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sabato 24 maggio 2025

La notte come soglia: lettura lacaniana di “Di notte” di Mariangela Gualtieri

Notte come soglia



“Di notte” di Mariangela Gualtieri

Di notte
le mille faccende riposte
il chiacchierio delle cose
ottuso chiuso a chiave nello scrigno nero
e il tempo davanti pare esteso
e le stelle mandano lo sfolgorio
fin dentro le mie pupille chiuse.

Che notte di neve meravigliosa
dentro, nelle falde del cuore acceso
a tutto motore, che partitura
di silenzio e di luce.

Domani ancora caricheremo il fardello
faremo la fatica delle sporte
dolorose e del peso. Domani
tenteremo di destreggiarci
fra le spine del giorno.
Staremo nel precipizio delle faccende.
E poi di nuovo la notte col suo premio
di sospensione distesa.

La notte
che talmente avvicina l’oltretomba
e tutto il di là della vita
con le creature addormentate nel bosco
e la sua corda tesa di buio.

La notte su metà del pianeta
con mani addormentata sui cuscini
e occhi che si chiudono dentro tutte le case.

E ora da qui, dal nocciolo più interno
della notte, rifletto e accetto
l’alta compitazione, l’investitura
in scrittura terrestre, della sacrosanta vita
attutita, come imbottita e sepolta
nei corpi del genere umano.



Nella poesia “Di notte”, Mariangela Gualtieri ci conduce in uno spazio-tempo sospeso, dove il linguaggio si attenua, le cose tacciono, e si apre una soglia densa di silenzio e interiorità. Da un punto di vista psicoanalitico lacaniano, la notte evocata dalla poetessa può essere letta come il momento privilegiato in cui il soggetto, liberato dalla pressione del discorso dominante del giorno, si confronta con il proprio desiderio, con il Reale, e forse — in forma embrionale — con la possibilità di rilanciare un nuovo significante padrone (S1).

1. La sospensione del Simbolico e l’apertura al Reale

Gualtieri apre la poesia con l’immagine di un mondo che si ritira: “le mille faccende riposte”, “il chiacchierio delle cose ottuso, chiuso a chiave”. È il momento in cui il Simbolico dominante, con i suoi imperativi di efficienza, utilità e produttività, si ritira, lasciando spazio a un vuoto fertile. La notte non è solo assenza di luce, ma assenza di senso obbligato, una partitura di silenzio e di luce che apre la possibilità di un’altra scrittura, di un’altra articolazione soggettiva.

Qui si fa sentire il Reale, non come trauma brutale, ma come presenza viva e notturna, avvertita nel corpo: “il cuore acceso a tutto motore”. Un godimento, forse, che sfugge alla presa del Nome-del-Padre, e che si avvicina al godimento femminile indicato da Lacan nel Seminario XX — un godimento Altro, non tutto simbolizzabile.

2. Il soggetto nella notte: sospeso tra veglia e sogno

La notte descritta da Gualtieri non è semplicemente un tempo del riposo, ma un tempo in cui il soggetto si raccoglie, riflette, e accetta un compito: “dal nocciolo più interno della notte, rifletto e accetto l’alta compitazione”. In termini lacaniani, qui il soggetto non è più parlato dall’Altro, ma si assume come causa del proprio desiderio. La “scrittura terrestre” può allora essere vista come una forma di investitura soggettiva, il rilancio di un nuovo S1, che non domina, ma orienta.

Questo S1 è radicalmente diverso da quello del giorno, fatto di “fardelli”, “sporte dolorose”, “spine del giorno”: tutti segni del discorso del padrone moderno, che aliena il soggetto nella sua funzione sociale. La notte invece offre la possibilità di articolare un S1 singolare, forse poetico, forse etico, che nasce dall’esperienza del Reale e dalla sospensione del già-detto.

3. Il rilancio di un nuovo S1

In questa sospensione, possiamo leggere la notte come tempo propizio per rilanciare un nuovo significante padrone, non imposto dall’Altro, ma emerso dal fondo del soggetto. Questo nuovo S1 non è normativo, ma segnale di un altro possibile discorso, più vicino alla vita, alla fragilità, alla finitudine condivisa. La poesia stessa, nella sua forma, è già esempio di questo altro S1, che non comanda ma chiede ospitalità nel linguaggio.

Possiamo ipotizzare che questo S1 notturno — fragile, terreno, scritto — sia un S1 del legame, non della prestazione; un S1 che nomina la “sacrosanta vita attutita” nei corpi umani, e non la vita performante, visibile, riconosciuta. È, in questo senso, un S1 sottratto all’economia della visibilità, e perciò prossimo all’etica psicoanalitica del desiderio: non ciò che realizza, ma ciò che orienta nella notte.

4. Conclusione: un altro discorso è possibile

La notte di Gualtieri è un invito a sospendere il dominio dell’S1 diurno e a rendere possibile un altro discorso, fondato non sul comando, ma sulla scrittura del desiderio. In essa il soggetto non è annullato, ma trasfigurato dal silenzio e dalla possibilità di nominare altrimenti la propria vita.

In un’epoca segnata dal dominio dei discorsi tecnocratici e prestazionali, la poesia — e la notte che la rende possibile — possono essere lette come spazi di resistenza simbolica. Luoghi dove l’Altro non impone, ma ascolta, e dove il soggetto può rilanciare un S1 proprio, fragile e sacro, capace di dare inizio a un discorso più umano.


giovedì 22 maggio 2025

"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" di Cesare Pavese: una lettura lacaniana


Verrà la morte


Verrà la morte e avrà i tuoi occhi 

– questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese 


"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", scritta da Cesare Pavese tra marzo e giugno del 1950, è forse il testo più nudo, tragico e radicale dell’intera sua opera. Ultimo approdo della sua scrittura poetica e insieme testamento esistenziale, questa poesia rappresenta l’incontro del soggetto con il reale, là dove il simbolico vacilla e il desiderio si confronta con la sua impossibilità.

1. Biografia e bibliografia: un ritorno alla poesia come sinthomo

La poesia appartiene a un piccolo ciclo postumo, pubblicato nel 1951, poco dopo il suicidio di Pavese. Dopo anni dedicati alla narrativa (La casa in collina, Il diavolo sulle colline, La luna e i falò), Pavese ritorna alla forma lirica, ma non più nella modalità epica e narrativa di Lavorare stanca. Qui la poesia è essenziale, concentrata, assoluta. È il suo sinthomo nel senso lacaniano: una forma di legame soggettivo con il reale, che tiene insieme ciò che non può essere simbolizzato — il lutto, la mancanza, il godimento.

In questa fase finale della sua vita, Pavese appare disarmato, incapace di trovare ancora riparo nel mito (come nei Dialoghi con Leucò) o nella cultura. Resta solo il corpo a corpo con la mancanza: una scrittura che si fa confessione, ma anche soglia di sparizione del soggetto.

2. Lo sguardo dell’Altro come oggetto a

Il verso iniziale — "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" — è già tutto un programma di svelamento. In esso, la morte non ha volto proprio, ma assume quello dell’amata. Si affaccia così il reale nel luogo dell’Altro: la Cosa (das Ding) si iscrive nello sguardo dell’amore. Non si tratta di un amore consolante, ma dell’incontro traumatico con il godimento che eccede il senso, con l’oggetto a che abita lo sguardo dell’Altro.

In Lacan, lo sguardo è oggetto pulsionale: non restituisce l'immagine rassicurante dell’Io, ma la buca, la inquieta. Gli occhi dell’amata sono allora il punto in cui il soggetto si smarrisce, non perché tradito, ma perché esposto all’eccesso del godimento, al buco del significante.

3. Morte e desiderio: il fallimento dell’amore simbolico

Lacan insegna che l’amore cerca di colmare la mancanza dell’Altro, ma senza riuscirci: è sempre disallineato, sospeso. Qui, l’amore è totalmente attraversato dal fallimento: non resta parola che tenga, solo un volto che coincide con la morte. L’Altro amato si rivela non come garanzia simbolica, ma come luogo della perdita.

La poesia lacanianamente mostra che non c’è Nome-del-Padre che possa rappresentare il lutto. L’amata è reale, assoluta, non mediabile: rappresenta quella parte dell’Altro che non risponde, che uccide. In questo senso, l’amore non è redenzione, ma catastrofe.

4. Godimento e pulsione di morte

Nel testo si avverte una jouissance che non passa più attraverso il desiderio, ma si coagula in una pulsione di morte, in un abbandono alla fine. L’io poetico è incollato all’oggetto a, senza più possibilità di separazione simbolica. Non c’è sublimazione, né trasfigurazione. Solo l’essenziale: l’incontro tra il soggetto e il reale del godimento, che non può essere detto ma solo subito.

5. Scrivere per scomparire: il soggetto come resto

Se in Lavorare stanca il soggetto si collocava nel mondo, nella storia e nel paesaggio, qui si dissolve. La scrittura non è più gesto di fondazione, ma atto terminale. Pavese scrive la poesia come atto ultimo, non tanto per dire qualcosa, quanto per testimoniare il punto in cui la parola fallisce e resta solo l’oggetto del godimento.

In questo senso, Verrà la morte è anche una poesia sul fallimento del simbolico: non c’è elaborazione, non c’è lutto, solo l’apparizione cruda della fine.


Conclusione

"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" è uno dei testi più potenti della letteratura italiana del Novecento proprio perché è anche uno dei più puri esempi dell’incontro tra poesia e reale. In essa Pavese mostra ciò che nella sua opera era sempre stato latente: il desiderio come mancanza, l’amore come impossibilità, il soggetto come resto.

Letta nell’orientamento lacaniano, la poesia rivela la struttura profonda dell’esperienza soggettiva: il volto dell’amore come luogo della perdita, lo sguardo dell’Altro come oggetto a, la scrittura come sinthomo per tenere insieme ciò che altrimenti crolla.

Una poesia che, come il desiderio stesso, non consola. Ma dice — con precisione vertiginosa — l’impossibile da dire.



domenica 18 maggio 2025

Fuxi e Nüwa: sinthomo collettivo e mito cinese della soggettivazione tra reale e ordine simbolico

Fuxi e Nuwa


1. Introduzione

Il mito di Fuxi e Nüwa occupa un posto centrale nella mitologia cinese, non solo come narrazione delle origini del mondo umano e dell’ordine cosmico, ma anche come espressione profonda di una forma culturale di soggettivazione. A differenza del mito occidentale del padre edipico e della Legge come interdizione del godimento (Nome-del-Padre), la mitologia cinese fonda l’ordine attraverso atti di riparazione, equilibrio e armonizzazione. Questo contributo propone una lettura del mito alla luce dell’ultimo insegnamento di Jacques Lacan, considerando il ruolo del reale, dei meccanismi difensivi e del sinthomo come risposta al godimento opaco.

2. Il mito di Fuxi e Nüwa: riparazione, scrittura, ordine

Nüwa, dopo il disastro cosmico che rompe l’asse del cielo e squarcia la terra, ripara il mondo con atti simbolici e concreti: salda il cielo, ricuce la terra, ripristina l’armonia. Fuxi, suo fratello e sposo, completa l’opera dando origine alla scrittura, ai rituali, ai codici matrimoniali. Insieme, costituiscono un dispositivo mitico di ordinamento del mondo, che però non passa attraverso l’interdizione o il sacrificio, ma attraverso l’armonizzazione.

Da una prospettiva psicoanalitica, questa operazione può essere intesa come una risposta difensiva al reale del godimento: ciò che si rompe è la coerenza del simbolico, e la risposta non è la fondazione di una Legge padrecentrica, bensì un’opera di ricucitura e funzionalizzazione. Il reale non viene forcluso né del tutto simbolizzato, ma contenuto in un’architettura simbolica stabile.

3. Ultimo Lacan: sinthomo, reale e il limite del Nome-del-Padre

Nell’ultima fase del suo insegnamento (Seminari XX–XXIII), Lacan abbandona la centralità del Nome-del-Padre come significante universale della Legge. Il reale, in quanto eccedenza opaca e traumatica (jouissance), non è domabile dalla sola funzione paterna. Da qui, Lacan introduce il concetto di sinthomo: non più sintomo come messaggio da interpretare, ma come modo singolare di tenere insieme i tre registri RSI (Reale, Simbolico, Immaginario).

Il mito di Fuxi e Nüwa, letto in questa ottica, non fonda una Legge castrativa, ma un modo collettivo e culturale di “tenere insieme” il reale attraverso un sistema di scrittura, numeri, legami familiari, cosmologia. L’ordine non è fondato sul sacrificio o sulla perdita, ma su una sorta di “legame sinthomatico”: una scrittura mitica del godimento.

4. Meccanismi difensivi collettivi e ordine simbolico

Nel mito si può riconoscere l’attivazione di meccanismi difensivi culturali di tipo iscrittivo e ritualizzante. La sublimazione è certamente presente – l’arte del rito e della scrittura come forma culturalizzata del godimento – ma si affianca a una isolamento del reale, che viene arginato attraverso pratiche ordinatrici. Invece della rimozione (come in Occidente), qui agisce una ritualizzazione del godimento, che ne permette la coesistenza con l’ordine sociale.

Questo lascia intravedere anche un possibile lato oscuro: se il godimento non è mai veramente affrontato come mancanza, ma solo come caos da contenere, il soggetto può restare annodato al simbolico senza divisione, senza interrogazione desiderante. In questo senso, il mito mostra anche i limiti di una soggettivazione senza taglio.

5. Confronto con il mito occidentale

La mitologia greco-giudaico-cristiana fonda spesso l’ordine sul sacrificio: Prometeo punito, Edipo accecato, Isacco salvato ma quasi ucciso. In tutti questi casi, l’accesso alla legge passa attraverso una perdita, una castrazione, una dialettica con il desiderio. Il Nome-del-Padre vieta, fonda la Legge, separa il soggetto dal godimento.

Nel mito cinese, invece, non c’è colpa originaria né trasgressione fondamentale. L’ordine nasce non dalla castrazione ma dalla compensazione, non dal divieto ma dalla riparazione. Questa è una differenza strutturale che influenza anche le forme della soggettività, della famiglia, della trasmissione.

6. Conclusione: un sinthomo armonico ma opaco

Il mito di Fuxi e Nüwa mostra come una cultura può rispondere al reale del godimento non attraverso la Legge del Padre, ma attraverso una struttura sinthomatica collettiva, fatta di simboli, riti, ordine cosmico. Questo permette una forma di soggettivazione armonica, ma forse anche chiusa alla mancanza, resistente alla domanda e alla divisione.

Il mito, dunque, offre una soggettivazione possibile ma non universale, e ci invita a pensare i limiti di ogni costruzione simbolica che non includa il reale come buco, come mancanza. È in questo senso che la psicoanalisi lacaniana può incontrare la mitologia cinese: non per giudicare, ma per leggere la pluralità delle risposte al trauma del godimento.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1975). Encore. Il Seminario XX. Einaudi.
  • Lacan, J. (1974). RSI. Il Seminario XXI. Inedito, appunti.
  • Lacan, J. (1975-76). Le sinthome. Il Seminario XXIII. Einaudi.
  • Granet, M. (1922). La pensée chinoise. Albin Michel.
  • Cheng, F. (1997). Vide et plein. Le langage pictural chinois. Seuil.


sabato 17 maggio 2025

Fiabe russe come miti di soggettivazione: Il principe Ivan

Fiabe russe


Le fiabe popolari russe, in particolare quelle raccolte da Afanas’ev nel XIX secolo, possono essere lette non solo come narrazioni mitologiche o pedagogiche, ma come veri e propri miti di soggettivazione, cioè racconti simbolici in cui si articola la costituzione del soggetto nel suo rapporto con il desiderio, con la legge, con l'Altro. In questa prospettiva, la figura del Principe Ivan, protagonista di molte fiabe, diventa emblematica. Egli incarna un percorso iniziatico che mette in scena il passaggio da una posizione infantile, dipendente e ingenua, a una posizione adulta, capace di affrontare la mancanza, il lutto, la responsabilità e l’amore.


1. Struttura simbolica della fiaba

Secondo Vladimir Propp, nella Morfologia della fiaba (1928), la fiaba russa segue una sequenza fissa di funzioni, che rappresentano una struttura rituale arcaica: un evento iniziale rompe l’equilibrio (una perdita, un furto), l’eroe parte per cercare ciò che è stato tolto, incontra aiutanti magici, affronta prove, riceve doni, vince il male e torna trasfigurato. "Tutte le funzioni si susseguono in un ordine invariabile" (Propp, 1966, p. 23). Questa struttura può essere interpretata psicoanaliticamente come il percorso del soggetto alle prese con la perdita originaria, la ricerca dell’oggetto perduto, il confronto con l’Altro e con la Legge.

In particolare, il movimento narrativo è quello che Lacan ha descritto come passaggio dall’immaginario al simbolico, dalla dimensione narcisistica a quella del desiderio strutturato. Come afferma Lacan, "il desiderio è il desiderio dell’Altro" (Seminario XI, 1978, p. 235). Il soggetto-fiabesco parte sempre da una condizione di mancanza: il padre è insoddisfatto, l’oggetto è perduto, il regno è minacciato. Ma è proprio questa mancanza che mette in moto il desiderio e lo obbliga a partire.


2. Il Principe Ivan e l’Uccello di Fuoco: una ricerca dell’objet petit a

Nella fiaba "Il Principe Ivan, l'Uccello di Fuoco e il Lupo Grigio", Ivan si lancia alla ricerca dell’Uccello di Fuoco, dopo aver trovato una piuma brillante e incandescente. Il padre lo manda alla ricerca dell’uccello, ma il Lupo Grigio lo ammonisce: la piuma era già troppo, chiedere di più porterà guai. Ivan non ascolta e prosegue. Questa sequenza mostra un eccesso di desiderio, un rifiuto del limite simbolico.

L’Uccello di Fuoco rappresenta un oggetto seducente, inafferrabile, enigmatico: un perfetto esempio di "objèt petit a", l’oggetto causa del desiderio di cui parla Lacan: "non è ciò che si desidera, ma ciò per cui si desidera" (Seminario XI, 1978, p. 149). Non è un oggetto che soddisfa, ma un oggetto che incarna la mancanza. La sua presenza attiva il desiderio, ma non può essere posseduto senza conseguenze. Ivan lo insegue, ma ogni volta che si avvicina, perde qualcos’altro. L’Uccello sfugge, ma lo spinge avanti, in una catena metonimica del desiderio.


3. L’alleato inconscio: il Lupo Grigio

Il Lupo Grigio, che compare dopo la prima trasgressione di Ivan, è una figura ambivalente. Punisce, ma poi protegge. Porta Ivan sulle sue spalle, gli dona metamorfosi, lo guida. È una rappresentazione dell’inconscio come alleato: non l’Io padrone, ma la dimensione altra, che conosce la via, se ascoltata. Lacan sottolinea che "l'inconscio è strutturato come un linguaggio" e parla se il soggetto sa ascoltarlo (Seminario XI, 1978, p. 25).

Il Lupo si trasforma più volte: in cavallo, in Ivan stesso, in mezzo per entrare nel castello. Questa funzione polimorfa ricorda il gioco delle identificazioni immaginarie, ma soprattutto il ruolo della funzione analitica: il Lupo permette a Ivan di ingannare il potere, di cambiare pelle, di attraversare le prove.


4. La morte simbolica e la rinascita

Quando Ivan viene tradito dai fratelli e ucciso, assistiamo a una morte simbolica. Egli perde tutto: vita, amore, missione. Ma il Lupo, ancora una volta, interviene e lo fa risorgere con l’Acqua della Morte e l’Acqua della Vita. Questo passaggio non è solo narrativo, ma profondamente simbolico: per diventare soggetto, Ivan deve morire come oggetto dell’Altro (il padre, i fratelli, la missione). Solo così può rinascere non come eroe puro, ma come soggetto diviso, consapevole del limite, capace di amare e scegliere. Come nota Bettelheim: "solo attraverso una simbolica morte e rinascita l’eroe può diventare adulto" (Il mondo incantato, 1976, p. 214).


5. Soggetto e Altro nella cultura russa

Le fiabe russe mettono in scena un rapporto particolare con l’Altro: spesso severo, imprevedibile, non completamente inscrivibile nella Legge. Il Padre è figura distante, autoritaria; le forze celesti (animali, spiriti, potenze magiche) sono potenti ma ambigue. Questo contesto culturale offre uno sfondo originale alla soggettivazione: non si tratta di un’adesione docile alla Legge, ma di un confronto drammatico, tragico, spesso mistico con l’Altro.

Ivan è spesso ingenuo, ma non stupido. È l’idiota dostoevskiano: chi non sa, ma si lascia attraversare. La sua vittoria non dipende dalla forza, ma dalla capacità di lasciarsi modificare, di perdere, di fidarsi dell’inconscio. In questo senso, il suo percorso è paradigmatico per la soggettivazione: Ivan non trionfa, ma si trasforma.


Bibliografia essenziale

  • Afanas’ev, A. N. Fiabe russe. Milano: Mondadori, 1997.
  • Bettelheim, B. Il mondo incantato. Milano: Feltrinelli, 1976.
  • Freud, S. Il perturbante. In Opere, Torino: Bollati Boringhieri.
  • Lacan, J. Il Seminario. Libro V: Le formazioni dell’inconscio. Torino: Einaudi, 2004.
  • Lacan, J. Il Seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi, 1978.
  • Meletinskij, E. M. Il racconto fiabesco. Milano: Mondadori, 2001.
  • Propp, V. Morfologia della fiaba. Torino: Einaudi, 1966.
  • Propp, V. Le radici storiche dei racconti di magia. Torino: Einaudi, 1987.
  • Žižek, S. God in Pain: Inversions of Apocalypse. New York: Seven Stories Press, 2012.

sabato 10 maggio 2025

Miti di soggettivazione nella cultura europea Tra divisione simbolica, legge, critica e crisi del legame


1. Il soggetto tragico: nascita nella divisione

La cultura europea ha elaborato, fin dai Greci, un'immagine del soggetto come essere diviso, attraversato dalla colpa, dalla finitudine e dalla domanda di senso. Il mito di Edipo, la tragedia attica e la riflessione cristiana sul peccato sono modelli archetipici: non c'è soggetto senza il passaggio attraverso una mancanza originaria, senza confronto con la Legge e con l'Altro simbolico.

Lacan leggeva in Antigone e in Amleto non semplicemente drammi, ma figure paradigmatiche del desiderio e della castrazione, in cui il soggetto diviene tale proprio in quanto “decentrato rispetto al padrone di sé” (Écrits). La soggettivazione europea nasce dunque come apertura alla mancanza, alla legge e alla sublimazione.


2. L’eredità del cristianesimo: colpa, coscienza e interiorità

Il cristianesimo radicalizza questo mito tragico: non più solo limite cosmico o destino, ma colpa interiore e soggettivazione come confessione (Foucault, Les aveux de la chair). La verità del soggetto passa attraverso il discorso dell’Altro (la Chiesa, la legge divina), e la sua interiorità si forma come luogo di lotta tra pulsione e comando etico.

Questa tradizione ha generato forme complesse di soggettivazione etica, come testimoniano le figure del santo, del penitente, del filosofo razionalista o del rivoluzionario moderno. La soggettività europea, prima ancora che produttiva, è riflessiva, colpevole, responsabile.


3. Modernità e critica: l’isterico come figura europea

Žižek sostiene che “l’isterico è la figura del soggetto moderno, che interroga il potere e il sapere, che sospende ogni identificazione piena” (The Ticklish Subject, 1999). La soggettività europea moderna è segnata dalla domanda isterica all’Altro: Che vuoi da me? Qual è il tuo desiderio? Il mito europeo non è quello dell’adeguamento, ma dell’inquietudine permanente.

L’illuminismo, le rivoluzioni, la psicoanalisi, il marxismo: tutti movimenti in cui il soggetto non è pacificato, ma critico, inquieto, diviso. La soggettivazione isterica si confronta con l’Altro per metterlo in crisi, non per identificarsi ad esso.


4. Il trauma della Shoah e l’etica della testimonianza

Nel Novecento, il mito europeo si infrange sull’orrore della Shoah e dei totalitarismi. Qui la soggettivazione si trasforma: il soggetto è testimone del Reale, del buco dell’umano, della disumanizzazione. La figura del sopravvissuto (Primo Levi, Celan) diventa un nuovo paradigma della soggettività: chi parla, non come padrone, ma come resto.

Žižek ha osservato che l’Europa ha fatto esperienza di un “trionfo dell’inumano” che impone un’etica della memoria e della responsabilità (Violence, 2008). Il soggetto europeo, se vuole sopravvivere, deve assumere la frattura, non eluderla.


5. Il discorso del capitalista e la crisi del mito europeo

Con la globalizzazione neoliberale e l’irruzione del discorso del capitalista, l’Europa ha progressivamente abbandonato la propria specificità simbolica. Come scrive Lacan nel 1972: “Il discorso del capitalista è un discorso che funziona, ma consuma tutto e rimuove la mancanza”. Qui il soggetto non è più diviso, ma funzionale: utente, produttore, consumatore.

Byung-Chul Han, in La società della trasparenza, nota che l’Europa sta cedendo alla logica performativa del sé come “progetto”, come “impresa di sé”, importando modelli americani. La mancanza, il limite, la negatività, un tempo centrali, diventano ora ostacoli da eliminare. Bifo Berardi parla di una “psicopatologia del postumano” che colpisce in primo luogo i soggetti formati nel mito europeo: essi si disgregano quando vengono privati dell’orizzonte simbolico del limite (Futurabilità, 2017).


6. Resistenze e ritorni: etica, cura e parola

Eppure, nella crisi, resistono frammenti del mito europeo: l’etica della cura, il pensiero critico, la psicoanalisi, la poesia. Non si tratta di nostalgia, ma di risignificazione: come testimonia Recalcati, la soggettività europea può ancora articolare il desiderio come mancanza e non come prestazione, e “fare del limite una risorsa e non una condanna” (Il gesto di Caino, 2020).


Conclusione: tra fine e trasfigurazione

Il mito europeo della soggettivazione non è finito, ma sospeso. È minacciato dal discorso del capitalista, ma può trovare nuove forme di espressione nei resti, nei margini, nelle rovine. Il soggetto diviso, etico, tragico può ancora parlare — se trova luoghi in cui l’Altro non sia solo algoritmo, ma simbolico, umano, mancante.


Bibliografia

  • Lacan, J. (1972). Le discours capitaliste, in Autres écrits.
  • Han, B.-C. (2012). La società della trasparenza. Nottetempo.
  • Žižek, S. (1999). The Ticklish Subject. Verso.
  • Recalcati, M. (2013–2020). Il complesso di Telemaco; Il gesto di Caino. Feltrinelli.
  • Foucault, M. (2018). Les aveux de la chair. Gallimard.
  • Berardi, F. (2017). Futurabilità. Nero

Miti di soggettivazione nelle culture islamiche: tra eteronomia, ritualità e trascendenza


Introduzione

Il processo di soggettivazione nelle culture islamiche non può essere interpretato nei termini canonici dell’Occidente moderno, che lega la nascita del soggetto all’autonomia, alla rottura con la Legge simbolica e alla secolarizzazione. Come sottolinea Žižek (1999), il soggetto moderno nasce dal "taglio" rispetto all’ordine simbolico che lo fonda, in una dialettica di alienazione e verità. Ma che accade quando la Legge non è un residuo culturale da superare, bensì la Parola divina che struttura ontologicamente l’esistenza?

Nelle culture islamiche, la soggettività si organizza intorno a miti fondativi che inscrivono il soggetto in una topologia dell’Altro radicale: Dio come legislatore, il Profeta come modello, la Umma come corpo vivente della Legge. In questo contesto, i miti non sono semplici narrazioni antiche, ma dispositivi simbolici attivi, che orientano il rapporto con il corpo, il potere, la morte e la giustizia.


1. La Legge come Altro assoluto: oltre l’autonomia del soggetto

In contrasto con la concezione moderna di un soggetto che si autodetermina contro la norma, il pensiero islamico classico concepisce l’essere umano come ‘abd, servo di Dio. L’obbedienza alla Shari‘a è il luogo della verità, non della repressione. Hallaq (2013) osserva che lo “Stato moderno” spezza questo paradigma, imponendo una legalità tecnica che fabbrica individui ma non soggetti etici. Žižek (2006) potrebbe leggere questa frattura come l’irruzione di una "ideologia cinica" che separa la legge dalla sua dimensione sacra, producendo soggetti svuotati di credenze autentiche.

In questa chiave, l’Islam premoderno appare come un ordine simbolico in cui la soggettività si costituisce attraverso l’integrazione nella Legge divina, e non nella sua trasgressione. L’Altro non è rimosso, ma nominato, pregato, temuto, interiorizzato. Un soggetto “moderno” che non taglia con questo Altro rischia, secondo Byung-Chul Han, di non diventare mai “pienamente sé stesso” secondo i criteri della soggettività occidentale, ma di rimanere inscritto in un paradigma “pre-neoliberale” (Han, 2014).


2. Corpo femminile e soggettivazione etico-rituale

Saba Mahmood (2005) mostra come nei movimenti pietisti femminili in Egitto la soggettività non emerga dalla liberazione ma dalla ritualizzazione. Le pratiche di modestia, preghiera e silenzio costituiscono un ethos che trasforma il corpo in luogo di soggettivazione conforme alla Legge. Han (2020) osserva che nel mondo contemporaneo il soggetto è invece spinto a “esprimersi” senza limiti, fino all’autoesaurimento narcisistico. In opposizione, il soggetto pietista si nega come volontà individuale per divenire testimone del Divino. Non è il soggetto performativo postmoderno, ma un soggetto della ripetizione, dove il gesto rituale è atto simbolico e formazione del Sé.


3. Sciismo e soggettività tragica: l’Imam come significante perdente

Il mito fondativo dello sciismo, il martirio di Husayn a Karbala, costituisce una figura alternativa di soggettivazione. L’Imam non vince, ma muore. Egli è il “significante perdente” che, nella logica lacaniana ripresa da Žižek, porta con sé la verità del desiderio rifiutato dal potere. Corbin (2006) parla di un “archetipo cosmico” che informa ogni gesto dello sciita devoto. La soggettività qui si costruisce come fedeltà a una perdita originaria, non come appropriazione di un’identità. In questo senso, il soggetto sciita è vicino all’“eroe etico” che, secondo Žižek (2000), accetta l’impossibilità della chiusura simbolica e agisce nel vuoto della Legge.


4. Sufismo: la dissoluzione del soggetto

Il sufismo radicalizza questa tensione, proponendo la dissoluzione del sé individuale (fanā’) come condizione per la verità spirituale. Attar, Rumi e Ibn Arabi descrivono viaggi interiori in cui il soggetto si frantuma per rinascere come immagine riflessa dell’Assoluto. Han (2017) suggerisce che l’Occidente contemporaneo ha perso questa capacità di svuotamento simbolico, riducendo ogni esperienza a narrazione autobiografica. Il sufi, al contrario, abbandona il racconto del sé per perdersi nel silenzio dell’Uno.


5. Il soggetto musulmano tra ideologia e trauma

Il rapporto tra soggettività islamica e inconscio rimane complesso. Azergui (2009) analizza il mito del sacrificio di Abramo nel Corano, notando l’assenza del nome del figlio: una struttura simbolica che lascia aperta l’interpretazione e inscrive il soggetto in un vuoto originario. Žižek leggerebbe questa assenza come “punto reale” che struttura il desiderio ma sfugge alla simbolizzazione. La soggettività musulmana, in questa lettura, non è chiusa in una narrazione compatta, ma attraversata da un’alterità irriducibile, un resto che non si lascia nominare.


6. Diaspora e reinvenzione del mito

Nel contesto diasporico, le soggettività musulmane si confrontano con nuovi miti: cittadinanza, libertà, diritti, ma anche islamofobia, sospetto e discriminazione. Cesari (2004) osserva che l’identità musulmana in Europa diventa spesso “reattiva”, cioè definita contro la società secolare. Han parlerebbe qui di “società della trasparenza” che pretende la visibilità totale del soggetto: confessione, identità, conformismo. Ma molti giovani musulmani resistono a questa trasparenza, mantenendo uno spazio di opacità simbolica che protegge il mito, il rito, il silenzio.


Conclusione

Il soggetto islamico non è un residuo del passato, ma una figura del futuro. Nella sua tensione tra legge e desiderio, perdita e fedeltà, esso ci mostra che non c’è soggettivazione senza mito, e che ogni soggetto – anche quello secolare – è ancora figlio di un Altro. Integrare le letture di Han e Žižek in questo contesto ci permette di pensare il soggetto non come dato ma come campo di battaglia: tra simbolico e reale, tra trascendenza e nichilismo.


Bibliografia

  • Arkoun, M. (2002). Saggio sull'islamicità. Milano: Jaca Book.
  • Asad, T. (2003). Formations of the Secular: Christianity, Islam, Modernity. Stanford University Press.
  • Attar, F. al-D. (2006). Il verbo degli uccelli. Milano: Adelphi.
  • Azergui, L. (2009). Islam et identité subjective: figures du manque dans le Coran. Paris: L’Harmattan.
  • Ben Achour, Y. (2000). L’Islam e la democrazia. Bari: Laterza.
  • Cesari, J. (2004). When Islam and Democracy Meet. New York: Palgrave.
  • Corbin, H. (2006). L’Islam iranico. Vol. I. Milano: Adelphi.
  • Dabashi, H. (1993). Theology of Discontent. New York: Transaction.
  • Delorme, J.-P. (1999). Figures du sujet en Islam. Paris: L’Harmattan.
  • Han, B.-C. (2014). La società della trasparenza. Nottetempo.
  • Han, B.-C. (2017). La società senza dolore. Nottetempo.
  • Han, B.-C. (2020). Psicopolitica. Nottetempo.
  • Hallaq, W. B. (2013). The Impossible State. New York: Columbia University Press.
  • Khosrokhavar, F. (2002). L’islamismo sciita radicale. Bari: Dedalo.
  • Mahmood, S. (2005). Politics of Piety. Princeton: Princeton University Press.
  • Nasr, S. H. (2006). Ideali e realtà dell’Islam. Bari: Laterza.
  • Schimmel, A. (1975). Mystical Dimensions of Islam. Chapel Hill: University of North Carolina Press.
  • Žižek, S. (1999). Il soggetto scabroso: Lacan attraverso Hegel. Milano: Cortina.
  • Žižek, S. (2000). Il fragile assoluto. Milano: Raffaello Cortina.
  • Žižek, S. (2006). Parlare al vuoto. Introduzione all’ideologia. Milano: Feltrinelli.


Miti di soggettivazione nella società russa: tra desiderio dell’Altro assoluto e godimento sacrificale


1. L’Altro come totalità sovradeterminante

La soggettività russa si è storicamente costituita in rapporto a un Altro simbolico vissuto come assoluto, sovradeterminante e spesso opaco, di cui si cerca il riconoscimento e a cui ci si sacrifica. Questo Altro ha avuto molte figure: Dio, lo Zar, il Popolo, il Partito, la Nazione. Ma in tutti i casi, non è un Altro barrato, mancante, come in alcune declinazioni del pensiero occidentale moderno: è un Altro che vuole tutto, che pretende godimento, corpo, parola, obbedienza, sacrificio.

La famosa frase di Lacan “il desiderio dell’Altro è il desiderio del soggetto” (Seminario XI) trova qui una variazione: in Russia, l’Altro non desidera, esige. E il soggetto non interpreta il desiderio dell’Altro, come nell’isteria occidentale, ma si conforma ad esso, o vi si annulla.


2. Eccesso del Simbolico e godimento sacrificale

Nella cultura russa, come osserva Berdjaev, “lo spirito russo ama l’infinito, l’indefinito, l’apocalittico... è incapace di accontentarsi di una forma finita di esistenza” (1923). Questo orientamento alla totalità si può leggere come ipertrofia del Simbolico, come una Legge sacralizzata, che schiaccia il soggetto e rende l’esistenza una missione, un destino da assumere, non da negoziare.

L’ideologia sovietica ha secolarizzato questa struttura, sostituendo Dio con il Popolo o il Partito. Ma la dinamica è rimasta: l’Altro che gode del soggetto attraverso il lavoro, il sacrificio, la dedizione. Il soggetto sovietico è un oggetto per l’Altro, e spesso si glorifica proprio in quanto tale: il martire, l’eroe, il poeta perseguitato sono figure centrali.


3. La rimozione della psicoanalisi e l’inconscio imperiale

Aleksandr Etkind (2011) parla di “inconscio imperiale”: un dispositivo psichico e storico in cui la Russia colonizza sé stessa, e in cui la repressione della psicoanalisi (vietata sotto Stalin) corrisponde a una rimozione della divisione soggettiva. Il trauma non è simbolizzato, ma mitizzato: la sofferenza si trasforma in epopea, la perdita in mito nazionale. La jouissance (il godimento) si lega alla patria martire, alla soggettivazione come offerta.

Anche nei modelli culturali contemporanei, come nota Marina Arutyunyan (2021), il trauma storico non si elabora come mancanza, ma si struttura come godimento collettivo. La guerra, la sanzione, la crisi diventano prove di una verità assoluta.


4. Discorso capitalista e sintomi nuovi

Oggi, tuttavia, la soggettivazione russa non può dirsi pura: è attraversata da elementi del discorso capitalista, secondo la definizione lacaniana (Seminario XVII). In esso, il soggetto non interroga l’Altro, ma consuma, si offre alla catena della produzione e del godimento, è funzione, resto, scarto.

Nella Russia post-sovietica, questa struttura si combina con l’ideologia restaurativa: Putin come Nome-del-Padre e CEO del godimento nazionale, garante di una verità patriottica che si esprime attraverso esibizione, militarismo, controllo e godimento mediatico. Il soggetto non parla, è parlato da un discorso che lo colloca come funzione dell’Altro.

5. Struttura lacaniana: né isterico, né del tutto capitalista

Il soggetto russo non è strutturalmente “isterico” come quello moderno occidentale. Nell’isteria il soggetto si pone come mancante di fronte all’Altro, interroga il suo desiderio, lo destabilizza. In Russia, l’Altro è troppo pieno per essere interrogato, e il soggetto si costruisce più come servo fedele o come oggetto del suo godimento.

Ma non è nemmeno pienamente “capitalistico” nel senso lacaniano: nella Russia di oggi l’economia di mercato convive con il culto dell’ideale, e l’autorità non si è dissolta nel management, come in Occidente, ma si è divinizzata.

6. Variazioni e faglie

Tuttavia, anche in questo mito esistono scarti, fenditure, resistenze soggettive. La letteratura, il dissenso, la clinica marginale — ma anche il desiderio migrante — portano tracce di soggettivazioni alternative, forme di domanda che si aprono alla mancanza, che interrogano l’Altro invece di servirlo. È qui che può emergere una soggettivazione isterica latente, o addirittura una soggettivazione propriamente etica, nel senso lacaniano: non fondata sul sapere dell’Altro, ma sul proprio desiderio.


Conclusione: soggettivazioni in tensione

La soggettivazione russa oscilla tra discorso del padrone e discorso capitalista, tra mitologia nazionale e godimento contemporaneo. Il soggetto, qui, non nasce dalla mancanza ma dal sacrificio, dalla fedeltà, dall’identificazione con l’Idea. Ma proprio per questo, in una società globalizzata e affetta da crisi, nuove faglie si aprono: il mito può scricchiolare, la funzione del soggetto può diventare domanda, il godimento può trasformarsi in sintomo.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1973). Il Seminario, Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1972). Il Seminario, Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi. Einaudi.
  • Berdjaev, N. (1923). La concezione di Dostoevskij. San Paolo Ed.
  • Etkind, A. (2011). Internal Colonization: Russia’s Imperial Experience. Polity Press.
  • Arutyunyan, M. (2021). Seminari clinici e teorici in ambito lacaniano russo.
  • Žižek, S. (2006). The Parallax View. MIT Press.
  • Byung-Chul Han (2010-2022). La società della trasparenza, La società della stanchezza, Psicopolitica. Nottetempo.


Miti di soggettivazione nella cultura nordamericana. Tra performatività, godimento, trauma e algoritmo


1. Il mito dell’auto-costruzione

Uno dei tratti distintivi della cultura nordamericana è il mito del soggetto che si fa da sé, l’auto-made man, scollegato da ogni eredità simbolica. Questo mito, inscritto nel cuore dell’American Dream, rappresenta il soggetto come imprenditore di se stesso, privo di un’origine che lo determina, immerso in un presente performativo e orientato al successo. È un soggetto che nega la dimensione della dipendenza, della mancanza e dell’Altro, per rivendicare un’identità costruita esclusivamente dalla volontà individuale.

Judith Butler, pur parlando del genere, descrive un modello di soggettivazione che può essere esteso anche a questo ambito: «Il soggetto non precede il discorso, ma emerge in esso e attraverso di esso» (Gender Trouble, 1990). Tuttavia, nel contesto americano, questa performatività viene letta in senso neoliberale: l’identità è una prestazione da ottimizzare, un investimento continuo su sé stessi.

Il soggetto così concepito è svincolato da ogni genealogia simbolica: né padre, né Stato, né classe, né tradizione religiosa. L’unico referente è il sé, che tende però a diventare una superficie di marketing, un “io-brand” che si promuove, si misura, si reinventa. Questo idealismo individualista, apparentemente emancipatorio, maschera però una forte pressione alla prestazione continua.


2. Godimento, eccesso e discorso capitalista

Lacan, nel suo insegnamento più tardo, parla del discorso del capitalista come di un dispositivo che, pur mantenendo la struttura del discorso del padrone, ne modifica la funzione: il soggetto non è più interpellato da un significante che lo divide, ma da un comando a godere che rimuove la mancanza. Il risultato è una soggettività iperproduttiva e non castrata, destinata a un eccesso che logora.

Scrive Lacan: «Il discorso del capitalista funziona troppo bene. Ma si consuma da solo» (Autres Écrits, 2001). In Nord America questa logica si è naturalizzata: il soggetto deve continuamente produrre, realizzarsi, migliorarsi, anche nel godimento. Slavoj Žižek lo riassume con la formula: “non solo hai il diritto di godere, hai il dovere di godere” (The Parallax View, 2006). Il soggetto non è represso, è ipercoinvolto nel godimento, fino all’esaurimento.

Byung-Chul Han aggiunge che il potere contemporaneo non vieta, ma seduce: non impone il limite, ma chiama alla prestazione illimitata. La soggettività si trasforma in capitale umano, valutato e valutabile, costantemente chiamato all’ottimizzazione (Psicopolitica, 2014). L’Altro non è più figura dell’interdizione, ma pulsione algoritmica alla massimizzazione del rendimento.


3. Il soggetto come resto traumatico

A questa struttura performativa si affianca un rimosso traumatico, profondo, mai pienamente simbolizzato. La storia degli Stati Uniti è segnata da fratture originarie: la violenza coloniale, il genocidio indigeno, la schiavitù, le guerre imperiali, la segregazione razziale. Ma questi traumi sono spesso neutralizzati o spettacolarizzati, impedendo una reale soggettivazione collettiva.

Žižek osserva come l’11 settembre 2001 abbia infranto il velo ideologico della sicurezza americana: “L’attacco ha portato il reale nel cuore del simbolico americano” (Welcome to the Desert of the Real, 2002). Ma invece di elaborare il trauma, la risposta è stata iperrepressiva o spettacolare, confermando la tendenza a rimuovere l’inconscio. Il soggetto si presenta così come una superficie traumatica non simbolizzata, che esplode in forme sintomatiche: esplosioni di violenza, depressione, isolamento, dipendenze.


4. Il soggetto algoritmico

Nel passaggio dal neoliberismo alla datacrazia, la soggettività è sempre più modellata dai dispositivi digitali. Il sé non è più chiamato a desiderare, ma a rispondere a comandi algoritmici, spesso impercettibili. L’inconscio non è più strutturato come un linguaggio, ma come una rete neurale che calcola correlazioni e previsioni.

Han scrive: «L’algoritmo elimina la libertà, in quanto anticipa il desiderio» (Psicopolitica). Il soggetto non è più diviso, ma trasparente e prevedibile, ridotto a un fascio di dati. Il godimento viene anticipato, targettizzato, intensificato, senza più spazio per il sintomo o l’interruzione. In questo contesto, anche la psicoanalisi rischia di diventare un dispositivo di adattamento: un coaching dell’efficienza.


5. Sintomi, resistenze, resti

Eppure, il soggetto non si riduce mai del tutto al discorso dominante. Emergono rotture, faglie, resti sintomatici. Nelle culture afroamericane, queer, decoloniali, ma anche in alcuni settori della cultura critica (Layton, Fanon, Moten, Butler), si avverte un desiderio di riconnettere la soggettività al trauma, alla mancanza, alla relazione.

Žižek, in The Sublime Object of Ideology, ricorda che il soggetto è tale solo nella disfunzione: è dove il discorso non funziona, dove il significante non si chiude, che il soggetto può emergere. È questo il punto da cui può partire una soggettivazione nuova: non quella del potere o della performance, ma quella del limite, della fragilità, del legame. Un soggetto che non si fa da sé, ma che si scopre attraversato dall’Altro.


Conclusione: verso un soggetto “diviso” e non performante

Il soggetto nordamericano, così come viene prodotto dai miti dominanti, appare sovraccarico, saturo, ma mai davvero soggetto. L’assenza dell’Altro simbolico e il dominio del godimento lo lasciano esposto a un’esaurimento psichico e relazionale. Tuttavia, proprio nel fallimento di questa soggettivazione iper-performante, si aprono possibilità: ritorno del sintomo, ripresa del legame, rilancio della mancanza come apertura all’Altro. Una soggettivazione diversa potrebbe emergere non nel successo, ma nell’accettazione dell’incompiutezza.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1964). Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (2001). Autres écrits. Seuil.
  • Žižek, S. (1989). The Sublime Object of Ideology. Verso.
  • Žižek, S. (2002). Welcome to the Desert of the Real. Verso.
  • Žižek, S. (2006). The Parallax View. MIT Press.
  • Butler, J. (1990). Gender Trouble. Routledge.
  • Han, B.-C. (2014). Psicopolitica. Nottetempo.
  • Berardi, F. (2009). The Soul at Work. Semiotext(e).
  • Layton, L. (2004). Who’s That Girl? Who’s That Boy?. Other Press.



giovedì 8 maggio 2025

Miti di soggettivazione nella società cinese: tra ordine simbolico e flusso vitale



Abstract

Il presente contributo esplora i dispositivi culturali che sostengono i processi di soggettivazione nella società cinese contemporanea, focalizzandosi sul ruolo delle tradizioni taoista e confuciana, in rapporto con le trasformazioni imposte dal capitalismo postmoderno e dallo Stato autoritario. L'analisi muove da una prospettiva psicoanalitica lacaniana, integrata con le riflessioni di filosofi come Byung-Chul Han, François Jullien e Slavoj Žižek. L’articolo si propone di individuare i miti fondativi della soggettivazione cinese, mettendoli in tensione con la crisi dell’ordine simbolico occidentale e interrogando le possibilità di un atto soggettivo al di là delle coordinate culturali canoniche.

Parole chiave: soggettivazione, Cina, taoismo, confucianesimo, Lacan, capitalismo, Han, Žižek


1. Introduzione

Nel mondo occidentale la soggettivazione si struttura storicamente a partire da un confronto con la Legge, il Padre, il Nome e la loro crisi simbolica. Questo processo comporta una divisione del soggetto, che si costruisce come risposta a una mancanza strutturale e alla sua iscrizione nell'ordine dell'Altro. Diversamente, nella società cinese la costituzione del soggetto segue traiettorie differenti, più legate a un ethos della continuità, dell’armonia e del flusso vitale che a un taglio strutturante simbolico. In quest’ottica, taoismo e confucianesimo non sono soltanto filosofie o religioni, ma veri e propri dispositivi culturali di soggettivazione.

La Cina contemporanea, inoltre, rappresenta uno dei più potenti laboratori mondiali di sperimentazione politico-economica: un capitalismo autoritario e tecnologico che coniuga efficienza economica, controllo sociale e profondi riferimenti simbolici alla propria tradizione. La soggettività cinese si colloca quindi all’incrocio tra forme antiche di legame e una soggettivazione performativa contemporanea, in cui il soggetto non è più represso, ma stimolato a eccellere.


2. Taoismo: soggetto senza taglio?

Il taoismo, fondato sull’idea del Dao (道) come principio immanente e ineffabile, rifiuta la centralità della Legge e del Nome. Il celebre incipit del Daodejing – «Il Dao che può essere detto non è l’eterno Dao» – introduce un campo simbolico in cui il linguaggio stesso è sospetto, e il soggetto è invitato a svuotarsi per aderire al flusso naturale delle cose.

Come osserva Jullien (2003), l’universo taoista non conosce il conflitto interiore come motore di soggettivazione. Il Sé non si costituisce per separazione, ma per sottrazione: il soggetto si forma nel gesto di abbandonare ogni volontà personale per seguire il movimento del cosmo. In questo senso, la soggettività taoista è quasi un’antitesi del soggetto lacaniano: non si struttura attraverso la mancanza, ma si dissolve nel processo vitale.

Tuttavia, non si tratta di una psicosi culturalizzata, come si potrebbe forzatamente pensare in un’ottica lacaniana, ma di un’altra forma di economia psichica, che rifiuta l’intervento traumatico del significante e privilegia l’armonizzazione spontanea.


3. Confucianesimo: una Legge senza desiderio

Accanto al taoismo, il confucianesimo rappresenta una forma di soggettivazione più aderente a un ordine simbolico codificato. I rituali (li), la pietà filiale (xiao), i ruoli sociali definiti, costruiscono una soggettività che si sviluppa attraverso l’interiorizzazione dell’ordine morale e familiare. L’autorità del padre e dell’anziano non è imposta in modo traumatico, ma come parte di un equilibrio cosmico e relazionale.

Il confucianesimo, in questo senso, funziona come un sostituto culturale del Nome-del-Padre, ma senza lo scarto traumatico e l’interdizione tipici della struttura edipica occidentale. Si tratta piuttosto di una normatività armonica, che produce soggetti funzionali alla comunità, più che individui divisi dal proprio desiderio.

Come nota Byung-Chul Han (2014), questo tipo di soggettività è facilmente cooptabile dai dispositivi contemporanei del neoliberismo: l’enfasi sulla prestazione, sulla dedizione, sull’eccellenza individuale viene recepita senza conflitto interiore, come prolungamento di una tradizione collettiva.



4. Il soggetto nel capitalismo cinese: prestazione e controllo

Il soggetto cinese contemporaneo vive una tensione tra tradizione e innovazione. Da un lato, permane l’impronta confuciana dei ruoli e dell’appartenenza; dall’altro, il capitalismo globalizzato impone forme di soggettivazione nuove, incentrate sull’efficienza, la prestazione, la competizione.

Han (2020) descrive questa nuova configurazione come una “società della trasparenza”, in cui il soggetto è spinto a esporsi, a controllarsi, a performare. Non c’è più bisogno della Legge: è il soggetto stesso a sorvegliarsi. In questo senso, la soggettività cinese è perfettamente funzionale a un regime di auto-sfruttamento soft, in cui la soggezione non passa attraverso l’interdizione, ma attraverso l’interiorizzazione di un Super-Io che spinge a eccellere senza tregua.

Žižek (2006, 2011) spinge la riflessione più in là, notando come il capitalismo cinese riesca a funzionare senza soggetto: «un capitalismo senza inconscio». Il modello cinese realizza una forma di post-soggettivazione in cui la coerenza ideologica non è più necessaria. Si può essere confuciani nei valori, comunisti nella propaganda, capitalisti nella prassi economica – senza apparente contraddizione. Il soggetto non è più diviso, perché non è più necessario.


5. Una soggettività modulare e flessibile

Questo quadro produce un soggetto modulare, fluido, collettivo, iperadattabile. Un soggetto che non si costituisce per sottrazione, ma per accumulazione di funzioni. La clinica interculturale conferma questa configurazione: nei contesti terapeutici, il soggetto cinese spesso non presenta sintomi legati alla colpa o alla trasgressione, quanto piuttosto forme di stanchezza, isolamento, esaurimento, che Han definisce come tipiche della “società della prestazione”.

Tuttavia, anche all’interno di questo scenario, emergono atti singolari: forme di dis-identificazione, di rifiuto, di fuga simbolica o creativa, che mostrano come il soggetto non sia mai del tutto sussumibile dall’ordine culturale. Il sintomo, in questo senso, diventa il luogo in cui il soggetto, pur non essendo mai stato pienamente nominato, fa comunque esistere un vuoto.


6. Conclusione: tra mito e clinica

Il mito cinese della soggettivazione si articola tra flusso e forma, tra assenza di Legge e eccesso di norma. Non si tratta di giudicare, ma di comprendere le logiche di soggettivazione che operano in una cultura non edipica. La soggettività cinese non si forma a partire da un vuoto simbolico da colmare, ma da un pieno cosmico da abitare.

In un tempo in cui anche in Occidente l’ordine simbolico vacilla, e il soggetto si trova frammentato tra godimento, prestazione e controllo, guardare alla soggettività cinese significa anche interrogare la possibilità di un nuovo atto soggettivo: un atto che non ricada nella nostalgia del Padre, né si perda nel flusso del godimento, ma apra lo spazio per un’etica del soggetto come discontinuità, nonostante tutto.


Bibliografia

  • Han, B.-C. (2014). La società della stanchezza. Nottetempo.
  • Han, B.-C. (2020). La società senza dolore. Einaudi.
  • Jullien, F. (2003). La propensione delle cose. Cortina.
  • Lacan, J. (1975). Il seminario, Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.
  • Žižek, S. (2006). Visions of Excess: Selected Writings on Economy, Society and Culture. Verso.
  • Žižek, S. (2011). Living in the End Times. Verso.
  • Wang, B. (2004). The Sublime Figure of History: Aesthetics and Politics in Twentieth-Century China. Stanford University Press.


mercoledì 7 maggio 2025

Miti di Soggettivazione indiani: Dharma, Ātman e Inconscio.


Introduzione

La soggettivazione, intesa in senso psicoanalitico come emergenza del soggetto a partire dalla divisione interna tra desiderio, legge e godimento, assume nelle diverse civiltà connotazioni radicalmente differenti. Nel caso della cultura indiana, la letteratura psicoanalitica, da Sudhir Kakar a Gananath Obeyesekere, ha proposto letture originali della mente e della soggettività, che si distanziano significativamente dal modello occidentale edipico e nevrotico. In chiave lacaniana, è opportuno precisare che non si tratta di una soggettività priva di mancanza o di barratura dell’Altro, ma piuttosto di un'articolazione simbolica e fantasmaticamente diversa di questi elementi.


1. L’ordine cosmico e la soggettivazione rituale

La cultura vedico-induista tradizionale si fonda su un’ontologia relazionale, dove l’individuo non si concepisce come autonomo, ma come parte di un ordine cosmico già dato: il Dharma. Tale ordine non è vissuto come interdicente nel senso occidentale (padre edipico), bensì come orizzonte simbolico di senso e ruolo. Come scrive Kakar:

«Il Sé è definito dalla sua funzione all’interno di una rete di relazioni ritualizzate; la tensione edipica è spesso assorbita nella continuità con la figura materna e nella ritualizzazione della funzione paterna»
(Kakar, The Inner World, 1978, p. 88).

Questo porta a una soggettivazione che non rifiuta l’Altro, ma tende a non tematizzarne l’assenza o la castrazione nel modo tipico della nevrosi occidentale.


2. Il Sé come illusione: dissoluzione più che conflitto

In alcune forme di spiritualità indiana (soprattutto buddista, ma anche nell'Advaita Vedanta), la soggettività è problematizzata come illusione (maya) da superare. Qui l’obiettivo non è la realizzazione del soggetto ma la dissoluzione del Sé nell’Uno o nel vuoto. Žižek commenta:

«Nel buddismo, il soggetto non è un vuoto costitutivo ma un’illusione da smascherare. Non c’è soggetto come mancanza, ma solo flusso»
(Žižek, Less Than Nothing, 2012, p. 478).

Tale orientamento suggerisce una soggettività poco attraversata dalla divisione simbolica, dove il desiderio viene trasceso piuttosto che elaborato come mancanza.


3. Diagnosi strutturale e lettura lacaniana

Applicando con cautela la griglia diagnostica lacaniana, possiamo ipotizzare che:

  • La nevrosi isterica, fondata sul desiderio dell’Altro barrato, sia meno diffusa nella soggettivazione indiana tradizionale, dove l’Altro (familiare, rituale, divino) è vissuto come consistente e ordinatore, anche se non privo di ambivalenze.
  • Forme di ossessività rituale possono essere più comuni, in quanto il soggetto si posiziona nel proprio ruolo attraverso ripetizioni simboliche, senza entrare nel conflitto col Padre simbolico nel senso edipico stretto.
  • L’assenza di rottura simbolica (in senso lacaniano) può predisporre, in alcuni casi, a una soggettivazione perversa nel senso sistemico, dove il godimento si mantiene entro il circuito simbolico senza castrazione esplicita.
  • La tendenza alla dissoluzione del Sé, in alcune pratiche religiose o mistiche, può infine aprire il campo a forme psicotiche latenti o a soggettivazioni borderline, nei casi in cui non vi sia sufficiente ancoraggio simbolico individuale.

Tuttavia, questi elementi non costituiscono una diagnosi generalizzata della società indiana, ma rappresentano tipi ideali interpretativi.


Conclusione

La soggettivazione nella cultura indiana non può essere intesa come priva di legge o di mancanza, ma come organizzata attorno a una simbologia differente da quella giudaico-cristiana. Il soggetto non è negato, ma non emerge principalmente come effetto del conflitto edipico, bensì come funzione relazionale e cosmica. Questo sposta l’asse dalla nevrosi classica a forme di soggettività più fluide, ritualizzate o dissolventi, che richiedono un’analisi clinica e culturale attenta alle specificità storiche e simboliche.


Bibliografia essenziale

  • Kakar, S. (1978). The Inner World: A Psychoanalytic Study of Childhood and Society in India. Delhi: Oxford University Press.
  • Žižek, S. (2012). Less Than Nothing: Hegel and the Shadow of Dialectical Materialism. London: Verso.
  • Obeyesekere, G. (1981). Medusa’s Hair: An Essay on Personal Symbols and Religious Experience. Chicago: University of Chicago Press.
  • Han, B.-C. (2010). La società della stanchezza. Nottetempo.
  • Berardi, F. (2009). La fabbrica dell’infelicità. DeriveApprodi.
  • Lacan, J. (1966). Écrits. Seuil.
  • Lacan, J. (2005). Il seminario, Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.


Miti di Soggettivazione Latinoamericani: Tra Colonizzazione, Alterità e Reinvenzione del Desiderio


L’identità latinoamericana si costituisce su una frattura: quella tra un passato mitico e una modernità imposta. Non si tratta solo di un problema storico o politico, ma di una questione strutturale che riguarda la soggettivazione. I miti, in questo senso, non sono meri racconti arcaici, ma dispositivi simbolici che orientano la posizione del soggetto nel mondo, definiscono la sua relazione con l’Altro, e determinano il suo rapporto con il desiderio, la legge, il corpo.

L’America Latina non è nata da un’origine pura, ma da una violenta collisione di simboli. La conquista ha imposto nuovi S1 — Dio, Re, Progresso — sovrapponendosi a quelli preesistenti senza annullarli del tutto. È in questa zona d’intersezione e conflitto che si forgiano soggettività ibride, meticce, frammentate e, allo stesso tempo, profondamente creative.


1. Il cosmo indigeno: soggetto come parte del tutto

Le cosmogonie indigene pre-colombiane non pongono il soggetto al centro, ma lo iscrivono in una rete di relazioni tra umani, spiriti, natura e divinità. In culture come quelle Quechua, Guaraní o Maya, l’essere umano non è un individuo separato, ma parte di un tessuto di reciprocità cosmica. Il mito non è narrazione secondaria, ma S1 primario che ordina il reale, dà senso al desiderio, orienta la vita quotidiana.

Ad esempio, la figura della Pachamama, la Madre Terra, non è un semplice spirito della natura, ma un principio relazionale. Onorarla significa riconoscere il proprio debito simbolico verso ciò che rende possibile l’esistenza. In chiave lacaniana, potremmo dire che il soggetto non si costituisce attorno alla castrazione e alla legge del Nome-del-Padre, ma attorno alla donazione e al rituale come forma di simbolizzazione del desiderio e della mancanza.

In questo contesto, la mancanza (manque-à-être) non è vissuta come angoscia di separazione, ma come apertura all’altro, come possibilità di circolazione simbolica. Il desiderio non si presenta come mancanza da colmare, ma come danza cosmica, come posizione dentro una rete vivente.


2. Colonialismo: forclusione e scissione simbolica

L’invasione europea produce una discontinuità violenta nel tessuto simbolico. Le autorità coloniali impongono i propri significanti — Cristo, Legge, Proprietà, Mercato — cercando di sostituire quelli autoctoni. Il soggetto colonizzato è interpellato da un Altro che non riconosce i suoi codici e che pretende di imporre una verità unica. La colonialità del sapere (Mignolo) si configura, a livello psichico, come una vera e propria forclusione dell’Altro simbolico originario.

Lacanianamente, potremmo dire che il Nome-del-Padre indigeno è espulso dal campo simbolico. Ciò non genera semplicemente alienazione, ma una spaccatura più profonda, che può assumere la forma di una psicosi culturale: la realtà non è più ordinata da un S1 condiviso, e il soggetto è costretto a oscillare tra identificazioni imposte e resistenze silenziose. L'interiorizzazione dei significanti coloniali non è mai completa: genera senso di colpa, estraneità, e un desiderio che non trova parole.

Inoltre, il corpo stesso diventa campo di battaglia: il corpo del colonizzato è disciplinato, sessualizzato, reso oggetto. Il godimento è regolato, ridotto, colpevolizzato. Ma proprio nel corpo si conservano le tracce di un sapere altro, di un desiderio che non si lascia catturare. Come nei rituali sincretici afroamericani o nelle danze guaraní, il corpo continua a parlare l’antico linguaggio dell’Altro espulso.


3. Soggettività meticce e l’antropofagia simbolica

Il soggetto latinoamericano, però, non è solo vittima della frattura. L’ibridazione, anziché solo perdita, diventa anche risorsa. Il modernismo brasiliano e la filosofia dell’antropofagia (Oswald de Andrade) propongono una strategia di soggettivazione attiva: divorare l’Altro coloniale, trasformarlo, metabolizzarlo. Come ha mostrato Suely Rolnik (2017), questa logica opera nel corpo, nell’arte, nel pensiero.

Si tratta, in termini lacaniani, di riattivare la funzione del discorso analitico: il soggetto non parla più dalla posizione dell’Altro coloniale, ma dalla propria mancanza, trasformando gli S1 ricevuti in significanti nuovi. L’oggetto a, quel resto di godimento che sfugge alla cattura simbolica, diventa centro produttivo. La mancanza, lungi dall’essere deficit, si fa matrice di creazione simbolica.

Il meticcio, il mestizo, come figura di soggettivazione, non cerca una coerenza identitaria, ma una posizione nella discontinuità. È il soggetto che abita la frontiera (Anzaldúa), che fa della dislocazione uno spazio creativo. Qui il significante padrone non si impone, ma si reinventa.4. Decolonialità e riscrittura del legame sociale

I movimenti decoloniali contemporanei non mirano al ritorno puro all’origine, ma alla riscrittura del legame sociale. Il buen vivir, le epistemologie femministe indigene, le lotte per la giustizia ecologica e simbolica, propongono un altro ordine discorsivo: uno in cui il godimento non sia monopolio del soggetto padrone, ma sia distribuito, condiviso, articolato nel legame.

In termini lacaniani, si tratta di passare dal discorso del padrone al discorso analitico e forse a un discorso nuovo, ancora in formazione: dove il soggetto non sia ridotto a funzione del Capitale, ma possa riaprire il rapporto con il proprio desiderio nella relazione con l’Altro. Un discorso in cui il Nome-del-Padre possa rinascere come garante del legame e non come imposizione normativa.


Conclusione 

La soggettivazione latinoamericana è un processo incompiuto, ma non per questo deficitario. Essa ci mostra che il soggetto non si costituisce solo attraverso la legge e la rinuncia, ma anche attraverso la creazione simbolica, la resistenza silenziosa, l’apertura all’altro. Lacan ci insegna che non esiste soggetto senza mancanza, e che proprio da questa mancanza può emergere il desiderio come forza di trasformazione.

In America Latina, la soggettivazione è sempre anche una lotta: contro l’imposizione di significanti estranei, contro la riduzione a identità fisse, contro la cancellazione dell’alterità. Ma è anche una danza, un canto, una reinvenzione continua. Un modo per dire che anche nella frattura, anche nel trauma, è possibile produrre legame, parola, vita.


BIBLIOGRAFIA

  • Mignolo, W. D. (2015). America Latina e modernità. L'opzione decoloniale. Meltemi.
  • Rolnik, S. (2017). Spettri dell’antropofagia. Arte, psicoanalisi e politiche del desiderio. Nottetempo.
  • Anzaldúa, G. (1987). Borderlands/La Frontera: The New Mestiza. Aunt Lute Books.
  • Sánchez Aguilar, A. (2019). Le più belle storie dei miti sudamericani. Gribaudo.
  • Da Soller, R. (2025). Loverbar, Cüirtopia e le crepe del Borikén. DeriveApprodi.
  • Lacan, J. (1969-70). Il rovescio della psicoanalisi. In Seminario XVII. Einaudi.


mercoledì 23 aprile 2025

Il Simposio di Platone nel Seminario VIII di Lacan: transfert, clinica e lavoro educativo di gruppo



Nel Seminario VIII, Il transfert, Jacques Lacan propone una rilettura radicale del Simposio di Platone come chiave di lettura strutturale del transfert analitico. L’amore platonico, lungi dall’essere una sublimazione ingenua, diventa per Lacan una struttura di desiderio, che permette di comprendere il transfert non come attaccamento, ma come posizione soggettiva nel discorso.


1. Il transfert in analisi: Eros tra mancanza e sapere

Nel racconto di Diotima, Eros nasce da Penía (mancanza) e Póros (risorsa) ed è "filosofo", perché “desidera ciò che non ha”. Lacan ne fa il modello del soggetto desiderante, e del transfert come messa in gioco di tale mancanza:

“Eros non è il Bene, ma ciò che spinge verso di esso” (Seminario VIII, Lezione VI).

Il transfert, nella clinica, è questo stesso movimento:

“Il transfert non è un sentimento: è l’apparizione dell’inconscio nel campo del sapere supposto” (Seminario VIII, Lezione I).

L’amore per l’analista nasce non dalla persona, ma dalla posizione simbolica che egli occupa: quella di colui che “è supposto sapere qualcosa del mio desiderio”.


2. Socrate come modello dell’analista: desiderato ma non desiderante

Socrate incarna una posizione enigmatica. Come dice Alcibiade nel Simposio:

“Ho tentato di sedurlo… ma egli non cedeva” (Pl., Simposio, 219c).

Lacan legge questo come il rifiuto da parte dell’analista di occupare il posto dell’ideale, mantenendo invece quello dell’oggetto a, causa del desiderio.

“Il transfert non si produce se non a condizione che il soggetto trovi l’analista come oggetto del suo amore, ma al contempo come quello che non risponde” (Seminario VIII, Lezione XII).

L’analista, come Socrate, non insegna, ma interroga il desiderio, mantenendo vuoto il suo posto.


Dal transfert analitico all’atto educativo

Questa struttura del transfert non si esaurisce nella clinica, ma può trovare una declinazione nell’ambito educativo, soprattutto nel lavoro di gruppo, con soggetti fragili o marginalizzati. Ciò richiede però una postura etica, non una trasposizione tecnica.


3. Il gruppo come luogo metaxu: tra sapere e desiderio

Come Eros è metaxu, anche il gruppo può costituirsi come spazio di passaggio:

  • tra sapere e mancanza,
  • tra identità e soggettivazione,
  • tra isolamento e parola.

L’educatore, se non occupa il posto del maestro-sapiente, può sostenere il gruppo come luogo di emergenza del desiderio.

“L’analista non deve sapere, deve essere il luogo dove il soggetto parla” (Seminario VIII, Lezione IX).

Trasposto all’educazione: l’educatore non deve saturare il sapere, ma mantenere aperto il campo dell’invenzione.


4. Saper non sapere: il sapere supposto e l’ospitalità del vuoto

Nel transfert educativo, come in quello analitico, il soggetto suppone all’altro un sapere. Il rischio è che l’educatore lo confermi, diventando un piccolo padrone (S1). Ma se resiste a questo, può favorire una simbolizzazione soggettiva:

“È nel posto del non-sapere che si produce il sapere analitico” (Seminario VIII, Lezione XI).

Così, anche nel gruppo educativo:

  • si genera sapere, ma non si trasmette come dottrina;
  • si accoglie la parola senza volerla spiegare tutta.


Conclusione: una clinica del desiderio oltre la cura

L’amore, dice Diotima, “non è bello né buono, ma desidera il bello e il buono” (Simposio, 202b).
Lacan lo interpreta come metafora del soggetto stesso: mai coincidente con sé, mosso dalla mancanza, aperto alla creazione.

Nel gruppo, come nell’analisi, la domanda è:
Come creare uno spazio che non chiuda il desiderio, ma lo ospiti?
Come educatori, possiamo sostenere non il sapere, ma il desiderio di sapere. E, come Socrate, restare nel vuoto che lo genera.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1991). Il Seminario. Libro VIII. Il transfert. Torino: Einaudi.
  • Platone. Simposio. In: Opere, vol. III, Laterza.
  • Miller, J.-A. (2012). Introduzione alla clinica lacaniana. Roma: Astrolabio.
  • Recalcati, M. (2007). L’inconscio teologico di Platone. In Cosa resta del padre?. Milano: Cortina.
  • Rinaldi, R. (2004). Il sapere supposto sapere e il transfert. In Psicopatologia del legame sociale. Milano: FrancoAngeli.


giovedì 10 aprile 2025

Antigone e Creonte: Paradossi del Seminario VII di Lacan

  

Nel Seminario VII di Lacan, L'Etica della Psicoanalisi, la figura di Antigone emerge come un esempio paradigmatico della tensione tra il desiderio individuale e l’ordine simbolico, ma non è l’unico protagonista della drammatica dialettica. Accanto a lei, figura Creonte, il rappresentante dell’autorità, della legge e del simbolico. Il loro scontro non è solo un conflitto tra due leggi differenti, ma anche un esempio delle contraddizioni strutturali che Lacan individua nell’etica del desiderio, in particolare nelle sue implicazioni riguardo al Reale.

Antigone: la disobbedienza radicale al simbolico

Antigone, nel mito, sfida apertamente l’ordine stabilito da Creonte, il quale proibisce la sepoltura del corpo di suo fratello Polinice. La sua scelta di seppellirlo, nonostante il rischio di morte, è una disobbedienza radicale alla legge, ma non semplicemente un rifiuto dell'autorità. Lacan interpreta il gesto di Antigone come una risposta a un desiderio che non può essere compreso né dalla legge simbolica né dalle convenzioni sociali. Antigone incarna un atto di fedeltà al proprio desiderio, un desiderio che si colloca al di fuori della mediazione simbolica e che non può essere ridotto alle leggi stabilite da Creonte.

Lacan utilizza Antigone per esemplificare quella che considera l'etica del desiderio, la quale si fonda sulla fedeltà al proprio desiderio senza una mediazione simbolica. La sua etica, dunque, non si conforma né alla legge morale né a quella sociale, ma rappresenta una scelta pura e irrazionale che, come avviene per il soggetto psicoanalitico, è condannata a incontrare il Reale. La morte di Antigone, quindi, non è solo una punizione, ma il segno di una verità che sfugge a ogni tentativo di simbolizzazione.

Creonte: la legge come garanzia di ordine e stabilità simbolica

Creonte, al contrario, rappresenta l’ordine simbolico, il principio di legge e giustizia che regge la struttura sociale. La sua posizione è quella di chi impone la norma per mantenere l’ordine, ma, nella sua rigidità, non è in grado di comprendere la necessità e la legittimità del desiderio di Antigone. La sua legge non accetta alcuna eccezione, e la sua posizione etica si basa sulla convinzione che solo il rispetto assoluto delle leggi garantisca la stabilità della polis.

Lacan, tuttavia, sottolinea un punto cruciale: la legge di Creonte è altrettanto problematica della disobbedienza di Antigone. Se il gesto di Antigone rappresenta una negazione della legge, la legge di Creonte stessa è irrazionale nel suo tentativo di esercitare un controllo assoluto. Questo è il paradosso di Creonte: pur sostenendo di agire in nome della giustizia, la sua legge non è capace di accogliere le necessità del desiderio e finisce per diventare un’istanza repressiva, disumanizzante. Creonte è un simbolo di quella che Lacan chiamerebbe "legge fantasmaticamente incarnata", incapace di cogliere la dimensione del desiderio come elemento costitutivo del soggetto.

Il paradosso del desiderio e della legge

L’incontro tra Antigone e Creonte evidenzia il paradosso centrale della proposta lacaniana: la tensione tra il desiderio e la legge, tra il Reale e il simbolico. Antigone, nella sua fedeltà al proprio desiderio, rifiuta qualsiasi mediazione simbolica, ponendosi al di fuori dell’ordine sociale. Tuttavia, il suo atto non è senza conseguenze. La sua morte non rappresenta una vittoria del desiderio sull’autorità, ma l'espressione tragica di un desiderio che non può essere integrato nel simbolico.

Creonte, dal canto suo, rappresenta una posizione etica che, pur essendo fondata sulla legge, non è in grado di comprendere la portata del desiderio, né di farvi fronte senza distruggere ciò che tenta di proteggere. La sua legge, pur basata su principi di ordine e giustizia, si rivela incapace di riconoscere l’irriducibile complessità del desiderio umano.

Il Reale e l’incontro tragico: la fine dell’etica del desiderio?

Lacan, nel Seminario VII, invita a riflettere sulla natura dell’etica, intesa come fedeltà al desiderio. Tuttavia, l’esempio di Antigone suggerisce che questa fedeltà, pur essendo un atto radicale di autenticità, non possa facilmente essere integrata nel simbolico. L’etica del desiderio si scontra inevitabilmente con il Reale, con ciò che non può essere simbolizzato, e questo incontro, come nel caso di Antigone, è tragico.

La morte di Antigone non è il punto di arrivo di un trionfo etico, ma l’espressione di una verità che sfida ogni mediazione. In questo senso, Lacan non propone un’etica che si limiti a glorificare la fedeltà al desiderio come valore assoluto, ma piuttosto ci mette di fronte alla necessità di una dialettica tra il desiderio e la legge, tra il Reale e il simbolico. Se da un lato il desiderio è ciò che definisce l’individualità del soggetto, dall’altro lato la legge è necessaria per l’organizzazione sociale e per il riconoscimento reciproco.

Conclusioni: il paradosso dell’etica di Antigone e Creonte

La tragedia di Antigone e Creonte, letta attraverso la lente del pensiero lacaniano, ci offre un’immagine della tensione etica che attraversa la psiche e la società. Entrambi i personaggi incarnano delle posizioni estreme, ma la loro opposizione non è solo un contrasto tra due valori morali; è una rappresentazione della difficile conciliazione tra il desiderio individuale e l’ordine simbolico, tra il Reale e il simbolico.

L’etica proposta da Lacan, infatti, non è quella di un’adesione cieca alla legge o a una visione puramente soggettiva del desiderio. È, piuttosto, una costante mediazione tra questi due estremi, che trova la sua realizzazione non nella soluzione del conflitto, ma nel riconoscimento della sua necessità e della sua tragicità. L’incontro di Antigone con Creonte non può che terminare nella tragedia, proprio perché ogni posizione porta con sé una sua verità, ma anche un’impasse.

Bibliografia

        •Kantzas,  Panayotis, La città senza          
         Antigone e senza Creonte, Unifi, Facoltà di           Scienze Politiche 2012-2019
        •Lacan, Jacques. Le séminaire, Livre VII:                 L’éthique de la psychanalyse. Seuil, 1986
        •Zupančič, Alenka. The Ethics of the Real:               Antigone's Dilemma. 2014.
        •Miller, Jacques-Alain. L'Orientation                                 Lacanienne, 2000.
        •Roudinesco, Élisabeth. Jacques Lacan: Una            biografia. Einaudi, 2002.

🔍L'Analisi in Lacan

Fare un’ analisi secondo Jacques Lacan non è semplicemente parlare dei propri problemi. È un’esperienza trasformativa, in cui il soggetto ...