standard”, ma un atto unico, che appartiene a ciascun percorso.



Come inizia una terapia?


Molti si chiedono: cosa succede davvero quando si inizia una terapia psicoanalitica? Non c’è un protocollo fisso, ma un percorso che prende forma a partire da ciò che porta il soggetto. L’analisi non si riduce a “togliere i sintomi”, ma apre uno spazio in cui la parola può trasformare il rapporto con il desiderio e con l’inconscio.


La domanda e il sintomo

Chi si rivolge a un analista di solito arriva con un sintomo: ansia, attacchi di panico, difficoltà relazionali. Ma la domanda nascosta dietro il sintomo non è sempre chiara.

👉 Esempio: una giovane donna chiede di liberarsi dalle crisi d’ansia. Durante i primi colloqui emerge che le crisi compaiono ogni volta che deve scegliere: tra partner, lavoro, città. L’ansia non è solo un fastidio, ma segnala qualcosa del suo rapporto col desiderio: la paura di decidere.

In questo senso, il sintomo non è mai solo un “errore da correggere”, ma una traccia che rimanda a un nodo inconscio.


I colloqui preliminari

La terapia inizia con alcuni colloqui preliminari. Qui il paziente racconta liberamente, e l’analista ascolta senza giudicare né riempire gli spazi vuoti.

👉 Esempio: un uomo racconta di non riuscire a smettere di bere la sera. Non parla subito della sua storia, ma di quanto si senta “fuori posto” al lavoro. Il bere emerge come risposta a un disagio più ampio, che non aveva ancora potuto dire a nessuno.

Questa fase serve a capire se il soggetto può implicarsi nel proprio sintomo: se è disposto a interrogarsi piuttosto che chiedere solo un sollievo immediato.


Il posto dell’analista

L’analista non è un consigliere che dà ricette. Occupa la posizione di chi lascia emergere il discorso del paziente, senza sostituirsi a lui.

👉 Esempio: una madre chiede: “Mi dica cosa devo fare con mio figlio che non studia”. Un terapeuta direttivo proporrebbe strategie educative. L’analista, invece, potrebbe restituirle la frase: “Cosa significa per lei che suo figlio non studi?”. La domanda si sposta: non si tratta più solo del figlio, ma di ciò che quella situazione tocca in lei.


Il transfert

Il lavoro analitico inizia davvero quando si instaura il transfert: il paziente attribuisce all’analista un sapere sul proprio sintomo. Questo non è semplice “fidarsi”, ma un movimento inconscio che mette in moto il desiderio di parlare.

👉 Esempio: una ragazza inizia dicendo: “Non so perché, ma credo che con lei riuscirò a capirmi meglio”. Non è l’analista a promettere la guarigione, ma lei a supporre che lì ci sia un sapere nascosto. Questo spostamento rende possibile l’analisi.

L’analista non deve mai confermare di possedere quel sapere, ma restituirlo al soggetto stesso, accompagnandolo a scoprirlo nella propria parola.


Il sintomo come enigma

In psicoanalisi non si elimina il sintomo come si toglie un dente. Si cerca di interrogarlo: che ruolo ha nella vita del soggetto? quale legame mantiene?

👉 Esempio: un uomo soffre d’insonnia. Potrebbe chiedere solo una “cura per dormire”. Ma in analisi scopre che le notti insonni sono il momento in cui non deve rispondere a nessuno: né al capo, né alla famiglia. L’insonnia diventa un modo paradossale per affermare uno spazio proprio. Comprenderlo gli permette di trasformare il rapporto con quel sintomo.


Un inizio sempre singolare

Ogni analisi inizia in modo unico. Non ci sono formule standard. Quello che si ripete è la logica: ascoltare la domanda, favorire l’emergere del transfert, interrogare il sintomo come enigma.

Si può dire che l’analisi comincia davvero quando il paziente riconosce che ciò che lo fa soffrire lo riguarda da vicino, e che vale la pena esplorare il legame tra il sintomo e la propria storia.

In conclusione: l’inizio di una terapia psicoanalitica è un incontro: da una parte il soggetto che porta il suo sintomo, dall’altra l’analista che offre un ascolto particolare, capace di far emergere un desiderio. È lì che il percorso si apre, sempre in modo singolare.


domenica 31 agosto 2025

Il desiderio dell’analista e quello del paziente: la chiave del processo analitico

In psicoanalisi lacaniana, il concetto di desiderio è centrale. Ma cosa succede quando parliamo del desiderio dell’analista e di quello del paziente? A prima vista potrebbe sembrare che il processo analitico sia guidato dalle aspettative dell’analista, ma in realtà la loro funzione è molto diversa e delicata.

1. Il desiderio dell’analista

L’analista non agisce secondo i propri desideri personali. La sua funzione è di creare uno spazio in cui il soggetto possa esplorare e articolare il proprio desiderio. Lacan descrive il desiderio dell’analista come una “mancanza”, un vuoto che permette al paziente di emergere.

Questa posizione implica neutralità e distanza: l’analista non deve influenzare le scelte del paziente, né sostituirsi a lui. Il desiderio dell’analista è un desiderio di ascolto, di apertura allo sviluppo del soggetto, non di direzionamento o correzione.

Esempio: un paziente dice: “Non so cosa voglio veramente dalla mia vita”. L’analista non risponde “Dovresti fare questo o quello”, ma può porre domande o commenti neutri, ad esempio: “Chi parla quando dici ‘non so’?” Questo aiuta il paziente a riconoscere il proprio desiderio, senza interferenze esterne.


2. Il desiderio del paziente

Il desiderio del paziente è spesso inconsapevole, nascosto dietro ripetizioni, sintomi o conflitti. È ciò che emerge nei lapsus, nei sogni, nelle associazioni libere e nel trasferimento.

Il ruolo dell’analista è facilitare la presa di parola del soggetto sul proprio desiderio, senza sostituirsi ad esso. Questo richiede una presenza attenta, ma discreta, in grado di mantenere lo spazio analitico aperto.

Esempio: un paziente che ripete sempre relazioni conflittuali potrebbe non rendersi conto di cercare inconsciamente figure autoritarie. L’analista, osservando il trasfert, può aiutare il soggetto a riconoscere questo schema e a scegliere consapevolmente comportamenti diversi.


3. La relazione tra i due desideri

La chiave della tecnica lacaniana sta nella relazione tra il desiderio dell’analista e quello del paziente. L’analista non guida il desiderio, ma lo sostiene e lo rende visibile. Funziona come uno specchio o un vuoto in cui il soggetto può confrontarsi con ciò che vuole realmente.

Se l’analista interferisce con il proprio desiderio (“Io voglio che tu faccia così”), l’analisi perde la sua funzione: diventa consiglio o persuasione, e il paziente non ha più la possibilità di scoprire e articolare il proprio desiderio autentico.


4. Effetti pratici

Quando il desiderio dell’analista resta neutro e funzionale, il paziente può:

  • Interrompere schemi ripetitivi e comportamenti incongruenti con il proprio desiderio
  • Prendere decisioni autonome, pur con residui di conflitto
  • Sviluppare una maggiore consapevolezza di sé e delle proprie scelte

Esempio: un paziente che inizialmente delegava tutte le decisioni importanti inizia a riconoscere ciò che vuole veramente e agisce coerentemente, pur mantenendo alcuni conflitti gestibili. Il ruolo dell’analista è stato solo quello di creare lo spazio in cui il desiderio potesse emergere, non di imporre una soluzione.


Conclusione

In sintesi, il desiderio dell’analista non è mai direttivo, ma condizione perché emerga il desiderio del paziente. È un vuoto attivo, una presenza discreta che permette al soggetto di confrontarsi con se stesso e costruire una soggettività autonoma. Questo equilibrio sottile tra ascolto e distanza è ciò che rende il processo analitico lacaniano efficace e unico.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J., Écrits (1966)
  • Lacan, J., Il seminario, Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964)
  • Miller J.-A. Miller, Introduzione alla clinica lacaniana 
  • Fink, B., The Lacanian Subject (1995)




martedì 29 luglio 2025

🔄Il Transfert: desiderio, sapere e incontro analitico


Cos’è il transfert?

Il transfert è quel fenomeno per cui una persona sposta inconsciamente emozioni e desideri del passato su un’altra figura nel presente, come l’analista. Ma per Jacques Lacan, il transfert non è solo un errore di attribuzione affettiva: è un motore strutturale della cura, strettamente legato al desiderio e al sapere.


Da Freud a Lacan

Freud lo scopre osservando che i pazienti si attaccano affettivamente all’analista, ripetendo dinamiche infantili.

Lacan lo ripensa: il transfert non è un ostacolo, ma il cuore della situazione analitica, il luogo dove si gioca la domanda inconscia.


Il transfert è una domanda d’amore

Per Lacan, ogni transfert è una domanda rivolta all’Altro:

> “Chi sono per te? Mi ami? Sono desiderabile?”

È la scena in cui il soggetto spera di decifrare il proprio enigma attraverso la relazione con l’analista.


Il soggetto supposto sapere

In analisi, attribuiamo all’analista il ruolo di chi sa qualcosa di noi che noi ignoriamo.

Questo è il soggetto supposto sapere (S.s.S.):

L’analista non è “una persona saggia”, ma occupa una posizione simbolica, da cui il soggetto spera emerga un sapere sul proprio desiderio.


Esempio clinico

Una ragazza entra in analisi per difficoltà affettive. Dopo qualche mese:

sogna l’analista come un padre affettuoso

oppure lo accusa di essere distante, “freddo” come il padre vero

Qui, il transfert riattiva il passato nel presente. Non riguarda l’analista in sé, ma l’uso simbolico che il soggetto fa di lui per mettere in scena il proprio desiderio.


Ripetizione o apertura?

Il transfert ripete qualcosa (come Freud diceva),

ma Lacan aggiunge: può anche aprirsi a una verità nuova, se l’analista:

non risponde come oggetto d’amore

non colma il vuoto del sapere

sostiene la mancanza, per far emergere il desiderio autentico del soggetto.


La posizione etica dell’analista

Per Lacan, l’analista non deve farsi amare, né farsi “sapiente”,

ma sostenere il transfert fino al suo punto di caduta:


> Dove il soggetto non cerca più il sapere nell’Altro, ma scopre il proprio desiderio.


Conclusione

Il transfert in Lacan è un ponte tra il desiderio inconscio e la parola.

È il luogo in cui qualcosa del soggetto può emergere nella relazione, ma solo se l’analista non lo blocca col suo sapere, né col suo amore.

È un gioco di specchi dove, se non si cade nella trappola, si può scorgere un’immagine nuova di sé.


Spunto finale

Come si manifesta il transfert nei rapporti educativi, scolastici o sociali? In che modo l’adulto viene investito del “sapere sul mio destino”? 



mercoledì 21 maggio 2025

L'odio nel transfert e nel controtransfert: una lettura lacaniana, con un confronto con Klein e Winnicott


L’odio, come dimensione soggettiva e relazionale, ha una presenza centrale nella clinica psicoanalitica, soprattutto quando si manifesta nel transfert e nel controtransfert. Nella prospettiva lacaniana, questa affettività primaria assume una valenza strutturale e non meramente accidentale, come invece potrebbe apparire in approcci più adattivi o evolutivi. Non si tratta semplicemente di un ostacolo alla cura, bensì di un momento rivelatore della struttura del soggetto e del suo rapporto con l’Altro.


L'odio nel transfert

Jacques Lacan ha affrontato la questione dell'odio all'interno della relazione transferale, in particolare nella lezione del 20 aprile 1960 del Seminario L’etica della psicoanalisi, dove, rifacendosi ad Aristotele, pone l’odio (misos) come l’affetto che mira all’essere dell’altro, mentre l’amore ne mira il bene. L’odio, in quanto tale, non è secondario rispetto all’amore: è della stessa stoffa. Nella relazione analitica, il soggetto può manifestare un odio tenace e violento verso l’analista, che non va inteso in senso personale ma come effetto del posto simbolico che l’analista occupa, quello di causa del desiderio e luogo dell’Altro.

L’analista, infatti, in quanto sostituto del soggetto supposto sapere (sujet supposé savoir), è chiamato a sostenere proiezioni e investimenti che mettono in gioco nuclei profondi della pulsione, del fantasma e della storia soggettiva. L’odio può emergere quando l’analista tocca o smaschera il godimento inconscio legato alla sofferenza, o quando il soggetto percepisce un’opacità nel suo desiderio. È spesso nel momento in cui l’analista si sottrae, non soddisfa la domanda d’amore, che il soggetto risponde con aggressività e odio.


Il desiderio dell’analista e la posizione etica

Nel Seminario XI (I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi), Lacan insiste sul concetto di "desiderio dell’analista" come ciò che orienta la cura. Questo desiderio non è desiderio personale, ma desiderio puro, spogliato, che non mira a soddisfare, né a rassicurare. È un desiderio che accetta l’odio del paziente, che lo attraversa, che ne sostiene l’elaborazione. L’analista è chiamato a sostenere la posizione di oggetto a, oggetto causa del desiderio, e quindi a tollerare di essere ridotto a cosa, a oggetto di odio, a rifiuto, senza retrocedere.

Il desiderio dell’analista implica una funzione di “buca” nel sapere: si tratta di non voler sapere tutto, di non pretendere di colmare l’Altro, ma di sostenere il vuoto strutturale che abita il soggetto. È proprio questa posizione che permette al transfert di evolvere e di aprirsi al movimento interpretativo e all’atto analitico. Come scrive Lacan nel Seminario XI, “Il desiderio dell'analista non è puro desiderio di guarire. È desiderio che ha incontrato la sua propria castrazione”.


Controtransfert e limite della reattività dell’analista

L’odio non appartiene solo al paziente. Come sottolinea Lacan nel Seminario VIII (Il transfert), l’analista non è immune dalle passioni. Tuttavia, per Lacan, è proprio l’analista che deve lavorare perché le sue passioni non interferiscano. Il concetto di controtransfert, sviluppato in area post-freudiana (es. Heimann, Racker), è ridimensionato da Lacan: l’analista deve rendere la propria posizione quanto più impersonale possibile, non perché si annulla, ma perché la sua soggettività deve diventare funzione.

L’odio dell’analista, quindi, può emergere nella pratica, soprattutto in ambito istituzionale dove i fenomeni di transfert negativo sono amplificati da dinamiche di gruppo, gerarchia e potere. In questi casi, mantenere il desiderio come causa e non come risposta reattiva è ancora più difficile. Il rischio è quello del godimento dell’analista, che si difende attraverso l’identificazione con un sapere o con un ruolo, invece di lasciarsi lavorare dal transfert.


Esempi dalla pratica istituzionale

In contesti educativi o terapeutici con soggetti psicotici o con disabilità, si osserva spesso un transfert negativo massiccio: rifiuto dell’educatore o dell’operatore, insulti, disorganizzazione comportamentale. Un esempio è il caso di un giovane con psicosi che durante il gruppo occupazionale, ad ogni proposta dell’operatore, risponde con l’insulto più feroce e minaccioso. L’operatore, se non è sostenuto da una supervisione e da un’elaborazione simbolica della sua funzione, rischia di rispondere in modo simmetrico: disprezzo, ironia, punizione. È qui che si gioca la possibilità di una funzione analitica o almeno simbolizzante: accettare di essere oggetto dell’odio, e non volerlo colmare con l’amore o con la pedagogia del bene.


Confronto con Melanie Klein e Donald Winnicott

Melanie Klein ha tematizzato a fondo l’aggressività primaria e l’odio nell’ambito della relazione oggettuale. Nella posizione schizo-paranoide, il bambino vive l’oggetto come persecutore, e riversa su di esso odio e distruttività. Solo attraverso l’elaborazione della posizione depressiva è possibile riconoscere l’oggetto buono e cattivo come unificato, e quindi riparare. Da questo punto di vista, l’odio nel transfert è un ritorno di quelle angosce originarie, che l’analista deve contenere e trasformare.

Winnicott, invece, si concentra sul concetto di odio dell’analista, con grande onestà clinica. Nel saggio L’odio nella contropartita terapeutica (1949), afferma che l’analista deve riconoscere e tollerare il proprio odio, soprattutto nel lavoro con pazienti gravi. L’odio che l’analista prova non è necessariamente patologico, ma espressione della realtà della situazione e della frustrazione. La differenza, per Winnicott, sta nel fatto che l’analista non agisce il suo odio, ma lo riconosce, lo sopporta e lo utilizza.

Rispetto a Lacan, sia Klein che Winnicott tendono a concepire l’odio come una fase, un contenuto da trasformare o contenere. Lacan, invece, pone l’odio come strutturale, come parte del desiderio stesso: “l’amore è sempre ricambiato dall’odio”, diceva, indicando che non si dà soggettivazione senza attraversamento del negativo.


Conclusione

Affrontare l’odio nel transfert e nel controtransfert è un passaggio necessario in ogni lavoro clinico e istituzionale che voglia avere un effetto di soggettivazione. Nella prospettiva lacaniana, l’odio non va risolto né rimosso, ma attraversato e letto come segno del reale in gioco. Il desiderio dell’analista, sostenuto dalla propria castrazione e non dal sapere, è ciò che consente di non rispondere alla provocazione, ma di mantenerne aperto il senso.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1959-60). Seminario VII. L’etica della psicoanalisi. Torino: Einaudi, 2008.
  • Lacan, J. (1964). Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi, 2003.
  • Lacan, J. (1960-61). Seminario VIII. Il transfert. Torino: Einaudi, 2021.
  • Klein, M. (1946). Note su alcuni meccanismi schizoidi, in Scritti 1921-1958. Firenze: Martinelli.
  • Klein, M. (1940). Invidia e gratitudine, in Scritti 1921-1958. Firenze: Martinelli.
  • Winnicott, D.W. (1949). L’odio nella contropartita terapeutica, in Sviluppo affettivo e ambiente. Roma: Armando, 1975.
  • Roussillon, R. (1991). Il transfert negativo. Roma: Borla.
  • Mannoni, M. (1969). L’enfant arriéré et la psychanalyse. Paris: Seuil.
  • Recalcati, M. (2010). Il transfert. Milano: Cortina.


domenica 20 aprile 2025

L’entrata in analisi in Freud e Lacan: dalla soglia del transfert al reale del sinthomo


Una soglia clinica: quando comincia davvero un’analisi

In psicoanalisi, non ogni trattamento è un’analisi. Freud lo accennava già nei suoi consigli al medico: l’analisi inizia quando il paziente accetta di seguire la “regola fondamentale”, ma ancor più quando entra in gioco il transfert. Lacan estremizza questa visione: l’analisi inizia solo quando si struttura il transfert come supposta di un sapere inconscio. L’ingresso in analisi è dunque un atto soggettivo, un “passaggio soggettivo” più che una fase cronologica. È quando il soggetto sposta il suo rapporto con il sintomo, non più come qualcosa da sopprimere, ma da interrogare, che si apre lo spazio dell’analisi.

Come sottolinea Colette Soler, “non si entra in analisi perché si soffre, ma perché si pone la domanda di sapere da dove viene ciò che ci fa soffrire” (Soler, 2004, L’entrée dans l’analyse). L’analisi inizia con l’atto di voler sapere sul proprio desiderio, non con la domanda di guarire.


Freud: transfert come condizione e come materiale clinico

Freud individua nel transfert il motore e il rischio della cura. È il campo in cui riemergono le rappresentazioni inconsce: il paziente rivive con l’analista ciò che ha vissuto con le figure d’amore originarie. Ma è proprio grazie a questa ripetizione che si può lavorare sull’inconscio (Freud, 1912, “La dinamica del transfert”). L’analisi comincia quindi nel momento in cui il transfert diventa utilizzabile come materiale clinico, e non resta solo come ostacolo.

Jean Laplanche insisterà, da parte sua, sul transfert come effetto di un messaggio enigmatico dell’Altro: ciò che nell’analista si presenta come resto enigma attiva il desiderio del soggetto di sapere (Laplanche, 1992, Nuovi fondamenti per la psicoanalisi). Anche per lui, l’entrata in analisi si gioca sull’incontro con un’alterità che smuove.


Il primo Lacan: parola piena, soggetto supposto sapere, funzione del desiderio

Nel primo insegnamento di Lacan, l’analisi è un discorso particolare: un luogo dove il soggetto parla non per essere compreso, ma per sorprendersi di ciò che dice. L’inconscio è strutturato come un linguaggio, e il sintomo è una catena significante da decifrare (Lacan, Scritti, “La cosa freudiana”). Il transfert si struttura come supposta di un sapere che non è dell’analista, ma del soggetto stesso: sapere inconscio.

Nel Seminario XI, Lacan afferma che “è la supposizione di un sapere che definisce il transfert” (Lacan, 1964). Questo passaggio segna l’entrata in analisi: il paziente non chiede solo sollievo, ma attribuisce all’analista la capacità di decifrare ciò che in lui stesso è più enigmatico. La posizione dell’analista si definisce allora come oggetto a, funzione che sostiene il desiderio del soggetto, senza rispondervi.

Jacques-Alain Miller, curatore dei Seminari di Lacan, ha insistito molto su questo punto: l’entrata in analisi è “una soggettivazione del transfert”, in cui il soggetto comincia a trattare il proprio sintomo come un prodotto del desiderio, non come un disturbo dell’Io (Miller, 1998, Introduzione al Seminario XI).


L’ultimo Lacan: sinthomo, reale, sapere-fare-con

Nella seconda parte del suo insegnamento, Lacan mette in discussione l’idea di inconscio interpretabile. A partire dal Seminario XX (“Encore”) e ancor più nel Seminario XXIII (“Il sinthomo”), l’inconscio viene pensato come reale, opaco, non decifrabile. Il sinthomo non è un messaggio da svelare, ma una formazione stabile che tiene insieme il soggetto e il suo godimento. L’analisi non mira più alla verità, ma a un sapere-fare con il proprio sinthomo.

L’entrata in analisi, in questa nuova clinica, è il momento in cui il soggetto comincia ad assumere il proprio sintomo non come segnale da rimuovere, ma come cifra del proprio modo di godere. Questo passaggio è clinicamente molto sottile, come afferma anche Éric Laurent: “Non si entra in analisi perché si parla; si entra quando qualcosa si scrive nel corpo del soggetto” (Laurent, 2008, La clinica del sinthomo).


La funzione dell’analista: da supporto del sapere a punto di reale

Parallelamente, la posizione dell’analista cambia. Se inizialmente l’analista è colui che viene supposto sapere, nella clinica del reale diventa sempre più ciò che buca il sapere. L’analista è non-sapente, non per ignoranza ma per permettere l’emergere dell’inconscio come creazione singolare. Come sottolinea Miller, l’analista deve essere “sempre meno identificato, e sempre più causa” (Miller, 2004, Un effort de poésie). L’entrata in analisi avviene quando il soggetto si confronta non con un sapere già dato, ma con un sapere da costruire nel proprio dire.


Conclusione: clinica dell’entrata come evento soggettivo del desiderio

L’entrata in analisi è, in definitiva, un evento clinico che segna il momento in cui il soggetto accetta di confrontarsi con la verità del proprio desiderio, prima, e con la particolarità del proprio godimento, poi. Dai fondamenti freudiani al sinthomo lacaniano, l’analisi non è mai un processo lineare, ma una soglia da attraversare più volte. L’analista, in quanto oggetto causa e funzione di mancanza, non accompagna verso una soluzione adattiva, ma verso la possibilità di un’esistenza meno alienata.


Bibliografia

  • Freud, S. (1904). Il metodo della psicoanalisi. OSF, vol. IV.
  • Freud, S. (1912). La dinamica del transfert. OSF, vol. VII.
  • Lacan, J. (1957). La cosa freudiana, in Scritti.
  • Lacan, J. (1964). Il Seminario XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi.
  • Lacan, J. (1972-73). Il Seminario XX: Encore.
  • Lacan, J. (1975-76). Il Seminario XXIII: Il sinthomo.
  • Laplanche, J. (1992). Nuovi fondamenti per la psicoanalisi.
  • Miller, J.-A. (1998). Introduzione al Seminario XI.
  • Miller, J.-A. (2004). Un effort de poésie.
  • Soler, C. (2004). L’entrée dans l’analyse.
  • Laurent, É. (2008). La clinica del sinthomo.


Fine analisi in Freud e Lacan

 


1. La fine dell'analisi in Freud

Sigmund Freud, fondatore della psicoanalisi, ha sviluppato una concezione della fine dell'analisi che si lega intimamente alla sua visione del processo terapeutico e alla nozione di "cura" o "guarigione". Per Freud, l'analisi ha come obiettivo il superamento delle nevrosi, che viene raggiunto attraverso la rivelazione e l'elaborazione dei conflitti inconsci. In questo senso, la fine dell'analisi si colloca nel momento in cui i sintomi che derivano da tali conflitti vengono ridotti o eliminati, migliorando così la capacità del soggetto di gestire i propri conflitti interiori. Tuttavia, è importante sottolineare che per Freud la fine dell'analisi non implica una "guarigione totale", ma rappresenta piuttosto il raggiungimento di una condizione in cui il soggetto è in grado di vivere una vita psichica meno conflittuale.

La concezione freudiana della fine dell'analisi è, quindi, legata al concetto di catarsi, intesa come il processo attraverso il quale il soggetto prende consapevolezza dei propri conflitti inconsci e delle proprie pulsioni rimosse. La rimozione dei sintomi, tuttavia, non equivale a una risoluzione definitiva di tutti i conflitti psichici. La guarigione, per Freud, non è l'eliminazione del conflitto ma la riduzione della sofferenza psichica e la capacità del soggetto di adattarsi ai propri desideri e impulsi in modo più consapevole. In altre parole, Freud riteneva che l'analisi non potesse eliminare ogni conflitto, ma fosse in grado di rendere il soggetto più libero rispetto ai determinismi inconsci che governano la sua vita psichica. La fine dell'analisi, per Freud, quindi, non è un obiettivo assoluto ma un miglioramento continuo delle condizioni psicologiche del soggetto.

La rielaborazione del transfert, che è una delle dinamiche centrali nel processo analitico, gioca un ruolo fondamentale nella fine dell'analisi in Freud. Durante l'analisi, il transfert è il processo attraverso cui il paziente trasferisce sullo psicoanalista emozioni e desideri che originano nelle sue esperienze passate, in particolare nella relazione con le figure parentali. La fine dell'analisi, in questo caso, si verifica quando il soggetto è in grado di riconoscere questi meccanismi transferali e di distaccarsene. Tuttavia, Freud non considerava il transfert come un elemento da eliminare completamente, ma piuttosto come uno strumento utile per comprendere le dinamiche inconsce del paziente.

2. La "parola vera" e l'uscita dall'Edipo in Lacan

La concezione della fine dell'analisi in Lacan subisce una trasformazione profonda rispetto a quella freudiana, a partire dalla sua rielaborazione del concetto di inconscio e dal suo interesse per la linguistica e la strutturalismo. Lacan, infatti, riprende e sviluppa la teoria freudiana in modo tale da spostare l'enfasi dalla cura del sintomo alla trasformazione del soggetto attraverso il linguaggio e la strutturazione del desiderio.

Negli anni '50, Lacan concepisce la fine dell'analisi come il momento in cui il soggetto raggiunge una "parola vera", un punto in cui il soggetto riesce a articolare il proprio desiderio in un modo che va oltre il complesso edipico, superando le strutture familiari e simboliche che lo hanno definito. In questa fase, l'analisi non ha più come obiettivo la rimozione dei sintomi ma la trasformazione del soggetto rispetto al suo desiderio, affinché il soggetto possa vivere con la propria mancanza senza cercare un completamento illusorio. La "parola vera", in questo senso, rappresenta una ristrutturazione della propria storia e una presa di consapevolezza rispetto a come il proprio desiderio è stato strutturato dall'incontro con i significanti padroni (S1), che sono i punti di riferimento simbolici che organizzano la psiche del soggetto.

Lacan sottolinea che l'analisi deve condurre il soggetto verso un nuovo posto rispetto alla verità del proprio discorso, che non è mai completamente accessibile. La fine dell'analisi, quindi, non è mai un punto di arrivo definitivo ma un "momento di apertura" verso una continua rielaborazione del desiderio, che non può mai essere completamente colmato. In questo contesto, Lacan afferma che "la verità ha struttura di finzione" (Lacan, 1956/1998), evidenziando come la verità stessa sia sempre una costruzione, una narrazione, che il soggetto è chiamato ad accogliere nella sua dimensione soggettiva, pur nella consapevolezza della sua incompletezza.


3. Angoscia e attraversamento del fantasma in Lacan

Nei suoi sviluppi teorici successivi, Lacan introduce il concetto di angoscia come segnale fondamentale del desiderio. L'angoscia, per Lacan, non è priva di oggetto; piuttosto, essa è il segno della mancanza e della dimensione desiderante che definisce il soggetto. La fine dell'analisi, quindi, si configura come il momento in cui il soggetto attraversa il proprio fantasma fondamentale. Il fantasma, nella teoria lacaniana, è un meccanismo difensivo che organizza il desiderio del soggetto, ma che lo imprigiona anche in un circolo di ripetizione.

L'attraversamento del fantasma non implica l'eliminazione del desiderio o la sua repressione, ma piuttosto un cambiamento radicale nella posizione soggettiva del paziente. Il soggetto, anziché essere dominato inconsciamente dal proprio fantasma, ne prende consapevolezza e lo riconosce come una costruzione che non può essere superata, ma che deve essere accettata come parte integrante della propria storia. La fine dell'analisi, in questo caso, non implica una "soluzione" al conflitto, ma una sua ristrutturazione, dove il soggetto non cerca più di sfuggire alla propria mancanza, ma la accoglie come un dato fondamentale dell'esistenza.


4. Il sinthome e la ristrutturazione del soggetto in Lacan

Verso la fine del suo insegnamento, Lacan sviluppa il concetto di sinthome, che rappresenta un nodo psichico in cui si intrecciano le dimensioni del simbolico, dell'immaginario e del reale. Il sinthome, secondo Lacan, è ciò che tiene insieme il soggetto e la sua psiche, permettendo al soggetto di vivere con la propria mancanza e di sostenerla nel quotidiano.

Nella concezione del sinthome, la fine dell'analisi non è più vista come la "guarigione" del soggetto ma come una ristrutturazione del legame del soggetto con il proprio sintomo. Il soggetto non elimina il sintomo, ma lo integra in una nuova modalità di essere, che gli consente di vivere con il desiderio senza subire la sua oppressione. Il sinthome, quindi, rappresenta un nuovo modo di relazionarsi con il proprio sintomo, una nuova forma di sostegno che non è più vissuta come una patologia, ma come una risorsa che consente al soggetto di esistere.

5. Il transfert e la posizione dell'analista

Un aspetto fondamentale della fine dell'analisi riguarda la trasformazione del trasfert. Se all'inizio dell'analisi il soggetto proietta sull'analista un sapere che rappresenta una forma di completamento o di salvezza, alla fine dell'analisi il transfert si dissolve e il soggetto si trova a confrontarsi con la propria mancanza, senza più cercare un Altro che possa riempirla. La fine dell'analisi, quindi, segna un passaggio decisivo: il soggetto non è più legato a una figura di autorità o a un "savoir" che lo guidi, ma si trova a confrontarsi con il proprio desiderio, riconoscendo la propria mancanza come una condizione costitutiva del soggetto.

L'analista, quindi, non è più visto come una figura che detiene la verità sul soggetto, ma come un altro che permette al soggetto di scoprire la propria posizione rispetto al desiderio. La fine dell'analisi, in questo senso, è il momento in cui il soggetto assume una nuova responsabilità rispetto al proprio desiderio, senza più ricercare un completamento esterno.


6. Conclusione: la fine dell'analisi come apertura

La fine dell'analisi, per Lacan, non è mai una "guarigione" in senso tradizionale, ma un momento di apertura in cui il soggetto si confronta con la propria mancanza, senza illusioni di compimento o di risoluzione definitiva. Lacan sottolinea che la fine dell'analisi è un punto di partenza, un inizio di una nuova responsabilità del soggetto nei confronti del proprio desiderio, senza la speranza che quest'ultimo possa mai essere completamente soddisfatto. Come scrive Miller (2023), la fine dell'analisi rappresenta "l'inizio di una nuova forma di responsabilità verso il proprio desiderio".


Bibliografia

  • Lacan, J. (1953/1975). Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi. In Scritti (Vol. I). Einaudi.
  • Lacan, J. (1956/1998). Il seminario, Libro III: Le psicosi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1962-63/2004). Il seminario, Libro X: L'angoscia. Einaudi.
  • Lacan, J. (1967/2001). Propos sur l'hystérie. Seuil.
  • Lacan, J. (1973/2011). Il seminario, Libro XXI: Les non-dupes errent. Seuil.
  • Lacan, J. (1975-76/2005). Il seminario, Libro XXIII: Il sinthomo. Einaudi.
  • Miller, J.-A. (2023). Come finiscono le analisi. Paradossi della passe. Astrolabio Ubaldini.




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