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sabato 26 luglio 2025

La Modernità e la sfida del Reale

«Il deserto cresce: guai a chi in sé cela deserti»

— Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra


La Modernità e la crisi dell’Assoluto

Nietzsche ha intuito come pochi altri il destino della modernità: con la “morte di Dio” si sarebbe aperto uno spazio vuoto, abitato da nuovi idoli e nuove volontà di potenza. Ma non si tratta solo di un crollo della fede, bensì dell’evaporazione di ogni fondamento stabile per la Legge, il Senso e il Desiderio. In termini lacaniani, potremmo dire che si è dissolto il Nome-del-Padre come garante dell’ordine simbolico, lasciando il soggetto esposto a un Reale senza mediazioni.

L’Occidente ha reagito a questa perdita assolutizzando altri registri: la tecnica, il capitale, la scienza, il consumo. Il vuoto lasciato da Dio è stato colmato da forme secolarizzate di assoluto, non meno dogmatiche. Lungi dall’aprire una pluralità libera di sensi, la crisi del sacro ha spesso prodotto fondamentalismi moderni. Come ha scritto Lacan, il discorso del capitalista promette di eludere la castrazione simbolica: "funziona a meraviglia, ma proprio per questo va verso la catastrofe" (Lacan, “Radiophonie”).


Il ritorno dei fondamentalismi

Nel vuoto lasciato dall’Assoluto religioso, si sono affacciati nuovi assolutismi. Da un lato i fondamentalismi religiosi, che riattivano in forma regressiva e violenta il significante Padre. Dall’altro, una tecnocrazia globale che sostituisce l’autorità con l’algoritmo e la decisione con la previsione. In entrambi i casi, ciò che si evita è il confronto con il Reale: l’inconsistenza dell’Altro, il non-senso radicale del desiderio umano.

Il fondamentalismo religioso reintroduce un Dio-Altro totale, che ordina e punisce; la tecnocrazia promette un mondo senza soggettività, dove tutto può essere calcolato. In questa polarità, la modernità si mostra in tutta la sua ambivalenza: emancipatrice e ansiogena, razionale e delirante. La verità è che nessuno vuole davvero abitare il Reale: si preferisce l’Altro pieno, sia sotto forma di Shari’a che di Intelligenza Artificiale.


Capitalismo e autoritarismi: una dialettica inquietante

Non va dimenticato che anche il capitalismo è un fondamentalismo. Come scrive Žižek, esso funziona come “una religione senza teologia”: totalizzante, globale, non negoziabile. Ma oggi il suo dominio non è più indiscusso. Dopo la lunga stagione della globalizzazione liberale, assistiamo a un ritorno dell’elemento statuale e autoritario: Russia, Cina, India e molte altre nazioni promuovono modelli che intrecciano capitalismo e controllo sociale, mercato e comando.

La Russia di Putin propone una restaurazione simbolica in chiave nazionale-religiosa, mescolando ortodossia, patriottismo e gestione centralizzata. La Cina afferma un capitalismo tecnocratico senza democrazia, in cui il Partito assume il ruolo di S1: significante-padrone che regola senso, storia e identità. Gli USA, pur restando una potenza capitalistica liberale, si trovano attraversati da pulsioni autoritarie interne e da una sfida esterna che ne relativizza l’universalismo.

In questo scenario multipolare, il capitalismo non sparisce: si adatta. Assume coloriture culturali diverse, si ibrida con modelli verticali, perde la sua maschera liberal-progressista. Nasce una dialettica tra mercato e comando, tra algoritmo e decisione, tra flusso e muro. E forse, come suggeriva Lacan nella sua lettura del Discorso del capitalista, questa dialettica è destinata a esplodere, perché elude troppo a lungo la questione della mancanza.


L’Europa e la sfida della simbolizzazione

In questo contesto, l’Europa appare fragile ma anche potenzialmente feconda. Non ha più un centro, ma conserva la memoria del tragico, del conflitto, della pluralità. Potrebbe rappresentare una via alternativa tra fondamentalismi religiosi e totalitarismi tecnici, tra mercato assoluto e Stato assoluto. Ma per farlo dovrebbe ripensare radicalmente il proprio rapporto con il Reale, rinunciando all’illusione di una armonia preconfezionata.

Ciò significa riscoprire il limite come risorsa: la castrazione simbolica come condizione di libertà, non come perdita da negare. Significa, in termini politici, pensare la legge non come imposizione ma come campo di mediazione. E accettare che la verità non sia mai tutta, che il soggetto sia sempre decentrato, che nessun sistema possa redimere una volta per tutte la mancanza d’essere.


Conclusione

La modernità è il tempo della mancanza dell’Altro. Nietzsche lo ha anticipato, Lacan lo ha teorizzato, la geopolitica lo conferma. Il rischio è di sostituire l’Altro che manca con dei simulacri assoluti: Dio, mercato, algoritmo, Stato. La sfida è un’altra: abitare il Reale, senza dogmi, senza garanzie, senza padroni. Solo così il soggetto – e forse anche l’Europa – potrà tornare a desiderare.


Breve Bibliografia

  • Nietzsche, F. (1882). La gaia scienza.
  • Lacan, J. (1970). Radiophonie in Autres Écrits.
  • Lacan, J. (1972). Il Seminario XX – Encore.
  • Žižek, S. (2006). Viviamo in tempi interessanti.
  • Han, B.-C. (2014). La società della trasparenza.
  • Esposito, R. (2009). Pensiero vivente.




 



giovedì 10 luglio 2025

🌍 Crisi globale: economia, guerra e godimento. Lettura della disgregazione contemporanea


1. Crisi multipla: economia, desiderio, governance

  • Per Marx, la crisi è interna al capitale stesso, che produce contraddizioni tra valore d’uso e accumulazione di plusvalore.
  • Per Keynes, la crisi è fallimento del coordinamento tra investimento, consumo e aspettative: quando nessun attore prende l’iniziativa, il sistema collassa.
  • Per Lacan, il discorso capitalista produce un godimento senza mancanza, dove l’Altro simbolico è espulso e il soggetto funziona come ingranaggio.

Insieme, questi tre sguardi ci mostrano un mondo in cui:

  • il capitale cerca solo accumulazione,
  • lo Stato ha rinunciato a ogni funzione anticiclica e coordinativa,
  • il soggetto è sottomesso al godimento cieco.


2. La guerra come manifestazione catastrofica delle contraddizioni

Le guerre in Ucraina e Gaza non sono solo eventi politici o geopolitici: sono la manifestazione catastrofica delle contraddizioni sistemiche.

  • Per Marx, la guerra è spesso una "valvola di sfogo" per il capitale in crisi, un modo per distruggere capitale e forza lavoro in eccesso, e rilanciare cicli di accumulazione.
  • Per Keynes, la guerra esplode quando fallisce il coordinamento economico tra Stati, e l’investimento pubblico viene sostituito dalla corsa agli armamenti e dalla logica del panico.
  • Per Lacan, la guerra rappresenta il ritorno del reale in forma cruda: quando la parola viene espulsa, resta solo il godimento dell’annientamento.

L’assenza di un Altro simbolico condiviso – sia esso la diplomazia, il diritto internazionale, o la cooperazione economica – lascia spazio a identità paranoiche, fantasie di purezza, potere senza legittimità.

Le guerre contemporanee sono dunque il luogo in cui convergono:

  • la crisi della rappresentanza,
  • la crisi del capitale,
  • la crisi del senso.

Sono, a tutti gli effetti, il punto di rottura del legame globale.


3. Disordine geopolitico: dal mercato mondiale a zone di godimento

Keynes sognava un mondo coordinato attraverso istituzioni multilaterali (FMI, Banca Mondiale) e bilanciamenti commerciali (Bretton Woods). Oggi, invece, assistiamo a:

Zona Logica dominante Sintomo
USA Politica monetaria + dazi Ritorno al protezionismo competitivo
Cina Investimento statale strategico Capitalismo guidato ma opaco
UE Austerità e paralisi Frammentazione interna
Russia Comando verticale Guerra come strumento di coesione
Israele Ethno-capitalismo militarizzato Guerra permanente
Sud globale Dipendenza e shock esterni Reazioni a catena di instabilità

Marx direbbe: è la crisi terminale del mercato mondiale. Keynes: è la rottura della fiducia sistemica. Lacan: è il godimento che rifiuta l’Altro.


4. Il fallimento dell’intervento pubblico

Un punto decisivo in ottica keynesiana è che gli Stati, dopo la crisi del 2008, hanno:

  • salvato le banche, ma non riformato i meccanismi del profitto;
  • stampato moneta, ma non investito in infrastrutture o redistribuzione;
  • alimentato la speculazione, ma non riattivato la domanda interna in modo duraturo.

Ciò ha alimentato:

  • l’accumulazione di debito pubblico senza contropartita produttiva,
  • il ritorno delle élite finanziarie come nuovi padroni,
  • l’inflazione come conflitto redistributivo irrisolto.

In ottica lacaniana, lo Stato non è più garante dell’Altro, ma funziona come S1 amministrativo, gestore di algoritmi, incapace di produrre legame.


5. Antigone e il rifiuto del “funzionamento senza soggetto”

In un mondo in cui:

  • il capitalismo si auto-riproduce senza limiti,
  • il discorso sociale è strutturato sull'eccitazione e sul controllo,
  • lo Stato abdica alla sua funzione regolativa,

Antigone diventa figura politica fondamentale: non è nostalgia dell’ordine, ma testimonianza di un’etica del limite.

In termini keynesiani:

  • serve una nuova volontà collettiva che rompa l’equilibrio perverso tra rendita e miseria, tra algoritmo e guerra.

In termini lacaniani:

  • serve una riapertura del desiderio, che rimetta la mancanza al centro del legame.


Conclusione: senza mancanza, senza progetto

Per Marx, la crisi viene dal profitto cieco. Per Keynes, dal fallimento della fiducia e dell’intervento pubblico. Per Lacan, dalla cancellazione della mancanza e dell’Altro.

Oggi, le tre crisi coincidono:

  • crisi economica (disuguaglianze, inflazione, debito),
  • crisi politica (guerre, nazionalismi, ritorno del comando),
  • crisi simbolica (assenza di desiderio, saturazione del godimento).

In assenza di soggetti che manchino, progettino, coordinino e parlino, il mondo si disgrega tra comando militare e funzionamento algoritmico.

La posta in gioco non è solo il PIL, ma la possibilità stessa del legame umano e politico.


📚 Bibliografia essenziale

  • Karl Marx, Il Capitale, vol. I-III
  • John M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, 1936
  • Jacques Lacan, Il seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi, 1969-70
  • Wolfgang Streeck, Tempo guadagnato, 2013
  • Nancy Fraser, Capitalismo cannibale, 2022
  • Alain Badiou, La vera vita, 2016
  • Slavoj Žižek, Il coraggio della disperazione, 2017
  • Christian Marazzi, Capitale e Linguaggio 


mercoledì 9 luglio 2025

Leader e Formazioni Politiche


Introduzione

La relazione tra leader e massa è un nodo centrale per comprendere le dinamiche politiche contemporanee. Fin da Freud (Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 1921), la psicoanalisi ha messo in luce come il leader operi come figura d’identificazione primaria, capace di organizzare il desiderio e canalizzare l’investimento libidico collettivo.

Con Lacan, e in particolare con la teoria dei quattro discorsi (Il rovescio della psicoanalisi, 1969-70), il leader appare non tanto come individuo carismatico, ma come funzione simbolica, un punto di sutura che tiene insieme un legame sociale. Ogni tipo di leadership si può così leggere in relazione a una struttura psichica, a un discorso dominante, e a una particolare modalità con cui la massa si organizza attorno a essa.


Tipi di Leadership, Strutture Psichiche e Legame Sociale

Tipo di leadership Struttura psichica del leader Discorso dominante Struttura della massa Esempi
Perversa Perversa Discorso del Padrone Complicità feticistica, godimento trasgressivo Hitler, Mussolini, Trump, tratti in Putin
Paranoide Paranoide Padrone / Universitario Identificazione persecutoria, coesione nell’odio Stalin, Netanyahu (in parte), Putin
Isterica Isterica Discorso dell’Isterica Idealizzazione, domanda etica incessante Zelensky, Greta Thunberg, leader progressisti UE
Ossessiva Ossessiva Universitario / Padrone Adesione razionale, controllo difensivo De Gaulle, Cavour, Draghi
Generativa Simbolicamente situata Padrone pluralizzato / Analista Simbolizzazione condivisa, cooperazione orizzontale Gandhi, M.L. King, Allende, Spinelli, Delors
Analitica Funzione di causa (liminare) Discorso dell’Analista Soggettivazione, apertura del desiderio Leader decentrati, assemblearismo radicale


Leader perversi: la legge come godimento

Le leadership perverse, come quelle di Hitler e Mussolini, si fondano su un godimento autoritario: la Legge non è simbolica ma volontà personale del leader. Le masse non vi si oppongono, ma vi aderiscono in modo feticistico, trovando godimento nell’obbedienza e nella sottomissione. Il leader perverso si offre come oggetto causa del godimento collettivo, convertendo il desiderio in fedeltà cieca.

Donald Trump rappresenta una versione postmoderna di questa struttura: la sua leadership non si fonda su coerenza o verità, ma sulla capacità di mobilitare un godimento trasgressivo, fondato sulla rottura con il politicamente corretto, sull’oscenità comunicativa e sull’identificazione narcisistica. Trump non governa: seduce, provoca, incarna il desiderio del "dire ciò che nessuno osa dire". La sua parola è feticcio, non messaggio.

Nelle masse che lo seguono si attiva un godimento condiviso: il piacere di vedere infranta la Legge simbolica delle élite, delle istituzioni, della civiltà liberale. Il suo potere non si basa sulla verità ma sulla performatività: è vero perché è stato detto da lui.


Leader paranoidi: il nemico come collante

La leadership paranoide costruisce il legame sociale attorno a una minaccia: il Nemico è l’elemento coesivo. Il leader paranoide – come Stalin, o in parte Netanyahu – organizza la massa in funzione difensiva, trasformando l’angoscia in identificazione persecutoria.

Putin fonde questa modalità con elementi perversi: da un lato costruisce un’identità nazionale attraverso la minaccia esterna (NATO, Occidente, dissidenti), dall’altro si pone come figura intoccabile, che incarna la Legge come potere assoluto. La sua leadership è fredda, autoritaria, impermeabile alla domanda.


Leader isterici e ossessivi: la domanda e la norma

Il leader isterico, come Zelensky o Greta Thunberg, si rivolge all’Altro con una domanda etica incessante: perché questo mondo è così ingiusto? Non propone risposte, ma attiva movimenti, sollecita, inquieta. Questo stile può mobilitare grandi energie, ma tende anche all’instabilità, perché non si fonda su una simbolizzazione forte ma su una tensione.

Il leader ossessivo, al contrario, cerca ordine e coerenza. Agisce a partire da un principio normativo o tecnico. È il caso di De Gaulle, Cavour, e – in forma tecnocratica – di Mario Draghi, che incarna una leadership razionale, controllata, difensiva. La massa si identifica con la solidità, con la promessa di un sapere esperto, spesso depoliticizzato.


Leader generativi e analitici: simbolo e desiderio

La leadership generativa produce simbolizzazione. Non impone, ma orienta. Leader come Gandhi, Martin Luther King o Salvador Allende non si pongono come padroni, ma come figure situate simbolicamente, capaci di dare forma al desiderio collettivo. In Europa, solo parzialmente alcune figure come Altiero Spinelli o Jacques Delors hanno incarnato questo stile, promuovendo un’Europa come progetto etico e politico condiviso.

La leadership analitica, infine, è rara. Non si presenta come guida, ma come funzione che causa desiderio. Il leader analitico non occupa il posto del sapere né quello del godimento, ma apre lo spazio della parola, della soggettivazione. Alcune esperienze assembleari, movimenti orizzontali, forme di militanza senza leader, possono essere lette in questa prospettiva.


Leadership europea: crisi simbolica e ricerca di senso

La leadership europea attuale si presenta come frammentata, oscillante, spesso simbolicamente povera. Alcuni leader (Draghi, Scholz) adottano un tono ossessivo-tecnocratico; altri (Macron) oscillano tra isteria e decisionismo padronale. Le forze progressiste, quando esistono, parlano con registro isterico, ma faticano a proporre un significante unificante.

In questo contesto, l’Europa appare più come apparato amministrativo che come luogo desiderabile. Manca una leadership generativa, capace di parlare al desiderio e non solo al bisogno. Manca un significante condiviso che nomini il legame. Dove non c’è simbolizzazione, il potere torna a oscillare tra burocrazia e populismo.


Conclusione: verso una nuova funzione del leader?

In un’epoca segnata dalla crisi della rappresentanza, dal ritorno del godimento autoritario e dalla scomposizione del legame sociale, ripensare la funzione del leader significa interrogare ciò che tiene insieme una collettività.

Non si tratta di scegliere tra carisma o competenza, ma di interrogare il luogo simbolico del leader: è ancora possibile una leadership che non catturi il desiderio, ma lo orienti senza dominarlo? È possibile passare dalla fascinazione all’etica, dalla padronanza alla responsabilità?

La psicoanalisi ci offre una bussola per leggere il presente. Ma il futuro resta aperto.


Bibliografia essenziale

  • Freud, S. (1921). Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Opere, vol. XI.
  • Lacan, J. (1969-70). Il rovescio della psicoanalisi. Seminario XVII.
  • Recalcati, M. (2007). L’uomo senza inconscio. Raffaello Cortina.
  • Lazzarato, M. (2012). La fabbrica dell’uomo indebitato. DeriveApprodi.
  • Žižek, S. (2006). La soggettivazione politica. Meltemi.


giovedì 12 giugno 2025

Cambiare il mondo senza prendere il potere: Zapatismo, desiderio e soggettivazione politica in chiave psicoanalitica

Cambiare il mondo senza prendere il potere. Zapatismo, desiderio e soggettivazione politica in chiave psicoanalitica


Introduzione

Il movimento zapatista, emerso nel 1994 nel Chiapas, ha rappresentato una rottura simbolica e politica con i paradigmi rivoluzionari tradizionali. Il suo rifiuto esplicito di "prendere il potere" e la pratica del "comandare obbedendo" offrono un'occasione unica per una lettura psicoanalitica della soggettivazione politica, del desiderio collettivo e della funzione dell'Altro. Questa lettura, ispirata alla teoria lacaniana, permette di comprendere il carattere rivoluzionario dello zapatismo non come presa del potere statuale, ma come trasformazione del legame sociale. Tuttavia, questa proposta etico-politica, pur profondamente innovativa, presenta limiti rilevanti quando confrontata con le sfide materiali e simboliche della contemporaneità.


1. Il soggetto politico tra mancanza e desiderio

In psicoanalisi il soggetto non è un'entità compatta ma divisa ($), costitutivamente mancante. Il desiderio non nasce da un bisogno, ma dall'incontro con l'Altro e dal fallimento di ogni soddisfazione piena. Lo zapatismo, nel rifiuto della conquista del potere centrale, sembra assumere questo carattere strutturalmente mancante del desiderio rivoluzionario, spostandolo dal piano del potere sull'altro al piano dell'apertura all'altro. "Camminare domandando" è una forma politica del desiderio: non voler colmare la mancanza con un potere, ma farne il motore del processo collettivo. Tuttavia, come nota Zizek, il rischio di una politica del desiderio priva di mediazione istituzionale è quello di cadere in una forma di impotenza sublimata, dove il desiderio stesso viene feticizzato a scapito dell'efficacia storica.


2. Il potere come significante padrone (S1)

Lacan individua nel significante padrone (S1) il fondamento simbolico del discorso del potere. Le rivoluzioni moderne hanno spesso sostituito un S1 con un altro (il re con il popolo, il capitale con il partito), senza modificare la struttura stessa del discorso. Lo zapatismo, al contrario, rifiuta di incarnare un nuovo S1. La sua struttura politica orizzontale, la pluralità dei soggetti e delle parole, il rifiuto della centralizzazione sono tutti tentativi di evitare la riemersione del discorso del padrone. Tuttavia, Laclau ha evidenziato che ogni articolazione politica richiede un momento di condensazione simbolica, un significante vuoto capace di unificare le domande eterogenee. Il rifiuto dello S1, se radicale, rischia di impedire la costruzione di un'egemonia contro-egemonica.


3. Comandare obbedendo: sovversione dell'Altro

"Comandare obbedendo" è una formula che disinnesca la verticalità del comando. Il capo non è l'Uno che sa, ma colui che risponde. L'autorità è ridotta a funzione simbolica, temporanea, legata al riconoscimento della comunità. Qui il soggetto politico non è rappresentato, ma articolato: si apre uno spazio di enunciazione dove l'autorità diventa funzione dell'ascolto. Questo può essere paragonato al discorso dell'analista, dove il sapere non è imposto ma evocato, emergente. Tuttavia, Badiou ha criticato le forme di democrazia radicale che rinunciano a ogni forma di decisione sovrana, vedendo in esse un rischio di dispersione: senza un Evento che imponga un nuovo ordine simbolico, il rischio è che la politica si dissolva nel sociale.


4. Il noi che include il diverso: identità molteplice

Lo zapatismo parla di un "noi" che non si chiude nell'identità ma che include la differenza. Il "nosotros" zapatista è il luogo simbolico dove il soggetto può esistere senza essere ridotto all'identico. È una politica del soggetto diviso, in cui il legame non è dato dalla somiglianza, ma dall'apertura all'inassimilabile. In termini psicoanalitici, si tratta di un "noi" che assume la castrazione simbolica e non cerca di riempirla con un Uno totalizzante. Pavón-Cuéllar, nella sua lettura critica della psicoanalisi latinoamericana, sottolinea l'importanza di non proiettare su questi "noi" locali un'immagine idealizzata o mitica del soggetto rivoluzionario: il rischio è quello di riprodurre inconsciamente una funzione dell'Altro coloniale, anche se apparentemente decostruita.


5. Il tempo dell'attesa e la soggettivazione come processo

Lo zapatismo non ha fretta di vincere. Rifiuta le logiche dell'accelerazione rivoluzionaria. Il tempo è il tempo dell'altro, del processo, della trasformazione soggettiva. Come in analisi, dove il tempo logico non coincide con il tempo cronologico, anche la rivoluzione zapatista procede per atti simbolici, interruzioni, retroazioni, elaborazioni collettive. Non c'è un fine, ma una direzione: quella dell'emancipazione soggettiva e comunitaria. Tuttavia, questa temporalità rischia di restare impolitica se non viene articolata con una strategia che tenga conto dei dispositivi di potere globali: come sottolinea Zizek, la sospensione dell'atto sovrano può diventare complicità con lo stato delle cose se non attraversa l'ordine simbolico con un taglio.


Conclusione: una rivoluzione etica con limiti strategici

Lo zapatismo rappresenta un esempio vivente di quella che Lacan avrebbe chiamato un'etica del desiderio. Non si tratta di abolire il potere, ma di sottrarsi alla sua cattura immaginaria. Non si tratta di eliminare il significante padrone, ma di ridurne gli effetti, di renderlo reversibile, temporaneo, attraversabile. In questo senso, lo zapatismo è una rivoluzione simbolica: non per prendere il potere, ma per trasformare il legame sociale.

Tuttavia, come notano diversi critici (Zizek, Laclau, Badiou, Pavón-Cuéllar), la rinuncia al potere può tradursi in una rinuncia alla trasformazione reale delle strutture materiali. L’esperienza zapatista mostra i limiti di una politica del desiderio quando non è sostenuta da una riflessione sul simbolico e sul reale della violenza sistemica. Forse la sfida, oggi, è quella di tenere insieme etica del desiderio e costruzione di istituzioni emancipative.


Bibliografia essenziale

  • Jacques Lacan, Il seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi, Einaudi
  • John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, Alegre
  • Subcomandante Marcos, Ya basta!, Feltrinelli
  • Enrique Dussel, 20 tesi di politica, Castelvecchi
  • Cornelius Castoriadis, L’istituzione immaginaria della società, Einaudi
  • Gloria Muñoz Ramírez, EZLN: el fuego y la palabra, Ediciones La Jornada
  • Miguel Benasayag, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli
  • Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi
  • Ian Parker e David Pavón-Cuéllar, Lacan, Discourse, Event: New Psychoanalytic Approaches to the Political, Routledge
  • Slavoj Zizek, Meno di niente, Ponte alle Grazie
  • Ernesto Laclau, La ragione populista, Laterza
  • Alain Badiou, L'ipotesi comunista, Ponte alle Grazie 

mercoledì 14 maggio 2025

Islam e modernità: movimenti di flessibilizzazione della legge simbolica

 


Introduzione Il confronto tra Islam e modernità è uno dei terreni più controversi e culturalmente densi dell'epoca contemporanea. Una lettura psicoanalitica di tipo lacaniano non si propone di giudicare o classificare l'Islam, ma di analizzare il rapporto del soggetto musulmano con la Legge simbolica, il significante padrone (S1), il godimento (jouissance) e il discorso dell'Altro. Laddove la modernità occidentale è segnata dalla crisi del Nome-del-Padre e dalla pluralizzazione dei discorsi, alcune forme dell'Islam sembrano mantenere un rapporto più stabile e normativo con l'S1. Tuttavia, esistono contesti e dinamiche in cui tale rapporto si flessibilizza, aprendo spazi inediti per una soggettivazione più libera, persino per forme di Islam laico.

1. Il Nome-del-Padre e la Legge simbolica nell'Islam In Lacan, la funzione del Nome-del-Padre è quella di inscrivere il soggetto nel campo dell'Altro, ordinando il desiderio tramite l'interdizione. Nell'Islam tradizionale, il significante di Dio è radicalmente Uno, non rappresentabile, e il Corano è considerato la Parola stessa di Dio, non interpretazione umana. Il rapporto con la Legge è dunque diretto, senza mediazione ecclesiastica. Ciò implica una forma molto forte di legame tra S1 e l'Altro, che può strutturarsi in un discorso del padrone stabile ma poco aperto alla rotazione dei discorsi (Lacan, "Seminario XVII").

La Legge, in questo contesto, non è solo un dispositivo giuridico o morale, ma un elemento strutturante dell'identità soggettiva. Questo porta ad una forma di godimento che si lega fortemente al simbolico, impedendo la deriva verso un godimento fuori-legge, come invece accade in molte configurazioni postmoderne. Tuttavia, questa stabilità simbolica può anche irrigidirsi, generando strutture soggettive fondate sulla sottomissione letterale più che sul desiderio.

2. Modernità e crisi del Padre La modernità occidentale, secondo Lacan, è marcata dall'evaporazione del Padre, dalla decostruzione dell'Altro come garante assoluto, e dalla proliferazione del godimento fuori legge. Laddove l'Islam tende a mantenere il legame tra Legge e senso, la modernità introduce una scissione tra godimento e simbolico, che spesso si manifesta come crisi soggettiva o come fondamentalismo reattivo. In questo senso, il fondamentalismo può essere letto come un ritorno iperbolico del significante padrone in risposta al vuoto dell'Altro (Recalcati, 2007).

La reazione fondamentalista è, da un punto di vista lacaniano, una risposta alla deregolazione del godimento. Essa cerca di restaurare un S1 forte, unificante, capace di rimettere ordine nel caos pulsionale. Ma ciò avviene spesso a prezzo della soggettività, che viene sacrificata in nome di una comunità immaginaria assoluta. Il rischio è quello di un ritorno del Padre in forma feroce, come significante di morte piuttosto che di vita simbolica.

3. Luoghi di flessibilizzazione del rapporto con la Legge simbolica

3.1. Turchia post-kemalista La secolarizzazione forzata operata da Atatürk ha prodotto una separazione tra S1 religioso e S1 statale. Nelle generazioni successive, alcuni intellettuali hanno cercato una sintesi tra fede e laicità, come nel caso di Ahmet Insel, che parla di "religiosità senza religione istituzionale". Questa tensione produce aperture nella struttura discorsiva dominante.

Allo stesso tempo, la Turchia contemporanea mostra un panorama sfaccettato, dove giovani musulmani reinterpretano la propria identità religiosa in relazione a valori democratici e pluralisti. In questo senso, il discorso dell'università e della scienza entra in competizione con il discorso religioso tradizionale, producendo effetti di soggettivazione e nuove forme di godimento.

3.2. Iran sciita e riformismo teologico All'interno dello sciismo iraniano, autori come Abdolkarim Soroush propongono una distinzione tra religione in sé (divina) e conoscenza religiosa (umana, fallibile). È una mossa che de-totalizza il significante religioso, aprendo uno spazio di interrogazione soggettiva: "La religione è sacra, ma la nostra comprensione della religione non lo è" (Soroush, 2000).

Questa distinzione introduce una dimensione ermeneutica che implica il riconoscimento del desiderio del soggetto come parte integrante del processo religioso. Il sapere religioso non è più una verità monolitica, ma un campo di interpretazione. Il Nome-del-Padre non scompare, ma si decentra, lasciando emergere il soggetto diviso.

3.3. Femminismi islamici Intellettuali come Fatima Mernissi e Amina Wadud hanno decostruito la lettura patriarcale della Shari‘a, proponendo una rilettura del Corano alla luce dell’uguaglianza di genere. Ciò comporta uno scollamento tra S1 religioso e sua funzione normativa assoluta: un tentativo di soggettivazione simbolica dell'esperienza religiosa.

Nel femminismo islamico, la questione del corpo femminile e del desiderio viene riportata al centro del discorso. Il godimento non è più esclusivamente maschile o paterno, ma si apre alla pluralità. Questo implica un lavoro di traduzione simbolica che decostruisce l'immaginario patriarcale e apre spazi per nuove configurazioni discorsive e affettive.

3.4. Diaspora musulmana in Europa Nei contesti migratori, l'incontro con la modernità europea produce una tensione soggettiva tra identificazioni familiari e discorsi sociali nuovi. In alcuni giovani musulmani emergono elaborazioni ibride, dove l'Islam non è più un S1 dominante, ma un punto di risonanza simbolica, una lingua intima del desiderio.

Molti di questi soggetti si muovono tra differenti registri simbolici, creando forme originali di appartenenza. Il velo, ad esempio, può essere vissuto non come imposizione, ma come scelta simbolica. La diaspora, in quanto condizione di sradicamento e ridefinizione, genera un terreno favorevole alla flessibilizzazione del rapporto con la Legge.

3.5. Sufismo e godimento simbolico Il sufismo, con la sua enfasi sul rapporto amoroso con Dio, decostruisce l'immagine del Dio legislatore assoluto a favore di un Dio amante. Questo sposta il godimento fuori dal dominio del padre, verso una dimensione simbolico-poetica che ricorda l'elaborazione mistica del godimento (Nasr, 1972).

Nel sufismo, il desiderio non è represso, ma sublimato attraverso la danza, la musica, la poesia. Il corpo trova una sua lingua nel simbolico. Ciò rappresenta un contro-discorso rispetto al fondamentalismo, capace di articolare un Altro non totalizzante, un Dio che si dona nella mancanza e non nella legge rigida.

Conclusione La flessibilizzazione del rapporto con la Legge simbolica nell’Islam non è un processo lineare, ma si manifesta in pieghe soggettive, culturali e politiche. Una lettura lacaniana consente di riconoscere in questi movimenti non una perdita di identità, ma una possibilità di simbolizzazione nuova, dove l’S1 non è più un dogma, ma una soglia di interrogazione.

In questo senso, un Islam laico è possibile là dove si separa l’ordine del simbolico dalla presa totalizzante dell’Altro. Ciò non implica un rifiuto dell’Islam, ma una sua reinvenzione come spazio aperto al desiderio, alla differenza e alla molteplicità. Una soggettività musulmana può emergere come soggettività simbolica, non ridotta alla legge, ma capace di riscriverla nel proprio incontro con l’Altro.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1991). Il Seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1975). Il Seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.
  • Recalcati, M. (2007). Cosa resta del padre? La paternità nell'epoca ipermoderna. Cortina.
  • Soroush, A. (2000). Reason, Freedom, and Democracy in Islam. Oxford University Press.
  • Mernissi, F. (1991). Il harem politico. Giunti.
  • Wadud, A. (1999). Qur'an and Woman. Oxford University Press.
  • Nasr, S.H. (1972). Sufi Essays. SUNY Press.
  • Arkoun, M. (2002). The Unthought in Contemporary Islamic Thought. Saqi Books.
  • Insel, A. (2003). Laicité, liberté de conscience et pluralisme religieux. In Revue des mondes musulmans et de la Méditerranée.
  • Ramadan, T. (2004). Western Muslims and the Future of Islam. Oxford University Press.


Woke e Cancel Culture

 


1. Introduzione: il ritorno della Legge come sintomo Viviamo in un'epoca in cui la crisi del significante padrone tradizionale lascia spazio a nuove formazioni discorsive che tentano di riorganizzare il campo simbolico. Tra queste, il fenomeno woke e la cancel culture si impongono come dispositivi sociali e culturali che, pur proponendosi come emancipatori, sembrano talvolta generare nuove forme di esclusione, angoscia e irrigidimento del legame sociale.

La psicoanalisi lacaniana, con la sua attenzione al rapporto tra soggetto, linguaggio e Legge, offre una chiave di lettura originale e critica di questi fenomeni. Lungi dal liquidarli come semplici mode culturali, si tratta di coglierne la struttura desiderante e le impasse soggettive che li accompagnano.

2. Il Woke come nuovo Super-Io Nato da una spinta legittima contro le discriminazioni razziali, di genere e sociali, il discorso woke si costituisce come un nuovo regime simbolico che tende a ridefinire i codici linguistici e comportamentali. Tuttavia, questa nuova etica del linguaggio si trasforma spesso in un imperativo assoluto: "parla bene, pensa giusto, non offendere mai". Qui Lacan ci aiuta a riconoscere la struttura del Super-Io, che, lungi dall'essere la semplice interiorizzazione della legge, si manifesta come comando paradossale: "godrai nel tuo essere giusto, ma non abbastanza".

Alcuni esempi concreti possono aiutare a chiarire questo meccanismo. In molte università americane e britanniche, vengono adottate liste di parole "consigliate" e "sconsigliate" per evitare di urtare la sensibilità di gruppi minoritari: ad esempio, sostituire "slave" con "enslaved person" nei manuali di storia o evitare il termine "crazy" anche in contesti colloquiali. Simili pratiche si sono estese anche alla revisione di classici letterari, come nel caso di alcune edizioni di Roald Dahl e Agatha Christie, dove editori hanno modificato termini ritenuti oggi offensivi.

Lungi dall'essere una liberazione, questa nuova moralità produce un soggetto colpevole per struttura, sempre in difetto rispetto alla norma etica. Si tratta di un godimento colpevole, che sostituisce il desiderio con il dovere, e il transfert con la sorveglianza.

3. Cancel Culture e la forclusione del sintomo La cancel culture si inserisce come pratica di espulsione simbolica del soggetto "colpevole". Non si tratta più di criticare, interpretare, elaborare il senso di un'opera o di una dichiarazione, ma di rimuoverla, annullarla, eliminarla dalla memoria collettiva. Questo meccanismo ha tratti profondamente rituali: è un sacrificio simbolico che mira a restaurare un ordine infranto.

Esempi noti includono la rimozione di statue di figure storiche come Cristoforo Colombo o Winston Churchill, accusati di colonialismo o razzismo; o ancora, l'esclusione pubblica e professionale di artisti, scrittori o professori universitari per affermazioni ritenute offensive, anche se contestualizzate o datate. Il caso di J.K. Rowling, accusata di transfobia per alcuni suoi tweet, è emblematico della tensione tra libertà d’espressione e sensibilità collettiva.

In termini lacaniani, potremmo parlare di una forclusione del sintomo: il soggetto che manifesta una contraddizione, un resto non integrabile, viene espulso dal discorso invece che accolto nel lavoro del desiderio. In tal modo, la cancel culture tenta di costruire un Altro senza mancanza, un ordine simbolico perfetto, senza remainder.

4. Il rifiuto della castrazione e le nuove forme di angoscia Sia il woke che la cancel culture condividono una difficoltà strutturale: l'incapacità di sostenere la castrazione simbolica, ovvero l'assunzione del limite come fondamento del desiderio. Laddove si pretende un linguaggio puro, un'identità non contraddetta, una giustizia senza resto, si produce inevitabilmente angoscia.

Il desiderio, secondo Lacan, nasce dalla mancanza nell'Altro. Laddove l'Altro viene saturato di senso e di legge, il soggetto non può che provare colpa o silenziarsi. La parola, invece di essere luogo di apertura, diventa spazio di pericolo. È qui che si manifesta la sofferenza soggettiva contemporanea: non solo la censura, ma l'autocensura; non solo l'espulsione, ma la vergogna di esistere in quanto desideranti.

5. Woke e Cancel Culture: sintomi di un disagio nel legame sociale Questi fenomeni possono essere letti come tentativi di ricostruzione di un legame sociale perduto, ma lo fanno attraverso una via perversa: la negazione del conflitto, dell'ambiguità, della differenza come strutturale. Non è un caso che nella cancel culture manchi lo spazio del transfert, cioè della relazione dialettica con l'Altro come luogo del senso in costruzione.

La psicoanalisi, invece, invita a una pratica del discorso che faccia posto al sintomo, al non-sapere, alla domanda. Ciò che oggi viene rapidamente silenziato, potrebbe invece divenire occasione di parola, di elaborazione, di costruzione soggettiva. Anziché cancellare il soggetto, si potrebbe sostenere il suo dire.

6. Conclusione: per una politica del desiderio Una lettura lacaniana del fenomeno woke e della cancel culture non propone un ritorno nostalgico al Padre o all'ordine simbolico tradizionale. Piuttosto, suggerisce la necessità di una politica del desiderio: una pratica sociale e culturale che non cerchi identità pure o linguaggi perfetti, ma che faccia posto alla mancanza, al conflitto, all'inconscio.

Solo in questa prospettiva è possibile ricostruire un legame sociale non fondato sulla colpa o sull'espulsione, ma sul riconoscimento della divisione soggettiva come condizione di ogni parola autentica.


venerdì 2 maggio 2025

La pratica analitica istituzionale come prassi politico-sociale

 

Centro socioriabilitativo



Introduzione: psicoanalisi e istituzione come campo di lotta simbolica

La pratica analitica istituzionale, nata dall'incontro tra la psicoanalisi lacaniana e le esperienze politiche radicali del secondo Novecento, rappresenta una forma di intervento che mette al centro la questione del soggetto e del suo rapporto con l'istituzione, il potere e il discorso. Non si tratta semplicemente di "applicare" la psicoanalisi al sociale, ma di fare del luogo istituzionale – scuola, servizio, organizzazione del Terzo Settore – un campo di emergenza del soggetto come effetto di parola, come scarto rispetto alla norma.

Questa prassi si oppone tanto alla burocratizzazione tecnocratica quanto all'illusione terapeutica totalizzante. Essa non cerca di risanare l'istituzione, ma di aprirla al reale che la attraversa, alla divisione soggettiva, al sintomo come cifra della verità.


Politica del desiderio contro gestione del vivente

La prassi analitica istituzionale critica l'ideologia della governance, che riduce ogni soggetto a un operatore di sé stesso, a un capitale umano da ottimizzare. In questa logica, il disagio diventa "disfunzione", il conflitto "problem solving", il sintomo "rischio da contenere". La prassi analitica rovescia questa prospettiva: ascolta il sintomo, lo assume come verità del soggetto e come segnale della contraddizione sociale.

È una politica del desiderio, che non mira a integrare il soggetto in modo pacificante, ma a sostenere la sua parola, anche quando è eccentrica, disturbante, non addomesticabile. In questo senso, si colloca in una traiettoria critica che interroga i dispositivi del potere simbolico: chi nomina? Chi decide cosa è "cura", cosa è "educazione", cosa è "normalità"?


Dispositivi: il gruppo, l'équipe, l'assemblea

La pratica istituzionale si serve di dispositivi collettivi – gruppo di parola, assemblea, équipe – come luoghi di articolazione del legame e del conflitto. Ma non li concepisce in senso armonizzante: il gruppo non è la fusione, ma la scena dell'inconscio, il luogo in cui emergono le divisioni, le alleanze, i transfert, le resistenze. L’équipe, allora, non è solo una struttura tecnica, ma un laboratorio etico-politico.

In alcune esperienze del Terzo Settore post-basagliano italiano, si sono sperimentati dispositivi in cui l’assemblea era lo spazio centrale per la parola soggettiva e politica. Lì la questione non era solo come lavorare "bene", ma che senso ha lavorare insieme, per chi e con quale desiderio.


Sindacalismo critico e politica dell’inconscio

Nel sindacalismo critico, specie in settori come quello socio-sanitario e del Terzo Settore, la prassi analitica può alimentare una politica del lavoro che tenga conto della soggettività. Le condizioni materiali (bassi salari, precariato, sfruttamento emotivo) si intrecciano con le condizioni simboliche (silenzio imposto, senso di colpa, identificazione con l’ideale). Portare parola là dove domina il silenzio – questo è anche sindacalismo.

Nel settore socio-sanitario, in particolare, il lavoro è fortemente investito da una dimensione di cura, spesso idealizzata e introiettata come missione salvifica. Questo porta molti operatori e operatrici a vivere in una tensione costante tra dovere e desiderio, tra ruolo e soggettività. Le pratiche analitiche istituzionali permettono di disinnescare l’identificazione totalizzante con l’Altro istituzionale – sia esso il paziente, l’utente o il sistema stesso – restituendo il lavoratore alla sua divisione, al suo desiderio, alla sua possibilità di parola.

Alcune esperienze nei servizi psichiatrici, nei centri diurni per la disabilità o nelle comunità terapeutiche hanno mostrato come l’introduzione di dispositivi analitici (gruppi di parola tra operatori, supervisione ad orientamento lacaniano, assemblee inclusive) possa trasformare il lavoro stesso, spezzare l’isolamento soggettivo e politicizzare il disagio. In questi contesti, il sindacalismo critico non si limita alla rivendicazione salariale, ma diventa anche uno spazio di riflessione collettiva sulla qualità simbolica del lavoro e sul suo senso.


La Borde, Basaglia e oltre

L’esperienza storica della Clinique de La Borde, fondata da Jean Oury, resta un modello di pratica istituzionale radicale. Oury, assieme a Guattari, costruì un’istituzione attraversata dall’inconscio, dove le funzioni erano temporanee, la parola aveva valore, e la follia era considerata una parte dell’umano, non un errore da correggere.

Allo stesso modo, la rivoluzione basagliana in Italia fu un esempio potente di pratica istituzionale critica: chiusura dei manicomi, apertura alla città, centralità dell’assemblea. Lì il soggetto non era più oggetto di trattamento, ma interlocutore politico.

Oggi, esperienze come quelle di alcune realtà militanti del Terzo Settore o gruppi sindacali critici in ambito educativo e sanitario rappresentano i luoghi possibili di una nuova alleanza tra analisi, politica e lavoro. In particolare, nei contesti socio-sanitari, la possibilità di nominare il proprio disagio, di raccontare il transfert istituzionale e di sottrarsi alla dittatura dell’efficienza, può rappresentare già un gesto di rottura e di emancipazione.


Conclusione: un’etica del limite

La prassi analitica istituzionale non fornisce ricette. Rifiuta ogni totalizzazione, ogni ideale del "benessere" imposto. Assume la mancanza come condizione del legame, il limite come luogo della responsabilità. In questo senso, è critica: perché mette in questione le evidenze del discorso dominante. È politica: perché riconosce nel sintomo il nome proprio della contraddizione.


Ecco un esempio concreto, ispirato a situazioni reali, in cui un sindacato critico ha introdotto elementi "analitici" all’interno di un servizio di salute mentale territoriale, con effetti trasformativi:


Caso: Un servizio di salute mentale in crisi (centro diurno – ASL del Nord Italia)


Contesto iniziale:
Un centro diurno psichiatrico mostrava segni di crisi profonda: alto turn-over tra gli operatori, burn-out diffuso, conflitti sommersi tra équipe e direzione, isolamento tra le figure professionali. Lavoro frantumato, eccesso di protocolli, e un discorso dominante orientato al contenimento e all’efficienza avevano annichilito ogni spazio di parola sul senso del lavoro. Gli utenti erano trattati sempre più come “casi” e sempre meno come soggetti.


Intervento sindacale critico:
Una piccola ma combattiva sezione sindacale di base (con educatori e infermieri coinvolti) ha avviato una mobilitazione interna non solo per rivendicazioni economiche, ma proponendo un cambio nel clima istituzionale: ha chiesto l’attivazione di gruppi di parola tra operatori, facilitati da uno psicoanalista ad orientamento lacaniano esterno, finanziati da un fondo per il benessere organizzativo.


Lettura lacaniana dell’intervento:
La lettura lacaniana ha permesso di evidenziare come il discorso istituzionale funzionasse da S1 opprimente, riducendo il soggetto a ingranaggio del funzionamento. Il sintomo (burn-out, ritiro, cinismo, iperattivismo) è stato interpretato non come disfunzione individuale, ma come segno del reale che emerge nel legame istituzionale. I gruppi di parola hanno permesso una disidentificazione parziale dall’ideale professionale totalizzante ("essere l’operatore perfetto") e l’emersione di desideri soggettivi, spesso rimossi.


Effetti concreti:

  • Introduzione di una rotazione orizzontale delle funzioni, ispirata a La Borde.
  • Riattivazione dell’assemblea utenti-operatori, con protagonismo soggettivo degli utenti.
  • Emersione di conflitti tra équipe e direzione, finalmente verbalizzati in spazi condivisi.
  • Diminuzione dell’assenteismo e riduzione dei turni richiesti agli operatori in crisi.
  • Inserimento della pratica di supervisione clinico-istituzionale nel regolamento del servizio.


Conclusione:
In questo caso, la pratica sindacale ha smesso di essere solo “difensiva” e si è fatta trasformatrice, fungendo da leva per una riattivazione simbolica del lavoro. L’operatore, sostenuto nella sua divisione, ha potuto riaprire il rapporto tra desiderio e funzione, tra soggetto e istituzione.


Bibliografia essenziale

Lacan, J. (1975). Il Seminario. Libro 11. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.

Oury, J. (2012). La psichiatria istituzionale. DeriveApprodi.

Mannoni, M. (1973). Il bambino, la scuola e l'inconscio. Armando.

Guattari, F. & Rolnik, S. (2006). Molecole di desiderio. DeriveApprodi.

Tosquelles, F. (2003). Pratica istituzionale e psichiatria. Antigone.

Basaglia, F. (1968). L'istituzione negata. Einaudi.

Castel, R. (1978). La gestione dei rischi. Feltrinelli.

G. Berti & M. Recalcati (a cura di). (2016). Lacan e il sociale. Mimesis.

G. Di Marco (2022). Il lavoro sociale e i suoi dispositivi. Tra istituzione, sintomo e desiderio. FrancoAngeli.

AA.VV. (2020). Psicoanalisi e lavoro sociale. FrancoAngeli.

AA.VV. (2022). Il desiderio nei servizi. Psicoanalisi e Terzo Settore. Edizioni Gruppo Abele.






mercoledì 30 aprile 2025

Lo scontro di civiltà e l’emergere di un’etica della responsabilità condivisa


Abstract

L’articolo esplora la relazione tra le principali civiltà contemporanee, come delineato da Samuel Huntington, e le strutture simboliche che le sostengono, mettendo in dialogo questa analisi con la teoria lacaniana della soggettività e del legame. In particolare, si indaga come, in un mondo multipolare attraversato da crisi e disgregazioni, possa emergere un’etica della responsabilità reciproca. Attraverso il confronto tra civiltà occidentale, islamica, sinica e altri poli culturali, si delinea il tentativo di superare sia la chiusura identitaria che l'universale astratto, aprendo la possibilità di un riconoscimento fondato sulla mancanza condivisa, sulla vulnerabilità e sul desiderio dell’Altro.


1. Introduzione: oltre lo scontro di civiltà

Samuel Huntington, nella sua celebre opera The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order (1996), ha sostenuto che il conflitto del XXI secolo sarebbe stato caratterizzato dal confronto tra diverse "civiltà", ognuna definita da radici culturali e religiose distinte. L'Occidente, l'Islam, la Cina e altre civiltà sarebbero emerse come poli di potere e valori contrapposti. Sebbene la tesi di Huntington abbia suscitato ampie critiche per il suo determinismo e la sua rigidità, il suo concetto di "scontro culturale" è rimasto una chiave di lettura delle dinamiche geopolitiche contemporanee.

Tuttavia, in un mondo sempre più interconnesso, i confini tra le civiltà non sono così netti, e le frizioni culturali si mescolano nei contesti globalizzati, nelle città cosmopolite e nei flussi migratori. La domanda centrale che emerge da questa dinamica è: può esistere una forma di etica condivisa tra civiltà, fondata sul riconoscimento reciproco e sulla responsabilità?


2. Le strutture simboliche delle civiltà: una lettura lacaniana

Lacan, nel suo seminario Il rovescio della psicoanalisi (1969-70), ha indicato che ogni civiltà si fonda su una struttura simbolica che organizza il desiderio e i legami. Le civiltà contemporanee, quindi, non sono solo unità politiche o culturali, ma strutture simboliche che plasmano la soggettività degli individui.

  • L’Occidente post-cristiano, in particolare, ha attraversato un processo di svuotamento simbolico, in cui il "Nome-del-Padre" (la figura autoritaria e simbolica che organizza la vita sociale) ha perso il suo ruolo centrale. Questo ha dato origine a una soggettività che Lacan descrive come il "discorso del capitalista", un ordine simbolico che, come nota Žižek, "è centrato sul godimento senza mancanza", in cui l’individuo è spinto a competere e a consumare in modo perenne, senza mai trovare soddisfazione.

  • Il mondo islamico, al contrario, continua a mantenere un S1 (Significante padrone) solido, rappresentato dalla legge religiosa e dall’autorità spirituale. Tuttavia, questa struttura simbolica è sotto pressione, in particolare con le tensioni tra sunnismo e sciismo, e con il conflitto tra la tradizione religiosa e le sfide della modernità. Lacan, nella sua teoria del S1, ci ricorda che l’ordine simbolico di una civiltà non è mai statico, ma in continua trasformazione.

  • La civiltà sinica, infine, fonda la sua organizzazione simbolica sulla coordinazione armonica dello Stato e della famiglia, come delineato nel pensiero confuciano. Qui, il legame sociale è il risultato di una visione integrata del soggetto all'interno della comunità, e il riconoscimento reciproco è spesso mediato dal rispetto per l'autorità statale.

In queste diverse strutture, il riconoscimento e la responsabilità sono giocati a livelli distinti, ma il loro impatto sulle relazioni tra le civiltà è fondamentale. Come sottolineato da Axel Honneth (1992), il riconoscimento reciproco è alla base di ogni giustizia sociale, e il conflitto tra diverse forme di riconoscimento è una delle chiavi per comprendere le disuguaglianze globali.


3. Il ritorno del soggetto responsabile

Lacan ci insegna che il soggetto non nasce dall’identità, ma dalla mancanza e dalla divisione. Ogni soggetto è costituito dal desiderio di riconoscimento, ma anche dalla sua fragilità. L’etica del riconoscimento non si fonda su un universale astratto, ma sulla responsabilità verso la mancanza dell’altro. Come sostiene Paul Ricoeur (1990) nel suo concetto di "etica della responsabilità", l’essere umano è chiamato a rispondere non solo agli altri, ma anche a ciò che è vulnerabile e irriducibile.

In una situazione globale multipolare, la responsabilità non può più essere solo un atto di individualismo, ma deve riconoscere la relazione interdipendente tra i popoli e le civiltà. Judith Butler (2004) sottolinea che la vulnerabilità è ciò che ci lega come esseri umani, e che ogni forma di giustizia deve essere costruita sulla base di questo riconoscimento della nostra condizione fragile e interconnessa.


4. Verso un’etica inter-civiltà: né relativismo né imposizione

In un mondo plurale, non possiamo accontentarci di un relativismo che nasconda le disuguaglianze, né di un’imposizione universale che neghi le differenze culturali. Come argomentato da Charles Taylor (2007), un’etica inter-civiltà deve essere in grado di riconoscere le diverse strutture simboliche, ma anche di trovare spazi condivisi per il dialogo e il riconoscimento reciproco.

Un’etica della responsabilità non può imporsi dall'alto, ma deve costruirsi attraverso la comunicazione simbolica e il riconoscimento delle differenze. Derrida (1997) ha parlato di "ospitalità" come la modalità fondamentale di relazione con l’altro, dove accogliere l’estraneo senza pretese di dominio è il primo passo per una responsabilità reciproca.


5. Conclusione: un mondo comune da costruire

La crisi dell’Occidente e l’emergere di altre potenze globali non devono essere visti solo come rischi, ma come opportunità di rinnovare la nostra visione del legame sociale. Un’etica della responsabilità reciproca non implica una uniformità culturale, ma una consapevolezza della fragilità condivisa e della necessità di riconoscere l’altro come parte integrante della nostra umanità.

Questo processo, come sostiene Giorgio Agamben (2003), non passa attraverso la conquista del potere, ma attraverso l’abitare le crepe del potere stesso, attraverso pratiche quotidiane di cura, accoglienza e dialogo. È nella responsabilità condivisa che possiamo iniziare a costruire un nuovo spazio comune, fondato non su identità chiuse, ma sul riconoscimento della nostra vulnerabilità collettiva.


Bibliografia

  • Agamben, G. (2003). L’amico.
  • Butler, J. (2004). Precarious Life: The Powers of Mourning and Violence.
  • Derrida, J. (1997). De l’hospitalité.
  • Honneth, A. (1992). Kampf um Anerkennung: Zur moralischen Grammatik sozialer Konflikte.
  • Huntington, S. (1996). The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order.
  • Lacan, J. (1969-70). Il seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi.
  • Ricoeur, P. (1990). Soi-même comme un autre.
  • Taylor, C. (2007). A Secular Age.


martedì 29 aprile 2025

Il soggetto eccedente: Arendt, Lacan e la superfluità dell’umano"

Ritorno all'agora' Hopper



Nel cuore della modernità, dominata dal progresso tecnologico e dalla crescente centralità del capitale, emerge una contraddizione significativa: le capacità tecniche si moltiplicano, ma il riconoscimento della soggettività politica e sociale dell'umano sembra progressivamente indebolirsi. Hannah Arendt e Jacques Lacan offrono strumenti filosofici e psicoanalitici cruciali per comprendere la marginalizzazione della soggettività in un mondo sempre più automatizzato e tecnicizzato. La loro riflessione ci permette di esplorare le radici di questa esclusione e la sua concreta manifestazione nel nostro vivere quotidiano.

Hannah Arendt, nelle sue "Origini del totalitarismo" (1951), individua un fenomeno preoccupante: l'emergere di “esseri umani superflui” che, espulsi dallo spazio pubblico e dal riconoscimento sociale, non sono più in grado di rivendicare i loro diritti. Arendt lega questa condizione alla perdita di un agire autentico, alla scomparsa dell'azione politica in favore di una vita dedita esclusivamente alla gestione e al consumo. In "La vita activa" (1958), la filosofa distingue tra il lavoro, il lavoro manuale, e l’azione, concependo quest'ultima come la pratica della libertà che prende forma nel discorso e nell’interazione pubblica. Con il predominio della logica economico-tecnica, lo spazio per l'azione viene progressivamente ridotto, e la politica diventa amministrazione e gestione.

In parallelo, Lacan ci offre una visione complementare ma distinta del soggetto. Secondo Lacan, il soggetto non è un’entità preesistente, ma emerge come effetto del linguaggio e delle strutture simboliche che lo determinano. In "Écrits" (1966), Lacan introduce il concetto di soggetto barrato, un soggetto intrinsecamente incompleto e sempre in conflitto con l'altro, che non può mai essere ridotto alla sua dimensione biologica o individuale. La crisi del Nome-del-Padre, inteso come figura simbolica della legge e della legge del desiderio, non rappresenta solo la fine dell’autorità patriarcale tradizionale, ma segna una crisi profonda del legame sociale. L’individuo, in un contesto di dominio capitalista e tecnologico, tende a essere ridotto a funzione o macchina, privo di spazio per l’espressione autentica della propria soggettività.

Tuttavia, Lacan ci ricorda che qualcosa di irriducibile sfugge alla logica dell’integrazione e della razionalizzazione: un resto, una eccedenza che non può essere catturata dalla norma sociale o economica. In questo senso, la condizione di "superfluità" di cui parla Arendt non deve essere intesa solo come una condizione subita, ma come un’opportunità per ripensare la politica: l’eccedenza è anche ciò che consente al soggetto di interpellare, di interrompere il dato, di iniziare qualcosa di nuovo. Il soggetto, quindi, non è semplicemente un oggetto passivo della storia, ma porta in sé la possibilità di agire e di rispondere alla realtà in modo creativo.

In sintesi, la superfluità descritta da Arendt non è solo una condizione di passività sociale, ma rappresenta il punto di partenza per una riflessione sul politico come inizio. Come scrive Lacan, è solo nell'incontro con la mancanza che il soggetto può prendere parola, e dunque compiere un atto di soggettivazione. La politica per Arendt è sempre una politica di iniziativa e di azione condivisa, che non teme la pluralità e l’incertezza. Entrambi, Arendt e Lacan, ci invitano a riconoscere che ogni soggetto, pur nelle condizioni più marginali, porta in sé la capacità di rispondere, di trasformare, e di ridefinire la propria posizione nel mondo. 


Bibliografia:

  • Arendt, H. (1951). Le origini del totalitarismo. Einaudi.
  • Arendt, H. (1958). La vita activa: La condizione umana. Einaudi.
  • Kantzas, P. (2011-2025), La Polis senza Antigone e senza Creonte. Seminario permanente. ScienPo Unifi
  • Lacan, J. (1966). Écrits. Seuil.
  • Lacan, J. (1973). Il Seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.


giovedì 10 aprile 2025

Il significante della sovranità. Limite, protezione e ricostruzione simbolica nel post-globalismo


 

Libertà Pop




1. Il Nome-del-Padre e l’ordine liberale

Per gran parte della seconda metà del Novecento, l’ordine mondiale si è retto su un principio simbolico relativamente stabile, che potremmo identificare – in termini lacaniani – con un Nome-del-Padre di matrice liberale: garante della Legge, mediatore tra gli interessi, limite strutturante per il godimento. Questo significante padrone non era solo un’ideologia: era la forma simbolica entro cui si articolavano le promesse del moderno – crescita, libertà, previsione, sicurezza – e le condizioni dell’azione politica e del desiderio collettivo.

Nel linguaggio delle istituzioni: mercato mondiale regolato (GATT, WTO), liberalismo costituzionale, Stato di diritto, mediazione multilaterale, diritti umani come significanti universali. Il Padre liberale non era oppressivo, ma “trascendente” e razionale, e proprio in questa pretesa universalistica trovava la sua forza e, col tempo, il suo limite.

2. L’evaporazione e il godimento senza legge

Tuttavia, come Lacan ci insegna, ogni simbolico è vulnerabile all’evaporazione del Padre. Il discorso del capitalista, che Lacan descrive come una scorciatoia rispetto al circuito simbolico, riduce il soggetto al consumo e dissolve la funzione del limite. Quando il significante della Legge si indebolisce, ciò che resta è un Altro privo di garanzie: non più luogo del riconoscimento, ma fonte di angoscia.

La globalizzazione neoliberale ha infatti minato progressivamente la credibilità del discorso liberale. Le delocalizzazioni produttive, l’indebolimento degli Stati, l’erosione dei salari, la frammentazione sociale, l’indebolimento del legame comunitario hanno generato la percezione di una società senza ordine, in preda a un godimento impersonale e devastante. La crisi del 2008 ha segnato il punto di svolta: il Padre ha perso il suo prestigio simbolico, e il mondo si è popolato di fantasmi.

3. Il ritorno del Padre in forma sovrana

Nel vuoto lasciato dall’evaporazione del significante liberale, è emerso un ritorno del Padre: non più garante della Legge universale, ma figura concreta di protezione, appartenenza e potenza. Trump, Putin, Xi, Erdogan, Modi – ciascuno a modo suo – rappresentano il ritorno di un significante padrone più diretto, meno simbolico e più immaginario: un Padre che protegge, punisce e delimita. Come scrive Panayotis Kantzas, “la sovranità non è un ostacolo al desiderio, ma il suo contenimento simbolico: è il segno di un godimento che non può essere illimitato”.

Questo ritorno sovrano non va interpretato soltanto come regressione autoritaria. Esso è anche risposta simbolica a un’evaporazione, tentativo di reintegrare il limite, ritorno a una spazializzazione del potere. Il protezionismo economico, ad esempio, non è solo una strategia difensiva, ma un progetto costruttivo: rilocalizzare la produzione, ridurre la dipendenza, legare il consumo alla comunità, ricostruire una responsabilità tra territorio e scambio.

Il nuovo significante della sovranità, dunque, non è solo reattivo: è anche costituente. È il tentativo di riterritorializzare le relazioni economiche, simboliche e politiche, ponendo limiti al godimento capitalistico e favorendo l’emersione di nuove forme comunitarie. In questo senso, il sovranismo contemporaneo è ambiguo: può diventare chiusura identitaria e violenza, ma può anche rappresentare la ricerca di una nuova forma di legge dopo la crisi del liberalismo.

4. Dal godimento frammentato alla costruzione del limite

Laddove il discorso del capitalista genera un godimento senza confini – il migrante come minaccia, l’algoritmo come competizione infinita, il consumo come compulsione – la sovranità si pone come struttura di contenimento. Il dazio è il limite economico, ma anche simbolico; il confine, pur problematico, è il luogo dove si delimita il diritto e si rende di nuovo visibile la legge. Il sussidio, la politica industriale, il salario minimo, il welfare nazionale sono strumenti con cui si cerca di rimettere in asse desiderio e limite.

Il sovranismo in questo quadro non è semplice nostalgia, ma una forma (spesso confusa) di richiesta di riconoscimento. È la domanda di un significante stabile che possa tenere insieme comunità e legame simbolico. E solo partendo da questa funzione si può pensare di superarne gli aspetti regressivi: non negando la sovranità, ma articolandola diversamente.

5. Un significante co-operativo.

È solo dopo questo momento di “rifondazione locale” – di riaffermazione del limite e della differenza – che può emergere un Nome-del-Padre cooperativo: capace cioè di costruire un ordine globale non solo per subordinazione, ma per articolazione tra sovranità. Un ordine federativo, non imperiale; plurale, non gerarchico. In altre parole, una nuova funzione simbolica della Legge, non più basata sull’universalismo astratto, ma su un riconoscimento reciproco delle differenze.

L’Europa, in questa prospettiva, può giocare un ruolo decisivo: se rinuncia al suo feticismo procedurale e tecnocratico, e recupera la sua tradizione costituzionale pluralista, può diventare un laboratorio simbolico per un ordine cooperativo post-liberale. Non un impero, ma un legame di sovranità che si riconoscono e si limitano a vicenda.

Conclusione

Il significante della sovranità è oggi una posta in gioco fondamentale. Esso può segnare la deriva verso il godimento identitario e violento, ma anche aprire lo spazio per una nuova simbolizzazione del limite. Il ritorno del Padre non va demonizzato, ma analizzato: è il segno che il mondo ha bisogno di una Legge, non per reprimere, ma per proteggere e costruire.

Solo attraverso il riconoscimento della funzione simbolica della sovranità sarà possibile pensare un ordine post-liberale che non rimuova il limite, ma lo inscriva in una nuova architettura del desiderio, del diritto e del legame sociale.

Bibliografia essenziale

  • Panayotis Kantzas (2011-2025), La polis senza Antigone e senza Creonte. Lezioni fiorentine, Unifi Scienze Politiche. 
  • Jacques Lacan, Il Seminario, Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi, Einaudi.
  • Carl Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi.
  • Nancy Fraser, Capitalismo cannibale, Laterza.
  • Chantal Mouffe, Per un populismo di sinistra, Laterza.
  • Wolfgang Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli.
  • Alain Badiou, Il risveglio della Storia, Ponte alle Grazie.

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sabato 29 marzo 2025

Il Ritorno del Nome-del-Padre: Sovranismo, Big Tech e Post-Democrazia nella Crisi della Globalizzazione Neoliberale





Introduzione

Panayotis Kantzas, nelle sue Lezioni Fiorentine (2020), sviluppa un'analisi della crisi contemporanea, evidenziando come il crollo del significante padrone (S1) nel mondo occidentale abbia lasciato un vuoto simbolico che oggi viene riempito da nuove forme di sovranismo, populismo e identitarismo. Questi fenomeni emergono come tentativi di ri-territorializzazione di fronte alla dissoluzione delle strutture politiche e sociali tradizionali sotto l’impatto della globalizzazione neoliberista. Tuttavia, Kantzas sottolinea che questo ritorno del Nome-del-Padre avviene in forme mutate, spesso adattandosi alle nuove condizioni economiche e tecnologiche imposte dal capitalismo digitale.

Il Declino del Nome-del-Padre e la Crisi Occidentale

Lacan (1966) ha individuato nel Nome-del-Padre l'elemento regolatore del campo simbolico e del legame sociale. La sua progressiva dissoluzione ha lasciato spazio a un disordine generalizzato, simile a quello descritto da Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista (1848), in cui il capitalismo dissolve ogni legame preesistente. Kantzas (2020) legge questa dinamica in relazione alla crisi della sovranità, sottolineando come l’indebolimento delle istituzioni nazionali abbia favorito una nuova domanda di ordine, spesso declinata in forme reazionarie.

La crisi dell'Occidente si manifesta nella perdita di riferimenti simbolici unificanti, con conseguenze politiche e sociali di ampia portata. L'erosione della sovranità nazionale e l'affermazione di un'economia globalizzata hanno esacerbato il senso di smarrimento collettivo, portando a una ricerca di nuovi significati. Il populismo e il sovranismo si inseriscono in questa dinamica, proponendo un ritorno a strutture di identificazione forti che possano colmare il vuoto lasciato dalla dissoluzione dell'ordine simbolico tradizionale.

Sovranismo e Identitarismo come Nuove Forme del Nome-del-Padre

Il sovranismo si presenta come un tentativo di ripristinare un principio unificante in un mondo che ha perso i suoi riferimenti tradizionali. Questo processo si intreccia con l’identitarismo, che cerca di rafforzare appartenenze collettive in risposta alla frammentazione sociale. Crouch (2004) ha descritto il fenomeno della post-democrazia come una condizione in cui le strutture democratiche esistono formalmente, ma il potere reale è sempre più concentrato nelle mani di élite economiche e tecnologiche.

Il fenomeno del sovranismo non è solo una risposta alla crisi economica, ma anche un effetto della trasformazione del discorso politico. Trump e altri leader populisti hanno capitalizzato sulla crisi del liberalismo globale, promettendo un ritorno a un ordine più stabile, spesso attraverso la retorica della "grandezza nazionale". Kantzas (2020) osserva che questo processo può essere interpretato come un tentativo di ristabilire il Nome-del-Padre in una forma che, sebbene apparentemente restauratrice, è in realtà profondamente mutata e adattata al nuovo contesto mediatico e tecnologico.

Big Tech e la Logica del Capitalismo Digitale

Le grandi multinazionali tecnologiche incarnano la logica dello sviluppo capitalistico nell’era digitale. Negri e Hardt (2000) hanno evidenziato come il capitalismo contemporaneo si basi su una forma di biopolitica che supera i confini degli stati-nazione. Musk, con le sue visioni transumaniste e di colonizzazione spaziale, e Trump, con il suo populismo digitale, rappresentano due lati della stessa medaglia: il tentativo di ridefinire un nuovo ordine globale attraverso strumenti tecnologici e politiche sovraniste.

La logica dello sviluppo capitalistico ha prodotto un'espansione senza precedenti delle Big Tech, che oggi esercitano un controllo senza precedenti sulle economie globali e sulle dinamiche politiche. Il modello economico delle piattaforme digitali ha trasformato il mercato del lavoro, creando una nuova forma di subordinazione basata su algoritmi e intelligenza artificiale. Kantzas (2020) osserva che le Big Tech stanno assumendo un ruolo sempre più simile a quello delle istituzioni tradizionali, ridefinendo il concetto stesso di sovranità economica e politica.

Automazione, Reddito di Cittadinanza e la Sfida della Nuova Politica Democratica

L’automazione, accelerata dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale, pone interrogativi fondamentali sulla redistribuzione del reddito e sulla sostenibilità dell’attuale modello economico. Harari (2018) e Mazzucato (2018) hanno discusso la necessità di un nuovo contratto sociale basato su misure come il reddito di cittadinanza. Kantzas (2020) suggerisce che l’unica via per evitare un ritorno autoritario del Nome-del-Padre sia una politica democratica capace di integrare le trasformazioni tecnologiche in una logica di cooperazione internazionale.

L’emergere di nuove forme di lavoro e la crescente automazione rendono necessario un ripensamento del sistema di welfare. La politica democratica occidentale deve affrontare la sfida di bilanciare l’innovazione con la protezione sociale, evitando che la disoccupazione tecnologica alimenti ulteriormente il malcontento populista. Il reddito di cittadinanza potrebbe rappresentare una soluzione parziale, ma deve essere accompagnato da una politica di redistribuzione economica più ampia e da una regolamentazione efficace delle Big Tech.

Conclusione

Il mondo multipolare che emerge dalla crisi della globalizzazione neoliberista impone un ripensamento delle strutture politiche e sociali. Se il sovranismo e l’identitarismo rappresentano risposte reazionarie alla crisi del significante padrone, la sfida della politica democratica occidentale consiste nel risignificare le radici culturali dell’Occidente in un’ottica di coordinazione piuttosto che di subordinazione. Come suggerisce Kantzas (2020), la vera alternativa è costruire un nuovo ordine simbolico capace di integrare innovazione tecnologica e giustizia sociale.


Bibliografia

  1. Badiou, A. (2005). La scienza e la verità. Milano: Feltrinelli.
  2. Crouch, C. (2004). Post-Democracy. Cambridge: Polity Press.
  3. Foucault, M. (1976). La volontà di sapere. Torino: Einaudi.
  4. Harari, Y. N. (2018). 21 Lessons for the 21st Century. New York: Spiegel & Grau.
  5. Kantzas, P. (2011-2025). La polis senza Antigone e senza Creonte: Lezioni FiorentineUnifi Facoltà di Scienze Politiche.
  6. Lacan, J. (1966). Écrits: A Selection. Trad. Alan Sheridan. New York: Norton & Company.
  7. Marx, K., & Engels, F. (1848). Manifesto del Partito Comunista.
  8. Mazzucato, M. (2018). The Value of Everything: Making and Taking in the Global Economy. London: Penguin.
  9. Negri, A., & Hardt, M. (2000). Empire. Cambridge, MA: Harvard University Press.
  10. Zizek, S. (2012). The Year of Dreaming Dangerously. London: Verso.


venerdì 14 marzo 2025

Difesa Militare: una Lettura Critica

 

Difesa Militare: una Lettura Critica


La guerra come crisi dell’ordine simbolico

La guerra è il punto di rottura di un ordine simbolico. Quando il significante padrone (S1) che regge un sistema politico, sociale o economico entra in crisi, emergono spinte distruttive che non trovano più una regolazione adeguata. Il conflitto armato non è solo una questione di interessi materiali o di strategie geopolitiche, ma esprime un problema più profondo: l’incapacità di integrare la differenza dell’Altro in un quadro simbolico condiviso. La guerra appare così come il tentativo di risolvere con la violenza ciò che il linguaggio e la politica non riescono più a gestire.

La difesa e la sua ambiguità

In questo contesto, la difesa militare viene spesso giustificata come una necessità inevitabile: ogni Stato ha il diritto di proteggere i propri cittadini e il proprio territorio da minacce esterne. Tuttavia, questa logica presenta un’ambiguità strutturale. La difesa non è mai un concetto neutrale: ciò che uno Stato percepisce come difesa può essere vissuto dall’Altro come una minaccia. La storia è piena di guerre che si sono presentate come “difensive” pur essendo mosse da logiche espansionistiche o da tentativi di consolidare il potere interno. La difesa, dunque, non è solo un fatto militare, ma è sempre una questione politica e simbolica.

Un esempio emblematico è quello della NATO. Nata come alleanza difensiva, ha progressivamente assunto un ruolo di intervento attivo, generando la percezione, in alcuni contesti, di essere essa stessa una minaccia. La Russia ha giustificato la guerra in Ucraina come una risposta alla minaccia rappresentata dall’espansione della NATO, mostrando come il confine tra difesa e aggressione sia spesso una costruzione narrativa. Questo non significa legittimare le guerre di aggressione, ma evidenziare come il discorso sulla sicurezza sia sempre inscritto in una logica politica che determina chi è il nemico e chi è l’alleato.

La guerra e il godimento dell’Altro

La guerra non è solo uno scontro tra eserciti, ma coinvolge anche una dimensione di godimento. Lacan mostra come il rapporto con il godimento dell’Altro sia un elemento centrale nei conflitti: l’Altro è spesso vissuto come un soggetto che gode in un modo inaccessibile o minaccioso. La guerra diventa così il tentativo di eliminare questo godimento percepito come intollerabile.

Pensiamo ai conflitti etnici o religiosi, dove l’identità dell’Altro non è solo diversa, ma viene vista come qualcosa di insopportabile, che deve essere eliminato per ristabilire un ordine simbolico accettabile. La difesa, in questo caso, non è più solo protezione, ma diventa una giustificazione per la distruzione dell’Altro. La Germania nazista, ad esempio, giustificò la sua espansione come una difesa della nazione tedesca minacciata dal bolscevismo e dalla “degenerazione” culturale. Analogamente, molte guerre contemporanee vengono presentate come operazioni per la sicurezza nazionale, mentre in realtà mirano a ridefinire i rapporti di forza globali.

Il rischio della guerra permanente

Se la difesa non vuole diventare un pretesto per la guerra, deve essere pensata in modo diverso. Il modello della deterrenza, basato sulla minaccia di ritorsione, crea un equilibrio instabile: ogni aumento di sicurezza per uno Stato può essere visto come una minaccia dagli altri, generando una spirale di riarmo. Questo è il rischio della politica internazionale contemporanea: il moltiplicarsi delle alleanze militari, delle basi strategiche e delle armi avanzate non elimina il rischio di guerra, ma lo rende più probabile.

Un altro elemento chiave della guerra contemporanea è il ruolo della tecnologia. La guerra moderna tende a ridurre il coinvolgimento diretto del combattente: droni, missili teleguidati e cyber-guerra creano un conflitto in cui la distruzione è sempre più disincarnata. Questo produce una paradossale combinazione tra ipertecnologia e pulsione di morte: si uccide a distanza, senza vedere l’Altro morire, e allo stesso tempo si alimenta una guerra che non ha più confini chiari. L’uccisione diventa un algoritmo, ma il godimento della distruzione resta, anche se rimosso sotto la forma di necessità tecnica.

La guerra come ritorno del rimosso

Freud, in "Perché la guerra?", scriveva a Einstein che il conflitto è il sintomo dell'impossibilità di eliminare la pulsione di morte. Lacan riprende questa idea, mostrando come la guerra sia il ritorno di un reale che il simbolico non riesce più a contenere. Quando un ordine sociale entra in crisi, la guerra si presenta come un tentativo di ristabilire un nuovo significante padrone attraverso la distruzione. In questo senso, ogni guerra è anche una lotta per la ridefinizione del potere simbolico: chi ha il diritto di nominare il mondo? Chi impone il discorso dominante?

Ripensare la difesa: sicurezza e ordine simbolico

Da questa prospettiva, la difesa non può essere pensata solo in termini militari. Se il problema della guerra è una crisi del simbolico, allora la vera sicurezza non si costruisce solo con le armi, ma con la capacità di creare un ordine che renda possibile la coesistenza senza che il conflitto degeneri in violenza. La difesa deve essere accompagnata da una politica di riconoscimento dell’Altro, capace di costruire spazi simbolici in cui le differenze possano essere articolate senza diventare una minaccia assoluta.

Il problema è che il discorso del padrone tende a imporsi attraverso la logica amico/nemico. La difesa diventa così un modo per giustificare il dominio, e la sicurezza si trasforma in una guerra preventiva permanente. Questo è il rischio del mondo contemporaneo: la guerra non è più un evento eccezionale, ma uno stato di tensione continuo, una logica diffusa che permea il discorso politico, i media e le relazioni internazionali.

Conclusione

Una riflessione critica sulla guerra e sulla difesa deve andare oltre la semplice logica della forza. La sicurezza non è solo questione di deterrenza o di capacità militare, ma dipende dalla possibilità di costruire un ordine simbolico che non si basi esclusivamente sulla minaccia dell’Altro. La difesa deve esistere, ma non può diventare il criterio assoluto che governa i rapporti internazionali. Se la guerra è il ritorno del rimosso, la vera sfida è trovare un modo per integrare il conflitto nella struttura simbolica senza che esso esploda nella distruzione.

Solo così si potrà pensare una difesa che protegga senza alimentare nuove guerre, e una politica che non si riduca a un eterno confronto con il nemico.


Bibliografia

Freud, S. (1932). Perché la guerra? Lettera a Einstein. In Opere Complete, Vol. X. Boringhieri.

Freud esplora la pulsione di morte e il carattere inevitabile del conflitto nella psiche umana.

Lacan, J. (1966). Scritti. Einaudi.

In particolare, il concetto di significante padrone (S1) e il godimento dell’Altro sono utili per comprendere la logica simbolica della guerra.

Schmitt, C. (1932). Il concetto di politico. Adelphi.

Analizza la logica della distinzione amico/nemico come fondamento della politica e della guerra.

Arendt, H. (1969). Sulla violenza. Guanda.

Discute la differenza tra violenza e potere, mostrando come la guerra emerga quando il potere politico fallisce.

Foucault, M. (1976). Bisogna difendere la società. Feltrinelli.

Analizza la guerra come un proseguimento della politica attraverso altri mezzi, ribaltando la famosa formula di Clausewitz.

Clausewitz, C. von (1832). Della guerra. Mondadori.

Classico della teoria militare, introduce il concetto di guerra come strumento della politica.

Mbembe, A. (2016). Necropolitica. Ombre Corte.

Approfondisce il modo in cui gli Stati decidono chi può vivere e chi deve morire, legando la guerra alle dinamiche del potere contemporaneo.

Butler, J. (2009). Frames of War: When is Life Grievable? Verso Books.

Analizza il modo in cui la guerra costruisce il nemico attraverso narrazioni che disumanizzano l’Altro.







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Fare un’ analisi secondo Jacques Lacan non è semplicemente parlare dei propri problemi. È un’esperienza trasformativa, in cui il soggetto ...