«La vera questione dell’ateismo è che Dio è inconscio»
— Jacques Lacan, Seminario XX – Encore (1972–1973)
Lacan non ha mai smesso di sorprenderci con le sue formule taglienti e provocatorie. Ma tra tutte, una spicca per la sua potenza teorica e simbolica:
«La vera questione dell’ateismo è che Dio è inconscio».
Una frase che rovescia la prospettiva razionalista del moderno “non credente” e ci invita a pensare in modo diverso il rapporto tra soggetto, fede e linguaggio.
L’inconscio non è ateo
Per Lacan, Dio non è un oggetto di fede, ma un significante. Non qualcosa da credere o negare, ma una funzione simbolica: il nome dell’Altro assoluto, del punto da cui proviene la Legge, il senso, la colpa, il desiderio stesso.
Quando dice che Dio è inconscio, Lacan non intende che Dio si nasconde in qualche angolo della psiche, ma che la funzione di Dio opera nella struttura del linguaggio stesso, là dove prende forma l’inconscio.
Freud aveva già mostrato che la religione nasce da bisogni profondi: la protezione, la colpa, il bisogno di un Padre. Ma Lacan va oltre: anche se ci si dichiara atei, il “posto di Dio” può continuare a strutturare il nostro rapporto con l’ideale, con la Legge, con il godimento.
Anche l’ateo ha un Dio
Il soggetto che dice “non credo” non è per questo liberato dalla funzione che Dio occupava nel proprio discorso.
Anzi: se non ha elaborato quel significante, Dio può ritornare sotto altre forme.
Può diventare Scienza assoluta, Ideale morale, Mercato, Nazione, Progresso, Successo.
L’ateo non è immune dal sacro. Lo ha solo spostato.
In questo senso, l’ateismo ingenuo è una rimozione, non una liberazione. È il rischio di non sapere più come e dove Dio agisce dentro di sé, nel proprio modo di desiderare, obbedire, colpevolizzarsi.
Un ateismo che non attraversa l’inconscio può essere più dogmatico di molte fedi.
La traversata del significante “Dio”
Lacan non ci chiede di credere in Dio. Ci invita a trattare il significante “Dio” come un sintomo, qualcosa che ha strutturato il soggetto e che merita ascolto, non negazione.
L’unica forma di “ateismo” autentico, in questa prospettiva, è un’elaborazione soggettiva della funzione di Dio nell’inconscio.
Un lavoro che passa per il riconoscimento di come abbiamo ricevuto la Legge, di cosa ci comanda da dentro, di come immaginiamo il nostro giudice, la colpa, la redenzione.
L’ateismo non è dire “Dio non esiste”, ma interrogare il luogo da cui Dio parlava. Solo così si può disattivare il potere assoluto di quel significante.
Il posto vuoto
Forse, in fondo, l’ateismo radicale è impossibile.
Perché esiste sempre, nella struttura del soggetto, un posto per Dio. Anche solo come vuoto.
E questo vuoto — che può chiamarsi mancanza, Legge, Altro, Nome-del-Padre — non è qualcosa da colmare, ma da abitare consapevolmente.
L’etica che ne deriva non è quella del credente né quella del razionalista, ma di chi sa che non c’è garanzia.
Che il senso non è dato.
Che l’Altro non esiste, ma ci parla lo stesso.
E che Dio, anche rimosso, lascia tracce nel modo in cui parliamo, godiamo, desideriamo.
Conclusione
“La vera questione dell’ateismo è che Dio è inconscio” non è una formula mistica, ma una diagnosi strutturale.
Non si può semplicemente liberarsi di Dio, come non ci si libera del desiderio o del linguaggio.
Ci si può solo interrogare:
- Quale posto occupa Dio nella mia storia?
- In che forma parla ancora in me?
- Quali nomi lo hanno sostituito?
In questa traversata, non c’è verità assoluta, ma un soggetto che si responsabilizza del proprio rapporto con l’Altro, anche quando l’Altro è silenzioso.
Nessun commento:
Posta un commento