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giovedì 10 luglio 2025

🌍 Crisi globale: economia, guerra e godimento. Lettura della disgregazione contemporanea


1. Crisi multipla: economia, desiderio, governance

  • Per Marx, la crisi è interna al capitale stesso, che produce contraddizioni tra valore d’uso e accumulazione di plusvalore.
  • Per Keynes, la crisi è fallimento del coordinamento tra investimento, consumo e aspettative: quando nessun attore prende l’iniziativa, il sistema collassa.
  • Per Lacan, il discorso capitalista produce un godimento senza mancanza, dove l’Altro simbolico è espulso e il soggetto funziona come ingranaggio.

Insieme, questi tre sguardi ci mostrano un mondo in cui:

  • il capitale cerca solo accumulazione,
  • lo Stato ha rinunciato a ogni funzione anticiclica e coordinativa,
  • il soggetto è sottomesso al godimento cieco.


2. La guerra come manifestazione catastrofica delle contraddizioni

Le guerre in Ucraina e Gaza non sono solo eventi politici o geopolitici: sono la manifestazione catastrofica delle contraddizioni sistemiche.

  • Per Marx, la guerra è spesso una "valvola di sfogo" per il capitale in crisi, un modo per distruggere capitale e forza lavoro in eccesso, e rilanciare cicli di accumulazione.
  • Per Keynes, la guerra esplode quando fallisce il coordinamento economico tra Stati, e l’investimento pubblico viene sostituito dalla corsa agli armamenti e dalla logica del panico.
  • Per Lacan, la guerra rappresenta il ritorno del reale in forma cruda: quando la parola viene espulsa, resta solo il godimento dell’annientamento.

L’assenza di un Altro simbolico condiviso – sia esso la diplomazia, il diritto internazionale, o la cooperazione economica – lascia spazio a identità paranoiche, fantasie di purezza, potere senza legittimità.

Le guerre contemporanee sono dunque il luogo in cui convergono:

  • la crisi della rappresentanza,
  • la crisi del capitale,
  • la crisi del senso.

Sono, a tutti gli effetti, il punto di rottura del legame globale.


3. Disordine geopolitico: dal mercato mondiale a zone di godimento

Keynes sognava un mondo coordinato attraverso istituzioni multilaterali (FMI, Banca Mondiale) e bilanciamenti commerciali (Bretton Woods). Oggi, invece, assistiamo a:

Zona Logica dominante Sintomo
USA Politica monetaria + dazi Ritorno al protezionismo competitivo
Cina Investimento statale strategico Capitalismo guidato ma opaco
UE Austerità e paralisi Frammentazione interna
Russia Comando verticale Guerra come strumento di coesione
Israele Ethno-capitalismo militarizzato Guerra permanente
Sud globale Dipendenza e shock esterni Reazioni a catena di instabilità

Marx direbbe: è la crisi terminale del mercato mondiale. Keynes: è la rottura della fiducia sistemica. Lacan: è il godimento che rifiuta l’Altro.


4. Il fallimento dell’intervento pubblico

Un punto decisivo in ottica keynesiana è che gli Stati, dopo la crisi del 2008, hanno:

  • salvato le banche, ma non riformato i meccanismi del profitto;
  • stampato moneta, ma non investito in infrastrutture o redistribuzione;
  • alimentato la speculazione, ma non riattivato la domanda interna in modo duraturo.

Ciò ha alimentato:

  • l’accumulazione di debito pubblico senza contropartita produttiva,
  • il ritorno delle élite finanziarie come nuovi padroni,
  • l’inflazione come conflitto redistributivo irrisolto.

In ottica lacaniana, lo Stato non è più garante dell’Altro, ma funziona come S1 amministrativo, gestore di algoritmi, incapace di produrre legame.


5. Antigone e il rifiuto del “funzionamento senza soggetto”

In un mondo in cui:

  • il capitalismo si auto-riproduce senza limiti,
  • il discorso sociale è strutturato sull'eccitazione e sul controllo,
  • lo Stato abdica alla sua funzione regolativa,

Antigone diventa figura politica fondamentale: non è nostalgia dell’ordine, ma testimonianza di un’etica del limite.

In termini keynesiani:

  • serve una nuova volontà collettiva che rompa l’equilibrio perverso tra rendita e miseria, tra algoritmo e guerra.

In termini lacaniani:

  • serve una riapertura del desiderio, che rimetta la mancanza al centro del legame.


Conclusione: senza mancanza, senza progetto

Per Marx, la crisi viene dal profitto cieco. Per Keynes, dal fallimento della fiducia e dell’intervento pubblico. Per Lacan, dalla cancellazione della mancanza e dell’Altro.

Oggi, le tre crisi coincidono:

  • crisi economica (disuguaglianze, inflazione, debito),
  • crisi politica (guerre, nazionalismi, ritorno del comando),
  • crisi simbolica (assenza di desiderio, saturazione del godimento).

In assenza di soggetti che manchino, progettino, coordinino e parlino, il mondo si disgrega tra comando militare e funzionamento algoritmico.

La posta in gioco non è solo il PIL, ma la possibilità stessa del legame umano e politico.


📚 Bibliografia essenziale

  • Karl Marx, Il Capitale, vol. I-III
  • John M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, 1936
  • Jacques Lacan, Il seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi, 1969-70
  • Wolfgang Streeck, Tempo guadagnato, 2013
  • Nancy Fraser, Capitalismo cannibale, 2022
  • Alain Badiou, La vera vita, 2016
  • Slavoj Žižek, Il coraggio della disperazione, 2017
  • Christian Marazzi, Capitale e Linguaggio 


mercoledì 9 luglio 2025

Leader e Formazioni Politiche


Introduzione

La relazione tra leader e massa è un nodo centrale per comprendere le dinamiche politiche contemporanee. Fin da Freud (Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 1921), la psicoanalisi ha messo in luce come il leader operi come figura d’identificazione primaria, capace di organizzare il desiderio e canalizzare l’investimento libidico collettivo.

Con Lacan, e in particolare con la teoria dei quattro discorsi (Il rovescio della psicoanalisi, 1969-70), il leader appare non tanto come individuo carismatico, ma come funzione simbolica, un punto di sutura che tiene insieme un legame sociale. Ogni tipo di leadership si può così leggere in relazione a una struttura psichica, a un discorso dominante, e a una particolare modalità con cui la massa si organizza attorno a essa.


Tipi di Leadership, Strutture Psichiche e Legame Sociale

Tipo di leadership Struttura psichica del leader Discorso dominante Struttura della massa Esempi
Perversa Perversa Discorso del Padrone Complicità feticistica, godimento trasgressivo Hitler, Mussolini, Trump, tratti in Putin
Paranoide Paranoide Padrone / Universitario Identificazione persecutoria, coesione nell’odio Stalin, Netanyahu (in parte), Putin
Isterica Isterica Discorso dell’Isterica Idealizzazione, domanda etica incessante Zelensky, Greta Thunberg, leader progressisti UE
Ossessiva Ossessiva Universitario / Padrone Adesione razionale, controllo difensivo De Gaulle, Cavour, Draghi
Generativa Simbolicamente situata Padrone pluralizzato / Analista Simbolizzazione condivisa, cooperazione orizzontale Gandhi, M.L. King, Allende, Spinelli, Delors
Analitica Funzione di causa (liminare) Discorso dell’Analista Soggettivazione, apertura del desiderio Leader decentrati, assemblearismo radicale


Leader perversi: la legge come godimento

Le leadership perverse, come quelle di Hitler e Mussolini, si fondano su un godimento autoritario: la Legge non è simbolica ma volontà personale del leader. Le masse non vi si oppongono, ma vi aderiscono in modo feticistico, trovando godimento nell’obbedienza e nella sottomissione. Il leader perverso si offre come oggetto causa del godimento collettivo, convertendo il desiderio in fedeltà cieca.

Donald Trump rappresenta una versione postmoderna di questa struttura: la sua leadership non si fonda su coerenza o verità, ma sulla capacità di mobilitare un godimento trasgressivo, fondato sulla rottura con il politicamente corretto, sull’oscenità comunicativa e sull’identificazione narcisistica. Trump non governa: seduce, provoca, incarna il desiderio del "dire ciò che nessuno osa dire". La sua parola è feticcio, non messaggio.

Nelle masse che lo seguono si attiva un godimento condiviso: il piacere di vedere infranta la Legge simbolica delle élite, delle istituzioni, della civiltà liberale. Il suo potere non si basa sulla verità ma sulla performatività: è vero perché è stato detto da lui.


Leader paranoidi: il nemico come collante

La leadership paranoide costruisce il legame sociale attorno a una minaccia: il Nemico è l’elemento coesivo. Il leader paranoide – come Stalin, o in parte Netanyahu – organizza la massa in funzione difensiva, trasformando l’angoscia in identificazione persecutoria.

Putin fonde questa modalità con elementi perversi: da un lato costruisce un’identità nazionale attraverso la minaccia esterna (NATO, Occidente, dissidenti), dall’altro si pone come figura intoccabile, che incarna la Legge come potere assoluto. La sua leadership è fredda, autoritaria, impermeabile alla domanda.


Leader isterici e ossessivi: la domanda e la norma

Il leader isterico, come Zelensky o Greta Thunberg, si rivolge all’Altro con una domanda etica incessante: perché questo mondo è così ingiusto? Non propone risposte, ma attiva movimenti, sollecita, inquieta. Questo stile può mobilitare grandi energie, ma tende anche all’instabilità, perché non si fonda su una simbolizzazione forte ma su una tensione.

Il leader ossessivo, al contrario, cerca ordine e coerenza. Agisce a partire da un principio normativo o tecnico. È il caso di De Gaulle, Cavour, e – in forma tecnocratica – di Mario Draghi, che incarna una leadership razionale, controllata, difensiva. La massa si identifica con la solidità, con la promessa di un sapere esperto, spesso depoliticizzato.


Leader generativi e analitici: simbolo e desiderio

La leadership generativa produce simbolizzazione. Non impone, ma orienta. Leader come Gandhi, Martin Luther King o Salvador Allende non si pongono come padroni, ma come figure situate simbolicamente, capaci di dare forma al desiderio collettivo. In Europa, solo parzialmente alcune figure come Altiero Spinelli o Jacques Delors hanno incarnato questo stile, promuovendo un’Europa come progetto etico e politico condiviso.

La leadership analitica, infine, è rara. Non si presenta come guida, ma come funzione che causa desiderio. Il leader analitico non occupa il posto del sapere né quello del godimento, ma apre lo spazio della parola, della soggettivazione. Alcune esperienze assembleari, movimenti orizzontali, forme di militanza senza leader, possono essere lette in questa prospettiva.


Leadership europea: crisi simbolica e ricerca di senso

La leadership europea attuale si presenta come frammentata, oscillante, spesso simbolicamente povera. Alcuni leader (Draghi, Scholz) adottano un tono ossessivo-tecnocratico; altri (Macron) oscillano tra isteria e decisionismo padronale. Le forze progressiste, quando esistono, parlano con registro isterico, ma faticano a proporre un significante unificante.

In questo contesto, l’Europa appare più come apparato amministrativo che come luogo desiderabile. Manca una leadership generativa, capace di parlare al desiderio e non solo al bisogno. Manca un significante condiviso che nomini il legame. Dove non c’è simbolizzazione, il potere torna a oscillare tra burocrazia e populismo.


Conclusione: verso una nuova funzione del leader?

In un’epoca segnata dalla crisi della rappresentanza, dal ritorno del godimento autoritario e dalla scomposizione del legame sociale, ripensare la funzione del leader significa interrogare ciò che tiene insieme una collettività.

Non si tratta di scegliere tra carisma o competenza, ma di interrogare il luogo simbolico del leader: è ancora possibile una leadership che non catturi il desiderio, ma lo orienti senza dominarlo? È possibile passare dalla fascinazione all’etica, dalla padronanza alla responsabilità?

La psicoanalisi ci offre una bussola per leggere il presente. Ma il futuro resta aperto.


Bibliografia essenziale

  • Freud, S. (1921). Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Opere, vol. XI.
  • Lacan, J. (1969-70). Il rovescio della psicoanalisi. Seminario XVII.
  • Recalcati, M. (2007). L’uomo senza inconscio. Raffaello Cortina.
  • Lazzarato, M. (2012). La fabbrica dell’uomo indebitato. DeriveApprodi.
  • Žižek, S. (2006). La soggettivazione politica. Meltemi.


sabato 28 giugno 2025

Vasco Rossi: una voce che dà corpo al sintomo contemporaneo

                              
Vasco's concert

"Eh già, sembrava la fine del mondo / ma sono ancora qua."
(Eh… già, 2011)

Vasco Rossi è molto più di un’icona musicale: è un fenomeno sociale che attraversa decenni di trasformazioni culturali, dando voce a un malessere che spesso resta inespresso. Non è un profeta né un guaritore. Non offre risposte, ma restituisce parola – e soprattutto corpo – a ciò che nella soggettività contemporanea resta senza nome: la confusione, la voglia, il desiderio che non sa dove andare.

La sua voce roca, imperfetta, imperniata di eccessi e fragilità, non è un “difetto stilistico” ma una forma di oggetto pulsionale, qualcosa che si inscrive direttamente sul corpo di chi ascolta. In termini lacaniani, potremmo dire che Vasco è oggetto voce, ovvero un frammento di godimento che tocca l’inconscio più che la comprensione razionale.


Il cantante che non guida ma accompagna

"Voglio una vita esagerata / piena di guai."
(Vita spericolata, 1983)

Fin dall’inizio Vasco ha preso le distanze dai modelli normativi – morali, religiosi, educativi – della tradizione italiana. Non ha cercato di proporre un nuovo ordine simbolico, ma ha mostrato la possibilità di restare accanto al vuoto, senza cedere alla disperazione né alla restaurazione di autorità fittizie.

In questo, la sua figura rappresenta non tanto un’alternativa quanto un’esposizione sincera. Egli non indica la via, ma testimonia che si può stare nella mancanza. Ed è proprio per questo che risuona con la condizione esistenziale di molti.


Il sintomo che tiene insieme

"C’è chi dice no, io non mi muovo."
(C’è chi dice no, 1987)

In psicoanalisi, il sintomo non è semplicemente un disturbo da eliminare. È una soluzione soggettiva al disagio, un modo – spesso paradossale – con cui il soggetto tenta di tenersi insieme. Le canzoni di Vasco non “curano”, ma mettono in scena il sintomo, e così lo rendono condivisibile, legabile, non più isolato.

L’identificazione che molti stabiliscono con lui – spesso potente, viscerale – può essere letta in termini di identificazione immaginaria: ci si riconosce in ciò che lui mostra, ci si sente rappresentati. Questo non è necessariamente un ostacolo. Può essere, al contrario, una prima forma di legame, una soglia di accesso al proprio sentire.


Il rispetto dell’alterità

Un aspetto meno evidente ma importante del repertorio di Vasco riguarda le figure femminili, che raramente sono stereotipate o ridotte a oggetti del desiderio. In brani come Albachiara o Sally, l’altro è lasciato nel suo enigma. Non viene posseduto, decifrato o conquistato, ma riconosciuto nella sua irriducibilità.

Questo atteggiamento, raro nel panorama musicale, apre uno spazio etico. Un rispetto della differenza che, pur nel linguaggio semplice della canzone, parla un linguaggio simbolico alto.


Il concerto come rito contemporaneo

"La gente non ha bisogno di spiegazioni, ha bisogno di sentire che non è sola."
(Intervista a Rolling Stone, 2018)

Nel contesto sociale odierno, dove prevale la disgregazione dei legami e il ritiro individuale, i concerti di Vasco rappresentano un raro spazio di risonanza collettiva. Il concerto non è solo intrattenimento: è rito, è legame, è esperienza del corpo in mezzo ad altri corpi che vibrano allo stesso ritmo.

In questi momenti, la confusione si trasforma in appartenenza, anche solo per qualche ora. E forse è in questo che si genera un senso.


Una figura-sintomo nel tempo del vuoto simbolico

In conclusione, Vasco Rossi rappresenta una figura-sintomo nel tempo del vuoto simbolico.
Non è guida spirituale, non è ideologo. È qualcuno che dà corpo a una forma di godimento imperfetta, sincera, esposta, con cui tanti possono entrare in risonanza.

Come ogni sintomo, non guarisce, ma tiene insieme. E nel suo modo di stare sul palco – fragile, ironico, ostinato – incarna qualcosa del soggetto contemporaneo: non risolto, ma vivo.

E questo, forse, è già molto.



giovedì 12 giugno 2025

Cambiare il mondo senza prendere il potere: Zapatismo, desiderio e soggettivazione politica in chiave psicoanalitica

Cambiare il mondo senza prendere il potere. Zapatismo, desiderio e soggettivazione politica in chiave psicoanalitica


Introduzione

Il movimento zapatista, emerso nel 1994 nel Chiapas, ha rappresentato una rottura simbolica e politica con i paradigmi rivoluzionari tradizionali. Il suo rifiuto esplicito di "prendere il potere" e la pratica del "comandare obbedendo" offrono un'occasione unica per una lettura psicoanalitica della soggettivazione politica, del desiderio collettivo e della funzione dell'Altro. Questa lettura, ispirata alla teoria lacaniana, permette di comprendere il carattere rivoluzionario dello zapatismo non come presa del potere statuale, ma come trasformazione del legame sociale. Tuttavia, questa proposta etico-politica, pur profondamente innovativa, presenta limiti rilevanti quando confrontata con le sfide materiali e simboliche della contemporaneità.


1. Il soggetto politico tra mancanza e desiderio

In psicoanalisi il soggetto non è un'entità compatta ma divisa ($), costitutivamente mancante. Il desiderio non nasce da un bisogno, ma dall'incontro con l'Altro e dal fallimento di ogni soddisfazione piena. Lo zapatismo, nel rifiuto della conquista del potere centrale, sembra assumere questo carattere strutturalmente mancante del desiderio rivoluzionario, spostandolo dal piano del potere sull'altro al piano dell'apertura all'altro. "Camminare domandando" è una forma politica del desiderio: non voler colmare la mancanza con un potere, ma farne il motore del processo collettivo. Tuttavia, come nota Zizek, il rischio di una politica del desiderio priva di mediazione istituzionale è quello di cadere in una forma di impotenza sublimata, dove il desiderio stesso viene feticizzato a scapito dell'efficacia storica.


2. Il potere come significante padrone (S1)

Lacan individua nel significante padrone (S1) il fondamento simbolico del discorso del potere. Le rivoluzioni moderne hanno spesso sostituito un S1 con un altro (il re con il popolo, il capitale con il partito), senza modificare la struttura stessa del discorso. Lo zapatismo, al contrario, rifiuta di incarnare un nuovo S1. La sua struttura politica orizzontale, la pluralità dei soggetti e delle parole, il rifiuto della centralizzazione sono tutti tentativi di evitare la riemersione del discorso del padrone. Tuttavia, Laclau ha evidenziato che ogni articolazione politica richiede un momento di condensazione simbolica, un significante vuoto capace di unificare le domande eterogenee. Il rifiuto dello S1, se radicale, rischia di impedire la costruzione di un'egemonia contro-egemonica.


3. Comandare obbedendo: sovversione dell'Altro

"Comandare obbedendo" è una formula che disinnesca la verticalità del comando. Il capo non è l'Uno che sa, ma colui che risponde. L'autorità è ridotta a funzione simbolica, temporanea, legata al riconoscimento della comunità. Qui il soggetto politico non è rappresentato, ma articolato: si apre uno spazio di enunciazione dove l'autorità diventa funzione dell'ascolto. Questo può essere paragonato al discorso dell'analista, dove il sapere non è imposto ma evocato, emergente. Tuttavia, Badiou ha criticato le forme di democrazia radicale che rinunciano a ogni forma di decisione sovrana, vedendo in esse un rischio di dispersione: senza un Evento che imponga un nuovo ordine simbolico, il rischio è che la politica si dissolva nel sociale.


4. Il noi che include il diverso: identità molteplice

Lo zapatismo parla di un "noi" che non si chiude nell'identità ma che include la differenza. Il "nosotros" zapatista è il luogo simbolico dove il soggetto può esistere senza essere ridotto all'identico. È una politica del soggetto diviso, in cui il legame non è dato dalla somiglianza, ma dall'apertura all'inassimilabile. In termini psicoanalitici, si tratta di un "noi" che assume la castrazione simbolica e non cerca di riempirla con un Uno totalizzante. Pavón-Cuéllar, nella sua lettura critica della psicoanalisi latinoamericana, sottolinea l'importanza di non proiettare su questi "noi" locali un'immagine idealizzata o mitica del soggetto rivoluzionario: il rischio è quello di riprodurre inconsciamente una funzione dell'Altro coloniale, anche se apparentemente decostruita.


5. Il tempo dell'attesa e la soggettivazione come processo

Lo zapatismo non ha fretta di vincere. Rifiuta le logiche dell'accelerazione rivoluzionaria. Il tempo è il tempo dell'altro, del processo, della trasformazione soggettiva. Come in analisi, dove il tempo logico non coincide con il tempo cronologico, anche la rivoluzione zapatista procede per atti simbolici, interruzioni, retroazioni, elaborazioni collettive. Non c'è un fine, ma una direzione: quella dell'emancipazione soggettiva e comunitaria. Tuttavia, questa temporalità rischia di restare impolitica se non viene articolata con una strategia che tenga conto dei dispositivi di potere globali: come sottolinea Zizek, la sospensione dell'atto sovrano può diventare complicità con lo stato delle cose se non attraversa l'ordine simbolico con un taglio.


Conclusione: una rivoluzione etica con limiti strategici

Lo zapatismo rappresenta un esempio vivente di quella che Lacan avrebbe chiamato un'etica del desiderio. Non si tratta di abolire il potere, ma di sottrarsi alla sua cattura immaginaria. Non si tratta di eliminare il significante padrone, ma di ridurne gli effetti, di renderlo reversibile, temporaneo, attraversabile. In questo senso, lo zapatismo è una rivoluzione simbolica: non per prendere il potere, ma per trasformare il legame sociale.

Tuttavia, come notano diversi critici (Zizek, Laclau, Badiou, Pavón-Cuéllar), la rinuncia al potere può tradursi in una rinuncia alla trasformazione reale delle strutture materiali. L’esperienza zapatista mostra i limiti di una politica del desiderio quando non è sostenuta da una riflessione sul simbolico e sul reale della violenza sistemica. Forse la sfida, oggi, è quella di tenere insieme etica del desiderio e costruzione di istituzioni emancipative.


Bibliografia essenziale

  • Jacques Lacan, Il seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi, Einaudi
  • John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, Alegre
  • Subcomandante Marcos, Ya basta!, Feltrinelli
  • Enrique Dussel, 20 tesi di politica, Castelvecchi
  • Cornelius Castoriadis, L’istituzione immaginaria della società, Einaudi
  • Gloria Muñoz Ramírez, EZLN: el fuego y la palabra, Ediciones La Jornada
  • Miguel Benasayag, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli
  • Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi
  • Ian Parker e David Pavón-Cuéllar, Lacan, Discourse, Event: New Psychoanalytic Approaches to the Political, Routledge
  • Slavoj Zizek, Meno di niente, Ponte alle Grazie
  • Ernesto Laclau, La ragione populista, Laterza
  • Alain Badiou, L'ipotesi comunista, Ponte alle Grazie 

giovedì 5 giugno 2025

Il potere di generare: leadership diffusa e soggettività sociale in trasformazione

Potere di generare


📌 Abstract

L’articolo propone una riflessione critica sulla leadership generativa come forma emergente di soggettivazione collettiva nel lavoro contemporaneo, con particolare attenzione al terzo settore e al sindacalismo critico. In un contesto segnato dalla crisi del management tradizionale e dalla trasformazione delle istituzioni del lavoro, emergono pratiche di leadership distribuita che non si fondano sul comando, ma sulla capacità di attivare, sostenere e accompagnare processi generativi di senso e cooperazione. Attraverso una lettura che integra contributi teorici della psicologia sociale, della filosofia politica e della psicoanalisi lacaniana, l’articolo indaga i nodi critici e le potenzialità di queste esperienze, portando esempi tratti dal mondo del lavoro sociale e dei movimenti sindacali di base.

1. Introduzione: una crisi simbolica e organizzativa del lavoro

Nel cuore della crisi del capitalismo cognitivo e dell’economia delle piattaforme, il lavoro appare attraversato da una duplice contraddizione: da un lato la crescente frammentazione dei diritti e dei legami professionali; dall’altro, il riemergere di pratiche comunitarie, collaborative e politicamente consapevoli, che interrogano il modello dominante di leadership come puro esercizio di comando e controllo.

Come osservano Bonomi e Masiero (2020), nella società post-fordista emergono nuove soggettività che non si lasciano più organizzare secondo schemi gerarchici rigidi, ma richiedono forme di riconoscimento e partecipazione che valorizzino l’esperienza e l’iniziativa. La nozione di "leadership generativa" (Magatti, 2022) permette di leggere questi fenomeni in chiave trasformativa, come processi in cui non si trasmette solo potere, ma si produce soggettività, senso, e legami nuovi.

2. Cos’è la leadership generativa

La leadership generativa è un concetto emerso per indicare una forma di guida che non si limita a gestire o motivare, ma che attiva spazi di senso condiviso, di innovazione sociale e di trasformazione reciproca. Magatti (2022) parla di una leadership che "non si impone ma dispone", che ha la capacità di generare contesti e possibilità più che di esercitare controllo.

Questa forma di leadership è spesso situata e diffusa, come notano Pearce & Conger (2003), che la descrivono come "shared leadership", cioè una funzione che può emergere collettivamente e che si sviluppa lungo relazioni orizzontali, non necessariamente vincolata a ruoli o gerarchie formali. È una funzione che può emergere in momenti critici, o in modo rotante, come nei gruppi cooperativi o nei collettivi sindacali.

3. Lacan, il desiderio e la funzione del vuoto nella leadership

Jacques Lacan ha mostrato come ogni struttura del potere sia anche una struttura del desiderio. Il significante-padrone (S1) non è solo comando, ma ciò che organizza il discorso e orienta il desiderio collettivo (Lacan, 1981). Quando il comando manageriale perde legittimità simbolica, la funzione del leader non può più consistere nell’imposizione di norme, ma nel sostenere spazi vuoti in cui possano emergere soggettività.

Come suggerisce il Lacan del Seminario XI (1975), il desiderio si sostiene su un vuoto strutturale, e dunque anche la funzione del leader può essere interpretata come custodia di uno spazio simbolico generativo, e non come occupazione autoritaria. Questo è ciò che accade in molte esperienze del terzo settore e del sindacalismo critico, dove l’autorità si reinventa come ascolto radicale e messa in questione reciproca.

4. Due casi esemplari

4.1. Un collettivo educativo in area metropolitana

In una cooperativa sociale impegnata nell’accoglienza di famiglie migranti, l’équipe educativa ha rifiutato una struttura gerarchica rigida, scegliendo di ruotare la funzione di coordinamento tra i vari educatori. Si è trattato di una leadership "distribuita" e "non delegata" (Pearce & Conger, 2003), dove la capacità di guidare è emersa dall’esperienza e dalle relazioni.

Il risultato è stato un gruppo più coeso, capace di proporre innovazioni anche rischiose, rafforzando il senso di appartenenza e di responsabilità collettiva. È emersa una leadership generativa, che ha attivato soggettività senza fondarsi sul potere formale.

4.2. Un’assemblea sindacale di base nei servizi pubblici

In una grande città del Nord Italia, un gruppo di operatori sociosanitari, educatori e tecnici precari ha dato vita a un’assemblea intersettoriale, ispirata a pratiche mutualistiche. L’assenza di una figura fissa di portavoce ha favorito l’emergere di competenze multiple: comunicazione, lettura normativa, organizzazione dal basso.

Questa modalità ha permesso l’attivazione di nuove soggettività politiche, in linea con quanto afferma Giorgi (2022): "il lavoro che resiste non è solo quello che rivendica, ma quello che produce legami e senso". La leadership, in questi contesti, è funzione relazionale e generativa, più che gerarchica o rappresentativa.

5. Soggettività generativa e sindacalismo critico

Il sindacalismo critico — che comprende esperienze autonome, di base e anche talune trasformazioni interne alla rappresentanza tradizionale — rappresenta un terreno fertile per forme di leadership generativa. Giorgi (2022) parla di una "politica della cooperazione situata" che produce leadership relazionali e temporanee.

In questo contesto, il ruolo del leader non è comandare o rappresentare, ma connettere, tradurre, ascoltare, stimolare. Come affermano Carli e Paniccia (2003), è nell’analisi della domanda collettiva che può emergere una funzione generativa del coordinamento, al servizio di processi partecipativi.

6. Conclusioni

In un’epoca in cui il modello organizzativo tradizionale è sempre più inefficace, la leadership generativa si configura come pratica trasformativa. Nei contesti del terzo settore e nel sindacalismo critico, essa rompe la logica verticale del potere e propone un’altra visione: quella del potere di generare, del potere di sostenere vite e legami, e non solo performance.

Come nota Dejours (2009), "il lavoro contiene una dimensione di verità" che non può essere catturata dalla sola logica dell’efficienza. La leadership generativa custodisce questa verità, promuovendo spazi di parola, ascolto e trasformazione reciproca.


📚 Bibliografia

  • Bonomi, A. & Masiero, M. (2020). La società circolare. DeriveApprodi.
  • Carli, R. & Paniccia, R.M. (2003). Psicologia della partecipazione. FrancoAngeli.
  • Dejours, C. (2009). La banalità dell’ingiustizia sociale. Raffaello Cortina.
  • Giorgi, C. (2022). Il lavoro che resiste. Manifestolibri.
  • Lacan, J. (1975). Il seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1981). Il seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi. Einaudi.
  • Magatti, M. (2022). Generare libertà. Accedere al futuro. Feltrinelli.
  • Mazzoleni, G. (2023). Leadership generativa. Oltre il management tradizionale. Vita e Pensiero.
  • Pearce, C. L. & Conger, J. A. (2003). Shared Leadership: Reframing the Hows and Whys of Leadership. SAGE.
  • Sandri, G. (2018). Fare cooperazione oggi. Edizioni Gruppo Abele.


mercoledì 14 maggio 2025

Islam e modernità: movimenti di flessibilizzazione della legge simbolica

 


Introduzione Il confronto tra Islam e modernità è uno dei terreni più controversi e culturalmente densi dell'epoca contemporanea. Una lettura psicoanalitica di tipo lacaniano non si propone di giudicare o classificare l'Islam, ma di analizzare il rapporto del soggetto musulmano con la Legge simbolica, il significante padrone (S1), il godimento (jouissance) e il discorso dell'Altro. Laddove la modernità occidentale è segnata dalla crisi del Nome-del-Padre e dalla pluralizzazione dei discorsi, alcune forme dell'Islam sembrano mantenere un rapporto più stabile e normativo con l'S1. Tuttavia, esistono contesti e dinamiche in cui tale rapporto si flessibilizza, aprendo spazi inediti per una soggettivazione più libera, persino per forme di Islam laico.

1. Il Nome-del-Padre e la Legge simbolica nell'Islam In Lacan, la funzione del Nome-del-Padre è quella di inscrivere il soggetto nel campo dell'Altro, ordinando il desiderio tramite l'interdizione. Nell'Islam tradizionale, il significante di Dio è radicalmente Uno, non rappresentabile, e il Corano è considerato la Parola stessa di Dio, non interpretazione umana. Il rapporto con la Legge è dunque diretto, senza mediazione ecclesiastica. Ciò implica una forma molto forte di legame tra S1 e l'Altro, che può strutturarsi in un discorso del padrone stabile ma poco aperto alla rotazione dei discorsi (Lacan, "Seminario XVII").

La Legge, in questo contesto, non è solo un dispositivo giuridico o morale, ma un elemento strutturante dell'identità soggettiva. Questo porta ad una forma di godimento che si lega fortemente al simbolico, impedendo la deriva verso un godimento fuori-legge, come invece accade in molte configurazioni postmoderne. Tuttavia, questa stabilità simbolica può anche irrigidirsi, generando strutture soggettive fondate sulla sottomissione letterale più che sul desiderio.

2. Modernità e crisi del Padre La modernità occidentale, secondo Lacan, è marcata dall'evaporazione del Padre, dalla decostruzione dell'Altro come garante assoluto, e dalla proliferazione del godimento fuori legge. Laddove l'Islam tende a mantenere il legame tra Legge e senso, la modernità introduce una scissione tra godimento e simbolico, che spesso si manifesta come crisi soggettiva o come fondamentalismo reattivo. In questo senso, il fondamentalismo può essere letto come un ritorno iperbolico del significante padrone in risposta al vuoto dell'Altro (Recalcati, 2007).

La reazione fondamentalista è, da un punto di vista lacaniano, una risposta alla deregolazione del godimento. Essa cerca di restaurare un S1 forte, unificante, capace di rimettere ordine nel caos pulsionale. Ma ciò avviene spesso a prezzo della soggettività, che viene sacrificata in nome di una comunità immaginaria assoluta. Il rischio è quello di un ritorno del Padre in forma feroce, come significante di morte piuttosto che di vita simbolica.

3. Luoghi di flessibilizzazione del rapporto con la Legge simbolica

3.1. Turchia post-kemalista La secolarizzazione forzata operata da Atatürk ha prodotto una separazione tra S1 religioso e S1 statale. Nelle generazioni successive, alcuni intellettuali hanno cercato una sintesi tra fede e laicità, come nel caso di Ahmet Insel, che parla di "religiosità senza religione istituzionale". Questa tensione produce aperture nella struttura discorsiva dominante.

Allo stesso tempo, la Turchia contemporanea mostra un panorama sfaccettato, dove giovani musulmani reinterpretano la propria identità religiosa in relazione a valori democratici e pluralisti. In questo senso, il discorso dell'università e della scienza entra in competizione con il discorso religioso tradizionale, producendo effetti di soggettivazione e nuove forme di godimento.

3.2. Iran sciita e riformismo teologico All'interno dello sciismo iraniano, autori come Abdolkarim Soroush propongono una distinzione tra religione in sé (divina) e conoscenza religiosa (umana, fallibile). È una mossa che de-totalizza il significante religioso, aprendo uno spazio di interrogazione soggettiva: "La religione è sacra, ma la nostra comprensione della religione non lo è" (Soroush, 2000).

Questa distinzione introduce una dimensione ermeneutica che implica il riconoscimento del desiderio del soggetto come parte integrante del processo religioso. Il sapere religioso non è più una verità monolitica, ma un campo di interpretazione. Il Nome-del-Padre non scompare, ma si decentra, lasciando emergere il soggetto diviso.

3.3. Femminismi islamici Intellettuali come Fatima Mernissi e Amina Wadud hanno decostruito la lettura patriarcale della Shari‘a, proponendo una rilettura del Corano alla luce dell’uguaglianza di genere. Ciò comporta uno scollamento tra S1 religioso e sua funzione normativa assoluta: un tentativo di soggettivazione simbolica dell'esperienza religiosa.

Nel femminismo islamico, la questione del corpo femminile e del desiderio viene riportata al centro del discorso. Il godimento non è più esclusivamente maschile o paterno, ma si apre alla pluralità. Questo implica un lavoro di traduzione simbolica che decostruisce l'immaginario patriarcale e apre spazi per nuove configurazioni discorsive e affettive.

3.4. Diaspora musulmana in Europa Nei contesti migratori, l'incontro con la modernità europea produce una tensione soggettiva tra identificazioni familiari e discorsi sociali nuovi. In alcuni giovani musulmani emergono elaborazioni ibride, dove l'Islam non è più un S1 dominante, ma un punto di risonanza simbolica, una lingua intima del desiderio.

Molti di questi soggetti si muovono tra differenti registri simbolici, creando forme originali di appartenenza. Il velo, ad esempio, può essere vissuto non come imposizione, ma come scelta simbolica. La diaspora, in quanto condizione di sradicamento e ridefinizione, genera un terreno favorevole alla flessibilizzazione del rapporto con la Legge.

3.5. Sufismo e godimento simbolico Il sufismo, con la sua enfasi sul rapporto amoroso con Dio, decostruisce l'immagine del Dio legislatore assoluto a favore di un Dio amante. Questo sposta il godimento fuori dal dominio del padre, verso una dimensione simbolico-poetica che ricorda l'elaborazione mistica del godimento (Nasr, 1972).

Nel sufismo, il desiderio non è represso, ma sublimato attraverso la danza, la musica, la poesia. Il corpo trova una sua lingua nel simbolico. Ciò rappresenta un contro-discorso rispetto al fondamentalismo, capace di articolare un Altro non totalizzante, un Dio che si dona nella mancanza e non nella legge rigida.

Conclusione La flessibilizzazione del rapporto con la Legge simbolica nell’Islam non è un processo lineare, ma si manifesta in pieghe soggettive, culturali e politiche. Una lettura lacaniana consente di riconoscere in questi movimenti non una perdita di identità, ma una possibilità di simbolizzazione nuova, dove l’S1 non è più un dogma, ma una soglia di interrogazione.

In questo senso, un Islam laico è possibile là dove si separa l’ordine del simbolico dalla presa totalizzante dell’Altro. Ciò non implica un rifiuto dell’Islam, ma una sua reinvenzione come spazio aperto al desiderio, alla differenza e alla molteplicità. Una soggettività musulmana può emergere come soggettività simbolica, non ridotta alla legge, ma capace di riscriverla nel proprio incontro con l’Altro.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1991). Il Seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1975). Il Seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.
  • Recalcati, M. (2007). Cosa resta del padre? La paternità nell'epoca ipermoderna. Cortina.
  • Soroush, A. (2000). Reason, Freedom, and Democracy in Islam. Oxford University Press.
  • Mernissi, F. (1991). Il harem politico. Giunti.
  • Wadud, A. (1999). Qur'an and Woman. Oxford University Press.
  • Nasr, S.H. (1972). Sufi Essays. SUNY Press.
  • Arkoun, M. (2002). The Unthought in Contemporary Islamic Thought. Saqi Books.
  • Insel, A. (2003). Laicité, liberté de conscience et pluralisme religieux. In Revue des mondes musulmans et de la Méditerranée.
  • Ramadan, T. (2004). Western Muslims and the Future of Islam. Oxford University Press.


sabato 10 maggio 2025

Miti di soggettivazione nella cultura europea Tra divisione simbolica, legge, critica e crisi del legame


1. Il soggetto tragico: nascita nella divisione

La cultura europea ha elaborato, fin dai Greci, un'immagine del soggetto come essere diviso, attraversato dalla colpa, dalla finitudine e dalla domanda di senso. Il mito di Edipo, la tragedia attica e la riflessione cristiana sul peccato sono modelli archetipici: non c'è soggetto senza il passaggio attraverso una mancanza originaria, senza confronto con la Legge e con l'Altro simbolico.

Lacan leggeva in Antigone e in Amleto non semplicemente drammi, ma figure paradigmatiche del desiderio e della castrazione, in cui il soggetto diviene tale proprio in quanto “decentrato rispetto al padrone di sé” (Écrits). La soggettivazione europea nasce dunque come apertura alla mancanza, alla legge e alla sublimazione.


2. L’eredità del cristianesimo: colpa, coscienza e interiorità

Il cristianesimo radicalizza questo mito tragico: non più solo limite cosmico o destino, ma colpa interiore e soggettivazione come confessione (Foucault, Les aveux de la chair). La verità del soggetto passa attraverso il discorso dell’Altro (la Chiesa, la legge divina), e la sua interiorità si forma come luogo di lotta tra pulsione e comando etico.

Questa tradizione ha generato forme complesse di soggettivazione etica, come testimoniano le figure del santo, del penitente, del filosofo razionalista o del rivoluzionario moderno. La soggettività europea, prima ancora che produttiva, è riflessiva, colpevole, responsabile.


3. Modernità e critica: l’isterico come figura europea

Žižek sostiene che “l’isterico è la figura del soggetto moderno, che interroga il potere e il sapere, che sospende ogni identificazione piena” (The Ticklish Subject, 1999). La soggettività europea moderna è segnata dalla domanda isterica all’Altro: Che vuoi da me? Qual è il tuo desiderio? Il mito europeo non è quello dell’adeguamento, ma dell’inquietudine permanente.

L’illuminismo, le rivoluzioni, la psicoanalisi, il marxismo: tutti movimenti in cui il soggetto non è pacificato, ma critico, inquieto, diviso. La soggettivazione isterica si confronta con l’Altro per metterlo in crisi, non per identificarsi ad esso.


4. Il trauma della Shoah e l’etica della testimonianza

Nel Novecento, il mito europeo si infrange sull’orrore della Shoah e dei totalitarismi. Qui la soggettivazione si trasforma: il soggetto è testimone del Reale, del buco dell’umano, della disumanizzazione. La figura del sopravvissuto (Primo Levi, Celan) diventa un nuovo paradigma della soggettività: chi parla, non come padrone, ma come resto.

Žižek ha osservato che l’Europa ha fatto esperienza di un “trionfo dell’inumano” che impone un’etica della memoria e della responsabilità (Violence, 2008). Il soggetto europeo, se vuole sopravvivere, deve assumere la frattura, non eluderla.


5. Il discorso del capitalista e la crisi del mito europeo

Con la globalizzazione neoliberale e l’irruzione del discorso del capitalista, l’Europa ha progressivamente abbandonato la propria specificità simbolica. Come scrive Lacan nel 1972: “Il discorso del capitalista è un discorso che funziona, ma consuma tutto e rimuove la mancanza”. Qui il soggetto non è più diviso, ma funzionale: utente, produttore, consumatore.

Byung-Chul Han, in La società della trasparenza, nota che l’Europa sta cedendo alla logica performativa del sé come “progetto”, come “impresa di sé”, importando modelli americani. La mancanza, il limite, la negatività, un tempo centrali, diventano ora ostacoli da eliminare. Bifo Berardi parla di una “psicopatologia del postumano” che colpisce in primo luogo i soggetti formati nel mito europeo: essi si disgregano quando vengono privati dell’orizzonte simbolico del limite (Futurabilità, 2017).


6. Resistenze e ritorni: etica, cura e parola

Eppure, nella crisi, resistono frammenti del mito europeo: l’etica della cura, il pensiero critico, la psicoanalisi, la poesia. Non si tratta di nostalgia, ma di risignificazione: come testimonia Recalcati, la soggettività europea può ancora articolare il desiderio come mancanza e non come prestazione, e “fare del limite una risorsa e non una condanna” (Il gesto di Caino, 2020).


Conclusione: tra fine e trasfigurazione

Il mito europeo della soggettivazione non è finito, ma sospeso. È minacciato dal discorso del capitalista, ma può trovare nuove forme di espressione nei resti, nei margini, nelle rovine. Il soggetto diviso, etico, tragico può ancora parlare — se trova luoghi in cui l’Altro non sia solo algoritmo, ma simbolico, umano, mancante.


Bibliografia

  • Lacan, J. (1972). Le discours capitaliste, in Autres écrits.
  • Han, B.-C. (2012). La società della trasparenza. Nottetempo.
  • Žižek, S. (1999). The Ticklish Subject. Verso.
  • Recalcati, M. (2013–2020). Il complesso di Telemaco; Il gesto di Caino. Feltrinelli.
  • Foucault, M. (2018). Les aveux de la chair. Gallimard.
  • Berardi, F. (2017). Futurabilità. Nero

Miti di soggettivazione nelle culture islamiche: tra eteronomia, ritualità e trascendenza


Introduzione

Il processo di soggettivazione nelle culture islamiche non può essere interpretato nei termini canonici dell’Occidente moderno, che lega la nascita del soggetto all’autonomia, alla rottura con la Legge simbolica e alla secolarizzazione. Come sottolinea Žižek (1999), il soggetto moderno nasce dal "taglio" rispetto all’ordine simbolico che lo fonda, in una dialettica di alienazione e verità. Ma che accade quando la Legge non è un residuo culturale da superare, bensì la Parola divina che struttura ontologicamente l’esistenza?

Nelle culture islamiche, la soggettività si organizza intorno a miti fondativi che inscrivono il soggetto in una topologia dell’Altro radicale: Dio come legislatore, il Profeta come modello, la Umma come corpo vivente della Legge. In questo contesto, i miti non sono semplici narrazioni antiche, ma dispositivi simbolici attivi, che orientano il rapporto con il corpo, il potere, la morte e la giustizia.


1. La Legge come Altro assoluto: oltre l’autonomia del soggetto

In contrasto con la concezione moderna di un soggetto che si autodetermina contro la norma, il pensiero islamico classico concepisce l’essere umano come ‘abd, servo di Dio. L’obbedienza alla Shari‘a è il luogo della verità, non della repressione. Hallaq (2013) osserva che lo “Stato moderno” spezza questo paradigma, imponendo una legalità tecnica che fabbrica individui ma non soggetti etici. Žižek (2006) potrebbe leggere questa frattura come l’irruzione di una "ideologia cinica" che separa la legge dalla sua dimensione sacra, producendo soggetti svuotati di credenze autentiche.

In questa chiave, l’Islam premoderno appare come un ordine simbolico in cui la soggettività si costituisce attraverso l’integrazione nella Legge divina, e non nella sua trasgressione. L’Altro non è rimosso, ma nominato, pregato, temuto, interiorizzato. Un soggetto “moderno” che non taglia con questo Altro rischia, secondo Byung-Chul Han, di non diventare mai “pienamente sé stesso” secondo i criteri della soggettività occidentale, ma di rimanere inscritto in un paradigma “pre-neoliberale” (Han, 2014).


2. Corpo femminile e soggettivazione etico-rituale

Saba Mahmood (2005) mostra come nei movimenti pietisti femminili in Egitto la soggettività non emerga dalla liberazione ma dalla ritualizzazione. Le pratiche di modestia, preghiera e silenzio costituiscono un ethos che trasforma il corpo in luogo di soggettivazione conforme alla Legge. Han (2020) osserva che nel mondo contemporaneo il soggetto è invece spinto a “esprimersi” senza limiti, fino all’autoesaurimento narcisistico. In opposizione, il soggetto pietista si nega come volontà individuale per divenire testimone del Divino. Non è il soggetto performativo postmoderno, ma un soggetto della ripetizione, dove il gesto rituale è atto simbolico e formazione del Sé.


3. Sciismo e soggettività tragica: l’Imam come significante perdente

Il mito fondativo dello sciismo, il martirio di Husayn a Karbala, costituisce una figura alternativa di soggettivazione. L’Imam non vince, ma muore. Egli è il “significante perdente” che, nella logica lacaniana ripresa da Žižek, porta con sé la verità del desiderio rifiutato dal potere. Corbin (2006) parla di un “archetipo cosmico” che informa ogni gesto dello sciita devoto. La soggettività qui si costruisce come fedeltà a una perdita originaria, non come appropriazione di un’identità. In questo senso, il soggetto sciita è vicino all’“eroe etico” che, secondo Žižek (2000), accetta l’impossibilità della chiusura simbolica e agisce nel vuoto della Legge.


4. Sufismo: la dissoluzione del soggetto

Il sufismo radicalizza questa tensione, proponendo la dissoluzione del sé individuale (fanā’) come condizione per la verità spirituale. Attar, Rumi e Ibn Arabi descrivono viaggi interiori in cui il soggetto si frantuma per rinascere come immagine riflessa dell’Assoluto. Han (2017) suggerisce che l’Occidente contemporaneo ha perso questa capacità di svuotamento simbolico, riducendo ogni esperienza a narrazione autobiografica. Il sufi, al contrario, abbandona il racconto del sé per perdersi nel silenzio dell’Uno.


5. Il soggetto musulmano tra ideologia e trauma

Il rapporto tra soggettività islamica e inconscio rimane complesso. Azergui (2009) analizza il mito del sacrificio di Abramo nel Corano, notando l’assenza del nome del figlio: una struttura simbolica che lascia aperta l’interpretazione e inscrive il soggetto in un vuoto originario. Žižek leggerebbe questa assenza come “punto reale” che struttura il desiderio ma sfugge alla simbolizzazione. La soggettività musulmana, in questa lettura, non è chiusa in una narrazione compatta, ma attraversata da un’alterità irriducibile, un resto che non si lascia nominare.


6. Diaspora e reinvenzione del mito

Nel contesto diasporico, le soggettività musulmane si confrontano con nuovi miti: cittadinanza, libertà, diritti, ma anche islamofobia, sospetto e discriminazione. Cesari (2004) osserva che l’identità musulmana in Europa diventa spesso “reattiva”, cioè definita contro la società secolare. Han parlerebbe qui di “società della trasparenza” che pretende la visibilità totale del soggetto: confessione, identità, conformismo. Ma molti giovani musulmani resistono a questa trasparenza, mantenendo uno spazio di opacità simbolica che protegge il mito, il rito, il silenzio.


Conclusione

Il soggetto islamico non è un residuo del passato, ma una figura del futuro. Nella sua tensione tra legge e desiderio, perdita e fedeltà, esso ci mostra che non c’è soggettivazione senza mito, e che ogni soggetto – anche quello secolare – è ancora figlio di un Altro. Integrare le letture di Han e Žižek in questo contesto ci permette di pensare il soggetto non come dato ma come campo di battaglia: tra simbolico e reale, tra trascendenza e nichilismo.


Bibliografia

  • Arkoun, M. (2002). Saggio sull'islamicità. Milano: Jaca Book.
  • Asad, T. (2003). Formations of the Secular: Christianity, Islam, Modernity. Stanford University Press.
  • Attar, F. al-D. (2006). Il verbo degli uccelli. Milano: Adelphi.
  • Azergui, L. (2009). Islam et identité subjective: figures du manque dans le Coran. Paris: L’Harmattan.
  • Ben Achour, Y. (2000). L’Islam e la democrazia. Bari: Laterza.
  • Cesari, J. (2004). When Islam and Democracy Meet. New York: Palgrave.
  • Corbin, H. (2006). L’Islam iranico. Vol. I. Milano: Adelphi.
  • Dabashi, H. (1993). Theology of Discontent. New York: Transaction.
  • Delorme, J.-P. (1999). Figures du sujet en Islam. Paris: L’Harmattan.
  • Han, B.-C. (2014). La società della trasparenza. Nottetempo.
  • Han, B.-C. (2017). La società senza dolore. Nottetempo.
  • Han, B.-C. (2020). Psicopolitica. Nottetempo.
  • Hallaq, W. B. (2013). The Impossible State. New York: Columbia University Press.
  • Khosrokhavar, F. (2002). L’islamismo sciita radicale. Bari: Dedalo.
  • Mahmood, S. (2005). Politics of Piety. Princeton: Princeton University Press.
  • Nasr, S. H. (2006). Ideali e realtà dell’Islam. Bari: Laterza.
  • Schimmel, A. (1975). Mystical Dimensions of Islam. Chapel Hill: University of North Carolina Press.
  • Žižek, S. (1999). Il soggetto scabroso: Lacan attraverso Hegel. Milano: Cortina.
  • Žižek, S. (2000). Il fragile assoluto. Milano: Raffaello Cortina.
  • Žižek, S. (2006). Parlare al vuoto. Introduzione all’ideologia. Milano: Feltrinelli.


Miti di soggettivazione nella società russa: tra desiderio dell’Altro assoluto e godimento sacrificale


1. L’Altro come totalità sovradeterminante

La soggettività russa si è storicamente costituita in rapporto a un Altro simbolico vissuto come assoluto, sovradeterminante e spesso opaco, di cui si cerca il riconoscimento e a cui ci si sacrifica. Questo Altro ha avuto molte figure: Dio, lo Zar, il Popolo, il Partito, la Nazione. Ma in tutti i casi, non è un Altro barrato, mancante, come in alcune declinazioni del pensiero occidentale moderno: è un Altro che vuole tutto, che pretende godimento, corpo, parola, obbedienza, sacrificio.

La famosa frase di Lacan “il desiderio dell’Altro è il desiderio del soggetto” (Seminario XI) trova qui una variazione: in Russia, l’Altro non desidera, esige. E il soggetto non interpreta il desiderio dell’Altro, come nell’isteria occidentale, ma si conforma ad esso, o vi si annulla.


2. Eccesso del Simbolico e godimento sacrificale

Nella cultura russa, come osserva Berdjaev, “lo spirito russo ama l’infinito, l’indefinito, l’apocalittico... è incapace di accontentarsi di una forma finita di esistenza” (1923). Questo orientamento alla totalità si può leggere come ipertrofia del Simbolico, come una Legge sacralizzata, che schiaccia il soggetto e rende l’esistenza una missione, un destino da assumere, non da negoziare.

L’ideologia sovietica ha secolarizzato questa struttura, sostituendo Dio con il Popolo o il Partito. Ma la dinamica è rimasta: l’Altro che gode del soggetto attraverso il lavoro, il sacrificio, la dedizione. Il soggetto sovietico è un oggetto per l’Altro, e spesso si glorifica proprio in quanto tale: il martire, l’eroe, il poeta perseguitato sono figure centrali.


3. La rimozione della psicoanalisi e l’inconscio imperiale

Aleksandr Etkind (2011) parla di “inconscio imperiale”: un dispositivo psichico e storico in cui la Russia colonizza sé stessa, e in cui la repressione della psicoanalisi (vietata sotto Stalin) corrisponde a una rimozione della divisione soggettiva. Il trauma non è simbolizzato, ma mitizzato: la sofferenza si trasforma in epopea, la perdita in mito nazionale. La jouissance (il godimento) si lega alla patria martire, alla soggettivazione come offerta.

Anche nei modelli culturali contemporanei, come nota Marina Arutyunyan (2021), il trauma storico non si elabora come mancanza, ma si struttura come godimento collettivo. La guerra, la sanzione, la crisi diventano prove di una verità assoluta.


4. Discorso capitalista e sintomi nuovi

Oggi, tuttavia, la soggettivazione russa non può dirsi pura: è attraversata da elementi del discorso capitalista, secondo la definizione lacaniana (Seminario XVII). In esso, il soggetto non interroga l’Altro, ma consuma, si offre alla catena della produzione e del godimento, è funzione, resto, scarto.

Nella Russia post-sovietica, questa struttura si combina con l’ideologia restaurativa: Putin come Nome-del-Padre e CEO del godimento nazionale, garante di una verità patriottica che si esprime attraverso esibizione, militarismo, controllo e godimento mediatico. Il soggetto non parla, è parlato da un discorso che lo colloca come funzione dell’Altro.

5. Struttura lacaniana: né isterico, né del tutto capitalista

Il soggetto russo non è strutturalmente “isterico” come quello moderno occidentale. Nell’isteria il soggetto si pone come mancante di fronte all’Altro, interroga il suo desiderio, lo destabilizza. In Russia, l’Altro è troppo pieno per essere interrogato, e il soggetto si costruisce più come servo fedele o come oggetto del suo godimento.

Ma non è nemmeno pienamente “capitalistico” nel senso lacaniano: nella Russia di oggi l’economia di mercato convive con il culto dell’ideale, e l’autorità non si è dissolta nel management, come in Occidente, ma si è divinizzata.

6. Variazioni e faglie

Tuttavia, anche in questo mito esistono scarti, fenditure, resistenze soggettive. La letteratura, il dissenso, la clinica marginale — ma anche il desiderio migrante — portano tracce di soggettivazioni alternative, forme di domanda che si aprono alla mancanza, che interrogano l’Altro invece di servirlo. È qui che può emergere una soggettivazione isterica latente, o addirittura una soggettivazione propriamente etica, nel senso lacaniano: non fondata sul sapere dell’Altro, ma sul proprio desiderio.


Conclusione: soggettivazioni in tensione

La soggettivazione russa oscilla tra discorso del padrone e discorso capitalista, tra mitologia nazionale e godimento contemporaneo. Il soggetto, qui, non nasce dalla mancanza ma dal sacrificio, dalla fedeltà, dall’identificazione con l’Idea. Ma proprio per questo, in una società globalizzata e affetta da crisi, nuove faglie si aprono: il mito può scricchiolare, la funzione del soggetto può diventare domanda, il godimento può trasformarsi in sintomo.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1973). Il Seminario, Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1972). Il Seminario, Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi. Einaudi.
  • Berdjaev, N. (1923). La concezione di Dostoevskij. San Paolo Ed.
  • Etkind, A. (2011). Internal Colonization: Russia’s Imperial Experience. Polity Press.
  • Arutyunyan, M. (2021). Seminari clinici e teorici in ambito lacaniano russo.
  • Žižek, S. (2006). The Parallax View. MIT Press.
  • Byung-Chul Han (2010-2022). La società della trasparenza, La società della stanchezza, Psicopolitica. Nottetempo.


Miti di soggettivazione nella cultura nordamericana. Tra performatività, godimento, trauma e algoritmo


1. Il mito dell’auto-costruzione

Uno dei tratti distintivi della cultura nordamericana è il mito del soggetto che si fa da sé, l’auto-made man, scollegato da ogni eredità simbolica. Questo mito, inscritto nel cuore dell’American Dream, rappresenta il soggetto come imprenditore di se stesso, privo di un’origine che lo determina, immerso in un presente performativo e orientato al successo. È un soggetto che nega la dimensione della dipendenza, della mancanza e dell’Altro, per rivendicare un’identità costruita esclusivamente dalla volontà individuale.

Judith Butler, pur parlando del genere, descrive un modello di soggettivazione che può essere esteso anche a questo ambito: «Il soggetto non precede il discorso, ma emerge in esso e attraverso di esso» (Gender Trouble, 1990). Tuttavia, nel contesto americano, questa performatività viene letta in senso neoliberale: l’identità è una prestazione da ottimizzare, un investimento continuo su sé stessi.

Il soggetto così concepito è svincolato da ogni genealogia simbolica: né padre, né Stato, né classe, né tradizione religiosa. L’unico referente è il sé, che tende però a diventare una superficie di marketing, un “io-brand” che si promuove, si misura, si reinventa. Questo idealismo individualista, apparentemente emancipatorio, maschera però una forte pressione alla prestazione continua.


2. Godimento, eccesso e discorso capitalista

Lacan, nel suo insegnamento più tardo, parla del discorso del capitalista come di un dispositivo che, pur mantenendo la struttura del discorso del padrone, ne modifica la funzione: il soggetto non è più interpellato da un significante che lo divide, ma da un comando a godere che rimuove la mancanza. Il risultato è una soggettività iperproduttiva e non castrata, destinata a un eccesso che logora.

Scrive Lacan: «Il discorso del capitalista funziona troppo bene. Ma si consuma da solo» (Autres Écrits, 2001). In Nord America questa logica si è naturalizzata: il soggetto deve continuamente produrre, realizzarsi, migliorarsi, anche nel godimento. Slavoj Žižek lo riassume con la formula: “non solo hai il diritto di godere, hai il dovere di godere” (The Parallax View, 2006). Il soggetto non è represso, è ipercoinvolto nel godimento, fino all’esaurimento.

Byung-Chul Han aggiunge che il potere contemporaneo non vieta, ma seduce: non impone il limite, ma chiama alla prestazione illimitata. La soggettività si trasforma in capitale umano, valutato e valutabile, costantemente chiamato all’ottimizzazione (Psicopolitica, 2014). L’Altro non è più figura dell’interdizione, ma pulsione algoritmica alla massimizzazione del rendimento.


3. Il soggetto come resto traumatico

A questa struttura performativa si affianca un rimosso traumatico, profondo, mai pienamente simbolizzato. La storia degli Stati Uniti è segnata da fratture originarie: la violenza coloniale, il genocidio indigeno, la schiavitù, le guerre imperiali, la segregazione razziale. Ma questi traumi sono spesso neutralizzati o spettacolarizzati, impedendo una reale soggettivazione collettiva.

Žižek osserva come l’11 settembre 2001 abbia infranto il velo ideologico della sicurezza americana: “L’attacco ha portato il reale nel cuore del simbolico americano” (Welcome to the Desert of the Real, 2002). Ma invece di elaborare il trauma, la risposta è stata iperrepressiva o spettacolare, confermando la tendenza a rimuovere l’inconscio. Il soggetto si presenta così come una superficie traumatica non simbolizzata, che esplode in forme sintomatiche: esplosioni di violenza, depressione, isolamento, dipendenze.


4. Il soggetto algoritmico

Nel passaggio dal neoliberismo alla datacrazia, la soggettività è sempre più modellata dai dispositivi digitali. Il sé non è più chiamato a desiderare, ma a rispondere a comandi algoritmici, spesso impercettibili. L’inconscio non è più strutturato come un linguaggio, ma come una rete neurale che calcola correlazioni e previsioni.

Han scrive: «L’algoritmo elimina la libertà, in quanto anticipa il desiderio» (Psicopolitica). Il soggetto non è più diviso, ma trasparente e prevedibile, ridotto a un fascio di dati. Il godimento viene anticipato, targettizzato, intensificato, senza più spazio per il sintomo o l’interruzione. In questo contesto, anche la psicoanalisi rischia di diventare un dispositivo di adattamento: un coaching dell’efficienza.


5. Sintomi, resistenze, resti

Eppure, il soggetto non si riduce mai del tutto al discorso dominante. Emergono rotture, faglie, resti sintomatici. Nelle culture afroamericane, queer, decoloniali, ma anche in alcuni settori della cultura critica (Layton, Fanon, Moten, Butler), si avverte un desiderio di riconnettere la soggettività al trauma, alla mancanza, alla relazione.

Žižek, in The Sublime Object of Ideology, ricorda che il soggetto è tale solo nella disfunzione: è dove il discorso non funziona, dove il significante non si chiude, che il soggetto può emergere. È questo il punto da cui può partire una soggettivazione nuova: non quella del potere o della performance, ma quella del limite, della fragilità, del legame. Un soggetto che non si fa da sé, ma che si scopre attraversato dall’Altro.


Conclusione: verso un soggetto “diviso” e non performante

Il soggetto nordamericano, così come viene prodotto dai miti dominanti, appare sovraccarico, saturo, ma mai davvero soggetto. L’assenza dell’Altro simbolico e il dominio del godimento lo lasciano esposto a un’esaurimento psichico e relazionale. Tuttavia, proprio nel fallimento di questa soggettivazione iper-performante, si aprono possibilità: ritorno del sintomo, ripresa del legame, rilancio della mancanza come apertura all’Altro. Una soggettivazione diversa potrebbe emergere non nel successo, ma nell’accettazione dell’incompiutezza.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1964). Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (2001). Autres écrits. Seuil.
  • Žižek, S. (1989). The Sublime Object of Ideology. Verso.
  • Žižek, S. (2002). Welcome to the Desert of the Real. Verso.
  • Žižek, S. (2006). The Parallax View. MIT Press.
  • Butler, J. (1990). Gender Trouble. Routledge.
  • Han, B.-C. (2014). Psicopolitica. Nottetempo.
  • Berardi, F. (2009). The Soul at Work. Semiotext(e).
  • Layton, L. (2004). Who’s That Girl? Who’s That Boy?. Other Press.



domenica 4 maggio 2025

I Nomi del Padre e la Dinamica Edipica nelle Civiltà Una lettura psicoanalitica comparata delle strutture simboliche globali

Introduzione

Nel mondo contemporaneo, la crisi del simbolico e le sfide poste dalla soggettivazione si declinano in modi differenti secondo le coordinate culturali. Seguendo lo schema delle "civiltà" delineato da Samuel P. Huntington (The Clash of Civilizations, 1996), questo articolo esamina le strutture simboliche globali alla luce della teoria lacaniana del Nome-del-Padre e della dinamica edipica. L’obiettivo è mettere in luce le specificità e le tensioni della soggettivazione nelle principali civiltà mondiali, con un’attenzione particolare alle impasse e alle risorse dell’Occidente contemporaneo.


1. Occidente: soggettivazione, crisi e potenziale

La civiltà occidentale, fondata sulla tradizione giudaico-cristiana, ha prodotto una soggettività centrata sul desiderio e sull’interiorità, organizzata intorno alla funzione simbolica del Nome-del-Padre come garante della Legge e dell’autorità simbolica (Lacan, 1969-70). Tale struttura ha permesso lo sviluppo della democrazia, dei diritti umani e del pensiero critico, incarnando un’etica della responsabilità individuale.

Tuttavia, Huntington (1996) sottolinea che l’Occidente affronta oggi una crisi di coesione culturale e simbolica: la dissoluzione delle grandi narrazioni e l’affermazione del discorso capitalista hanno indebolito il Nome-del-Padre, generando soggetti spesso narcisisticamente autoreferenziali o smarriti nel godimento dell’Altro (Zizek, 1999). Nonostante ciò, questo vuoto simbolico apre possibilità di una nuova soggettivazione più flessibile e plurale, in grado di integrare desiderio, responsabilità e legami sociali.


2. Islam: Legge, trascendenza e sfida alla modernità

Nel mondo islamico, il Nome-del-Padre si incarna nella Legge religiosa, che è giuridica e divina insieme. Huntington evidenzia la centralità della comunità religiosa (Umma) come orizzonte identitario e politico, dove la Legge divina (Sharia) guida la soggettivazione.

La dinamica edipica è spesso mediata da un’autorità trascendente e non personalizzata. Questa struttura assicura coesione ma pone sfide all’integrazione con la modernità e la pluralità dei desideri individuali. I fondamentalismi rappresentano forme di irrigidimento dell’S1, mentre realtà più flessibili mostrano aperture simboliche e mediative (Arkoun, 1994).


3. India: molteplicità simbolica e oltre l’edipo

La complessità del sistema simbolico indiano, con il suo pantheon polifonico e il rigido sistema delle caste, genera una soggettivazione meno centrata sulla figura paterna individuale e più radicata in un ordine gerarchico e ciclico (Dumont, 1966). Huntington include l’India tra le civiltà con forti radici culturali che resistono alla modernizzazione omologante.

In questo contesto, la dinamica edipica tradizionale appare limitata o trasformata; la soggettivazione è comunitaria, con risvolti che proteggono ma anche limitano l’emergere di un soggetto moderno autonomo.


4. Africa subsahariana: oralità, comunità e simbolico collettivo

La civiltà africana subsahariana si fonda su legami comunitari e genealogici che incarnano un Nome-del-Padre collettivo, legato agli antenati e alle pratiche rituali. Huntington sottolinea la ricchezza culturale ma anche la vulnerabilità di queste società di fronte a pressioni globali.

La soggettivazione è fortemente relazionale e meno centrata sull’individuo, con una Legge più implicita e condivisa. La modernità spinge a una rinegoziazione dei legami simbolici tradizionali (Mbembe, 2013).


5. Civiltà sinica: ordine, armonia e simbolico impersonale

La cultura cinese, per Huntington una delle più influenti nel mondo contemporaneo, si caratterizza per una soggettivazione fondata sull’armonia sociale e sull’adempimento di ruoli (Jullien, 1998). Il Nome-del-Padre è impersonale, incarnato in un ordine etico e politico che privilegia il collettivo sull’individuale.

La funzione edipica classica è ridotta, con una soggettivazione centrata più sull’adempimento che sul conflitto desiderante. Questa struttura, pur stabile, deve oggi confrontarsi con la spinta alla soggettivazione individuale e ai cambiamenti tecnologici.


6. Mondo ortodosso: verticalità e simbolizzazione sacrale

La civiltà ortodossa, in particolare quella russa, presenta una forte verticalità simbolica, dove il Nome-del-Padre è legato alla figura dello Zar e della Chiesa, e alla missione spirituale collettiva (Etkind, 1997). Huntington individua la Russia come una civiltà con profonde radici storiche e culturali proprie, contrapposta all’Occidente.

La soggettivazione è segnata da una tensione tra identificazione con l’ideale collettivo e difficoltà di autonomia. Tuttavia, la tradizione spirituale russa offre anche una mistica della responsabilità soggettiva, che può costituire un’alternativa alla soggettivazione occidentale frammentata.


Conclusione

L’analisi psicoanalitica comparata mostra come ogni civiltà sviluppi proprie modalità di simbolizzazione del Padre, della Legge e del desiderio. L’Occidente, pur nelle sue impasse attuali — come l’individualismo esasperato e la crisi del legame sociale — ha prodotto una soggettivazione capace di libertà, conflitto e innovazione simbolica.

Le altre civiltà evidenziano strutture simboliche che, pur meno centrali sull’individuo, offrono risorse di coesione e senso, ma anche limiti nella produzione di soggetti autonomi. Nell’epoca della globalizzazione, una psicoanalisi interculturale può aiutare a pensare un Nome-del-Padre plurale e aperto, che consenta nuove forme di legame e di soggettivazione.


Bibliografia

  • Lacan, J. (1969-70). Le Séminaire, Livre XVII: L’envers de la psychanalyse. Paris: Seuil.
  • Huntington, S. P. (1996). The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order. Simon & Schuster.
  • Arkoun, M. (1994). Rethinking Islam: Common Questions, Uncommon Answers. Westview Press.
  • Dumont, L. (1966). Homo Hierarchicus. Gallimard.
  • Mbembe, A. (2013). Critica della ragione nera. Vita e Pensiero.
  • Jullien, F. (1998). A Treatise on Efficacy: Between Western and Chinese Thinking. University of Hawaii Press.
  • Etkind, A. (1997). Internal Colonization: Russia's Imperial Experience. Polity Press.
  • Zizek, S. (1999). Il godimento come fattore politico. Meltemi.



venerdì 2 maggio 2025

La soggettività giapponese alla luce della topologia lacaniana e della pluralizzazione dei Nomi-del-Padre

Soggettività giapponese


1. Dal Nome-del-Padre all’annodamento RSI

La svolta teorica di Lacan dalla centralità del Nome-del-Padre alla logica dei Nomi-del-Padre plurali e alla topologia del nodo borromeo segna una trasformazione decisiva nella concezione del soggetto. Questo passaggio è esplicito nel Seminario XXI (Les non-dupes errent, 1973-74), dove Lacan afferma:

«Il n'y a pas Le Nom-du-Père, il y a des Noms-du-Père» (Lezione del 20 novembre 1973).

Lacan si allontana dalla lettura strutturalista dell’Edipo come modello universale, per avvicinarsi a una formalizzazione topologica della soggettivazione: ciò che importa è che i tre registri RSI si annodino in un modo sufficientemente solido, indipendentemente dalla presenza di un unico S1 centrale.

2. L’alternativa giapponese: forma, iterazione e vuoto significante

Kaijtani Ryosuke, psicoanalista e studioso giapponese, ha proposto l’idea di una “legge silenziosa” del contesto giapponese, dove l’autorità non si manifesta come imposizione esterna ma come presenza formale, una cornice implicita di legame simbolico.
Come egli scrive:

«Le Nom-du-Père au Japon n'est pas articulé comme Loi, mais comme vide structurant autour duquel les actes s'organisent» (Kaijtani, La lettre et la forme au Japon, 1999).

In questo quadro, il Nome-del-Padre non è assente, ma dislocato: assume la forma di una funzione implicita, un operatore vuoto, che ordina senza comandare. Il Simbolico agisce per iterazione più che per enunciazione.

3. Una clinica dell'annodamento sinaptico

Nakazawa Shin'ya e Shingu Kazushige hanno elaborato l’ipotesi che la soggettività giapponese sia tenuta insieme non da un S1 dominante, ma da legami multipli, deboli ma stabili, che essi descrivono come "connessioni sinaptiche".
Shingu parla di una «tessitura simbolica orizzontale» (Revue de Psychanalyse Japonaise, n. 6, 2003), nella quale la funzione paterna si dissolve in una rete di micro-legami che connettono l’individuo al gruppo e all’Altro sociale.

In questa logica, il desiderio non è causato da una perdita originaria (manque-à-être), ma dall’effetto di appartenenza e dislocamento entro la forma. Non vi è quindi “rimozione originaria” (Urverdrängung) in senso occidentale, ma una eclissi strutturale della Legge che non produce forclusione.

4. Verso un’ontologia modulare del soggetto

La teoria lacaniana, grazie alla svolta topologica, consente di pensare una ontologia modulare del soggetto: non più ancorata a un S1 trascendentale, ma a modalità differentiali di annodamento. Il nodo borromeo offre una griglia sufficientemente flessibile per articolare questa varietà di legami, purché si mantenga l’annodamento, sia esso garantito da un S1, da un sintomo, o da una pratica sociale iterata.

Come nota Lacan nel Seminario XXIII (Le sinthome, 1975-76):

«Ce n’est pas le Nom-du-Père qui fait tenir le noeud, mais le sinthome. [...] Le sinthome peut être ce qui tient RSI, là où le Nom-du-Père fait défaut» (Lezione del 18 novembre 1975).

La soggettività giapponese mette alla prova questa ipotesi: una società può reggere un ordine simbolico stabile anche senza un S1 esplicitamente enunciato, purché un altro modo di tenuta nodale sia operante.

5. Conclusione: decostruzione dell’universalismo edipico

La clinica e la struttura giapponese non sono una “variante culturale” dell’Edipo, ma una possibilità teorica legittima e coerente all’interno del modello lacaniano pluralizzato. La funzione paterna, come garante dell’annodamento, non è universale nella sua forma edipica, ma può assumere varianti che ne mantengano la funzione: contenere il Reale, operare la distinzione, garantire un legame.

Ciò implica, in termini rigorosamente teorici, che:

«L'Edipo est une forme parmi d'autres d'articuler le nœud RSI, non sa condition nécessaire» (Kaijtani, 2004).

La topologia consente di affermare la pluralità delle strutture soggettive compatibili con un certo funzionamento del nodo. In questa luce, il Giappone non è né “altra cultura” né “eccezione”, ma pensabilità differenziale della funzione simbolica.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1973–74). Les non-dupes errent, Séminaire XXI, inedito. Lezioni del 20 novembre e 11 dicembre 1973.
  • Lacan, J. (1975–76). Le sinthome, Séminaire XXIII. Paris: Seuil, 2005.
  • Kaijtani, R. (1999). La lettre et la forme au Japon. Tokyo: Presses de l’Université Psychanalytique.
  • Kaijtani, R. (2004). «Fonctions silencieuses du Nom-du-Père au Japon». Revue de Psychanalyse Japonaise, 5, pp. 33–48.
  • Nakazawa, S. (2001). L'Origine du lien sans Père. Kyoto: Éditions Lacaniennes.
  • Shingu, K. (2003). «Connexions synaptiques et subjectivité japonaise». Revue de Psychanalyse Japonaise, 6, pp. 17-29

giovedì 1 maggio 2025

Lacan in Giappone: una Via Nipponica al Desiderio?


Desiderio giapponese


Il rapporto tra psicoanalisi e cultura giapponese è stato segnato da una storia di ricezioni, adattamenti e reinvenzioni che, pur partendo dalle radici europee freudiane e lacaniane, si è via via trasformata in una forma autonoma e originale di pensiero psicoanalitico. Questa evoluzione si è articolata attraverso figure significative che, a partire dagli anni Trenta fino ai giorni nostri, hanno cercato di pensare la psicoanalisi non come semplice teoria importata dall'Occidente, ma come strumento vivo di interpretazione dell’esperienza soggettiva e collettiva giapponese. In questo articolo si analizzeranno i contributi principali di autori giapponesi che hanno lavorato sia nell’ambito freudiano (come Kosawa Heisaku e Takeo Doi), sia nell’ambito lacaniano (come Kajitani Masahisa, Washida Kiyokazu, Shingū Kazushige, Okuno Takeo e Nakazawa Shin’ichi), seguendo una distinzione teorica ma anche mostrando i punti di contatto e ibridazione tra questi approcci.


1. La ricezione freudiana: Kosawa e Doi

La prima fase della ricezione psicoanalitica in Giappone è fortemente segnata dall’opera di Kosawa Heisaku, discepolo di Takeo Arishima e allievo diretto di Sigmund Freud. Kosawa fu una figura cruciale per la diffusione della psicoanalisi classica in Giappone, ma soprattutto per la sua capacità di reinterpretare alcuni concetti freudiani alla luce della cultura religiosa e familiare giapponese. Il suo concetto chiave è la "paura di essere disapprovati" (1934), che egli contrapponeva al senso di colpa freudiano. Per Kosawa, la dimensione affettiva della dipendenza (amae), che in Freud appare come regressiva e da superare, è invece vista come strutturale alla soggettività giapponese. L'inconscio viene così letto non solo come luogo di rimozione ma anche come spazio di vulnerabilità e di bisogno di riconoscimento.

Un ulteriore sviluppo in senso freudiano viene da Takeo Doi, che pubblicò nel 1973 The Anatomy of Dependence, testo fondativo della moderna psicoanalisi culturale giapponese. Doi teorizza il concetto di "amae" come una forma di dipendenza affettiva fondamentale e culturalmente valorizzata in Giappone. Egli argomenta che nella società giapponese il desiderio di essere accolti, curati e perdonati è alla base della struttura psichica, mentre nella tradizione psicoanalitica occidentale il desiderio è connotato da autonomia e separazione. Doi non si limita a descrivere un tratto culturale, ma propone una vera e propria teoria psicoanalitica della soggettività giapponese.


2. L’incontro con Lacan: significante, desiderio e soggetto in traduzione giapponese

A partire dagli anni '70 e '80, l’opera di Lacan comincia ad esercitare una profonda influenza sulla psicoanalisi giapponese. Tuttavia, questa ricezione non è mai stata dogmatica: i teorici giapponesi hanno utilizzato Lacan per pensare problemi specifici della modernità nipponica, come la crisi dell’identità, la frammentazione simbolica, la mediazione del padre e la mutazione del desiderio.

Kajitani Masahisa è stato uno dei principali introduttori del pensiero lacaniano in Giappone. Egli ha riflettuto sul rapporto tra linguaggio, significante e soggetto nel contesto culturale giapponese, interrogandosi su come il funzionamento del simbolico lacaniano potesse essere ritradotto in una cultura dove la funzione paterna e la legge simbolica si articolano diversamente. Kajitani esplora le corrispondenze tra l’estetica del "mono no aware" (la sensibilità alla caducità delle cose) e la nozione lacaniana di mancanza, di oggetto a e di desiderio come mai soddisfatto. Nella sua lettura, il soggetto giapponese non è semplicemente alienato dal linguaggio, ma è sempre esposto a un'eccedenza affettiva e simbolica che rende problematico il rapporto con la legge e il godimento.

Washida Kiyokazu, filosofo e psicoanalista, ha invece portato la riflessione sul corpo e sull’immagine all’interno della tradizione lacaniana giapponese. Nel suo Mimasareseru Shintai (1991), Washida sviluppa una teoria della corporeità che lega il corpo visto (cioè il corpo nell’immagine e nello sguardo dell’altro) con il corpo simbolico. Egli utilizza Lacan per spiegare come la soggettività giapponese sia costruita attraverso un’economia visiva che enfatizza la forma, la postura, l’apparenza, ma anche l’ambiguità e il non detto. Il corpo, per Washida, non è mai solo biologico, ma sempre già segnato dal desiderio dell’altro.

Shingū Kazushige approfondisce il concetto lacaniano di "Nome-del-Padre" nel contesto della modernizzazione giapponese. Egli sostiene che la crisi dell’autorità patriarcale tradizionale (familiare e imperiale) ha prodotto un vuoto simbolico che ha avuto effetti profondi sulla psiche giapponese contemporanea. Il desiderio si sgancia dal suo ancoraggio simbolico e genera forme di godimento opaco, ripetitivo, come nei fenomeni sociali di isolamento (hikikomori) o di dipendenza (pachinko, pornografia, ossessione estetica). Shingū legge Lacan come uno strumento critico per pensare la frammentazione del soggetto moderno e la necessità di ripensare le forme della legge simbolica.


3. Oltre Freud e Lacan: estetica, religione e simbolico in Okuno e Nakazawa

Due figure significative per un’estensione del pensiero psicoanalitico in Giappone sono Okuno Takeo e Nakazawa Shin’ichi. Entrambi utilizzano la psicoanalisi come chiave interpretativa, ma la connettono a dimensioni culturali giapponesi come l’estetica, la religione e la cosmologia.

Okuno lavora sul confine tra psicoanalisi, filosofia e estetica. Nei suoi studi sulla letteratura e sull’arte giapponese, egli impiega il pensiero lacaniano per esplorare il modo in cui il desiderio si articola nel linguaggio e nella forma artistica. Il simbolico non è per Okuno solo la legge della parola, ma anche la grammatica implicita della bellezza, del gesto, della composizione. La sublimazione, tema lacaniano centrale, è letta alla luce dell’estetica giapponese tradizionale, che non cerca di dominare il reale, ma di conviverci attraverso una forma simbolica fragile e aperta.

Nakazawa, invece, opera un avvicinamento tra la psicoanalisi e il pensiero buddista. Nella sua riflessione, il desiderio è sì mancanza (come in Lacan), ma è anche attaccamento illusorio (come nel buddismo). L’oggetto a è confrontato con la nozione di vacuità, e l’inconscio è visto come una zona liminare tra realtà psichica e coscienza cosmica. La funzione del padre viene decostruita e sostituita con una funzione etica che non impone la legge, ma produce consapevolezza della sofferenza e del ciclo del desiderio.


4. Conclusione: una psicoanalisi tra due mondi

La psicoanalisi giapponese si presenta oggi come un campo vivo e originale, capace di parlare al contesto globale pur mantenendo un forte radicamento culturale. Gli autori freudiani come Kosawa e Doi hanno aperto la strada a un’interpretazione affettiva e relazionale della soggettività giapponese. Gli autori lacaniani come Kajitani, Washida, Shingū, Okuno e Nakazawa hanno ampliato l’orizzonte simbolico della psicoanalisi, integrandolo con la sensibilità estetica, la filosofia orientale e le trasformazioni sociali contemporanee. In questo incontro tra Freud, Lacan e la cultura giapponese, emerge una forma di psicoanalisi capace di pensare la soggettività come evento situato, attraversato dal desiderio, ma anche da pratiche simboliche e comunitarie che danno forma al modo in cui si vive, si soffre e si parla.


Bibliografia

  • Doi, T. (1973). The Anatomy of Dependence [Amae no kōzō]. Kodansha International.
  • Kajitani, M. (1991). Lacan to Gendai: Seishin Bunseki to Nihon Bunka [Lacan and Modernity: Psychoanalysis and Japanese Culture]. Tokyo: Seishin Shobō.
  • Kosawa, H. (1934). The Fear of Being Disliked. In: International Journal of Psychoanalysis, 15.
  • Nakazawa, S. (1991). Chūō no Fuhai [The Corruption of the Center]. Tokyo: Chikuma Shobō.
  • Okuno, T. (1996). Shinbi to Rinri no Hazama de [Between Aesthetics and Ethics]. Tokyo: Iwanami Shoten.
  • Shingū, K. (1994). Taikei: Rakan no Kōzō [System: The Structure of Lacan]. Tokyo: Misuzu Shobō.
  • Washida, K. (1991). Mimasareseru Shintai [The Body That Is Seen]. Tokyo: Chikuma Shobō.


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Fare un’ analisi secondo Jacques Lacan non è semplicemente parlare dei propri problemi. È un’esperienza trasformativa, in cui il soggetto ...