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martedì 17 giugno 2025

Il vuoto nella pratica istituzionale: un'etica dell'attesa







1. Il vuoto come esperienza concreta nei servizi

Nel lavoro quotidiano nei servizi socio-sanitari ed educativi, il vuoto si presenta come esperienza concreta: momenti di sospensione, inattività, silenzio. Pause improvvise nel ritmo istituzionale, tempi morti tra un’attività e l’altra, assenze che sembrano pesare sull’atmosfera. Talvolta, questi vuoti sono vissuti come errori da colmare, falle nel dispositivo da riparare. Eppure, se ci si sottrae alla logica dell’efficienza immediata, si può riconoscere in questi interstizi il riemergere del reale, quell’eccedenza che sfugge all’organizzazione e che interroga profondamente la nostra posizione etica di operatori.


2. Vuoto, desiderio e mancanza nel soggetto

La psicoanalisi lacaniana ci invita a un'altra lettura: il vuoto non è assenza di senso, ma condizione strutturale del desiderio. Il soggetto umano si costituisce attorno a una mancanza originaria – il manque-à-être – che non va colmata, ma riconosciuta e sostenuta. Lacan afferma che “non c’è atto simbolico se non nel vuoto” (Seminario V): è nel vuoto che può emergere un nuovo significante, un atto soggettivo. In questa luce, i momenti “vuoti” nel lavoro educativo o terapeutico non sono da eliminare, ma da abitare con rispetto.


3. Il disagio degli operatori di fronte al vuoto

Nelle équipe, il vuoto mette spesso in crisi l’identificazione con un ideale di efficienza e di progettazione continua. L’operatore che si confronta con un’utenza silenziosa, apatica, non cooperante, può sentirsi inutile o inadeguato. Il rischio è la reazione ansiosa: colmare subito, agire, riempire. Ma questa risposta rischia di negare il tempo del soggetto e l’opportunità del desiderio. È necessario uno spostamento: dalla prestazione alla presenza, dalla fretta al rispetto per il tempo logico del soggetto.


4. Il tempo logico e l’attesa significativa

Lacan distingue il tempo cronologico da quello logico: il soggetto non si costituisce nel tempo lineare, ma attraverso rotture, sospensioni, atti. L’etica istituzionale che accoglie questa logica può offrire spazi dove il tempo del soggetto sia rispettato, e dove il desiderio possa articolarsi senza essere spinto o ridotto a bisogno. È la capacità di attendere senza esigere che rende fecondo un incontro. L’operatore che sa attendere senza forzare assume una posizione prossima a quella dell’analista.


5. Esempi clinici e quotidianità del vuoto

Pensiamo a un adolescente in un centro educativo che non partecipa alle attività, rifiuta ogni dialogo, sembra non volere nulla. La tentazione è quella di “fare qualcosa”: organizzare, intervenire, proporre. Ma può essere proprio l’assenza di intervento diretto, il rispetto per quel ritiro, a creare uno spazio dove qualcosa accada. Un giorno, forse, quel ragazzo chiede una musica, una frase, uno sguardo: in quel momento il soggetto ha occupato il vuoto con un proprio gesto.


6. Il vuoto come occasione di soggettivazione

Come ricorda Massimo Recalcati nella sua Clinica del vuoto, è nell’assenza dell’Altro che garantisce – nel tempo in cui il grande Altro si mostra mancante – che può emergere la soggettività autentica. Non si tratta di abbandono, ma di sostegno non intrusivo. Il vuoto non è il nulla, ma il luogo potenziale dove il soggetto può produrre un atto proprio, non imposto, non eterodiretto. Anche nelle riunioni d’équipe, momenti di disorientamento o sospensione progettuale possono divenire, se ben accolti, spazi di elaborazione collettiva e di ripensamento dell’azione.


7. Etica della presenza e clinica dell’inconsistenza

Questa pratica del vuoto richiede una trasformazione della posizione dell’operatore: non più colui che offre sempre senso, ma colui che sa sostenere l’inconsistenza del sapere. Una presenza che non pretende, che non chiude, che non anticipa. Si tratta, in termini lacaniani, di “occupare il posto dell’oggetto a”, ovvero sostenere la mancanza dell’Altro senza volerla saturare. Questo è il vero atto clinico, che riguarda tanto l’istituzione quanto la relazione uno per uno.


8. Conclusione: una politica della mancanza

In un tempo istituzionale dominato dalla logica dell’efficienza, accogliere il vuoto è un gesto clinico e politico. È un’etica dell’attesa, della presenza non saturante, della fiducia nel tempo soggettivo. Il vuoto, lungi dall’essere un fallimento, è ciò che rende possibile l’invenzione, la parola, l’atto. È lì che può emergere il soggetto, con il proprio tempo, la propria voce, la propria mancanza.

Bibliografia

  • Lacan, J. (1957-58). Il Seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio. Torino: Einaudi.
  • Lacan, J. (1966). Scritti. Torino: Einaudi.
  • Recalcati, M. (2010). Clinica del vuoto. Milano: Raffaello Cortina.
  • Heidegger, M. (1927). Essere e tempo. Milano: Longanesi.
  • Fink, B. (1995). The Lacanian Subject. Princeton University Press.


venerdì 30 maggio 2025

La leadership generativa nel Terzo Settore: dinamiche soggettive e pratiche collettive in un’epoca di trasformazione

 

Social Worker


Introduzione: crisi economica, politica e sfide dell’internet economy

Il contesto economico e politico attuale è caratterizzato da una complessità crescente e da trasformazioni profonde, dovute alla crisi della globalizzazione neoliberale, all’instabilità geopolitica e alla diffusione accelerata delle tecnologie digitali, che modificano radicalmente i modelli di produzione, lavoro e partecipazione sociale. L’economia digitale (internet economy) impone nuove modalità di governance e di organizzazione, che incidono anche sui processi di rappresentanza e sulle forme di leadership.

In tale scenario, il Terzo Settore emerge come spazio cruciale di innovazione sociale, capace di tessere relazioni tra mercato, istituzioni e comunità. La sfida principale riguarda la capacità di sviluppare modelli di leadership che superino i limiti dei tradizionali approcci manageriali, spesso gerarchici e verticali, per adottare forme più fluide, distribuite e generative.


Leadership postmanageriale e generativa: definizioni e riferimenti teorici

La leadership postmanageriale si distingue per un approccio meno autoritario, fondato su pratiche di collaborazione, condivisione del potere e valorizzazione della soggettività collettiva. La leadership generativa, collegata a questa, si concentra sull’emergere di nuove soggettività e sulla costruzione di significati condivisi, attivando processi creativi e trasformativi all’interno delle organizzazioni.

Il contributo della psicoanalisi lacaniana risulta fondamentale per interpretare la leadership come funzione simbolica. Secondo tale prospettiva, la leadership agisce come “significante padrone” che organizza e stabilizza il campo sociale e simbolico, ma che nel modello generativo non si manifesta come imposizione rigida, bensì come apertura a un campo plurale, in cui più soggettività trovano spazio e possibilità di espressione.


La leadership nel Terzo Settore: pratiche distribuite e soggettività generative

Nel Terzo Settore, che include cooperative sociali, associazioni, enti non profit e realtà di economia sociale, la leadership generativa si manifesta in forme situate, distribuite e relazionali. Queste forme si fondano su valori di partecipazione, inclusione e mutualità, distinguendosi da modelli aziendalistici tradizionali.

Gli operatori sociali, educatori professionali, psicologi e figure di coordinamento svolgono funzioni di leadership diffusa, in cui il ruolo formale non coincide con l’esercizio effettivo della funzione simbolica di guida e facilitazione. La leadership qui è lavoro simbolico e relazionale, capace di integrare le diversità e di favorire processi di empowerment.

Esempio 1: un progetto di inclusione sociale in una grande città

In un’organizzazione dedicata all’inclusione sociale di persone in situazione di vulnerabilità, la leadership è distribuita tra educatori, mediatori culturali e coordinatori, che insieme costruiscono spazi di dialogo e decisione condivisa. La pratica di leadership generativa ha permesso di superare rigidità organizzative e di valorizzare le competenze e le esperienze dei singoli, migliorando la qualità degli interventi e la coesione interna.

Esempio 2: una rete territoriale per il sostegno alle famiglie

Una rete di enti del Terzo Settore impegnata nel sostegno alle famiglie ha sviluppato un modello di leadership situata, in cui i leader locali agiscono come facilitatori di processi di co-progettazione e mediazione tra diversi attori sociali. La leadership non è concentrata in un singolo soggetto, ma si distribuisce e si adatta alle diverse situazioni, promuovendo una governance partecipata e inclusiva.


Sindacalismo critico: laboratorio di leadership generativa

Anche nel campo sindacale, in particolare nei sindacati di base, si osserva un’importante evoluzione verso forme di leadership generativa e distribuita. Questi sindacati promuovono pratiche di autorganizzazione, partecipazione diretta e costruzione collettiva di strategie, mettendo in discussione i modelli tradizionali di rappresentanza verticale.

In questo contesto, la leadership si esprime come capacità di attivare soggettività multiple, riconoscere la pluralità delle identità lavorative e mediare i conflitti trasformandoli in momenti di innovazione sociale e culturale.

Esempio 3: rappresentanza dei lavoratori della gig economy

Un sindacato di base ha avviato una campagna di rappresentanza per lavoratori della gig economy, tipicamente frammentati e privi di tutele tradizionali. La leadership collettiva e assembleare ha permesso di costruire reti di solidarietà e di rivendicazione che intrecciano istanze economiche con pratiche culturali, favorendo una nuova soggettività politica dei lavoratori digitali.



Il ruolo di psicologi e educatori nel Terzo Settore

Psicologi, educatori professionali e assistenti sociali sono attori fondamentali della leadership generativa nel Terzo Settore. Non solo svolgono compiti tecnici, ma incarnano funzioni simboliche e relazionali che favoriscono la soggettivazione degli utenti, la mediazione culturale e la costruzione di comunità inclusive.

Gli psicologi, in particolare, contribuiscono come mediatori simbolici, sostenendo la trasformazione dei conflitti in risorse e facilitando processi di empowerment. Gli educatori professionali, con la loro capacità di facilitare dinamiche di gruppo e di relazione, rappresentano spesso nodi centrali nella rete di leadership distribuita.


Conclusioni

La leadership postmanageriale e generativa nel Terzo Settore si configura come una risposta strategica alle sfide poste dalle trasformazioni economiche, sociali e tecnologiche in atto. Essa implica una ridefinizione della leadership stessa, intesa come processo collettivo, distribuito e situato, capace di integrare dimensioni simboliche, relazionali e organizzative.

In questa prospettiva, il Terzo Settore diventa un laboratorio privilegiato per sperimentare forme di leadership che siano creative, inclusivi e politicamente significative, contribuendo a costruire comunità resilienti e capaci di innovazione sociale.


Bibliografia essenziale

  • Argyris, C., & Schön, D. (1978). Organizational Learning: A Theory of Action Perspective. Addison-Wesley.
  • Bennis, W. G. (2003). On Becoming a Leader. Basic Books.
  • Foster, R., & Kaplan, S. (2001). Creative Destruction. Crown Business.
  • Lacan, J. (1972). Le séminaire, Livre VIII: Le transfert. Seuil.
  • Magatti, M. (2019). La società in guerra. Il Mulino.
  • Ricketts, E. (2018). Generative Leadership in Practice. Palgrave Macmillan.
  • Ropo, A., & Salovaara, P. (2017). Leadership-as-Practice. Routledge.
  • Senge, P. M. (1990). The Fifth Discipline. Doubleday.
  • Wheatley, M. J. (2006). Leadership and the New Science. Berrett-Koehler.

venerdì 2 maggio 2025

La pratica analitica istituzionale come prassi politico-sociale

 

Centro socioriabilitativo



Introduzione: psicoanalisi e istituzione come campo di lotta simbolica

La pratica analitica istituzionale, nata dall'incontro tra la psicoanalisi lacaniana e le esperienze politiche radicali del secondo Novecento, rappresenta una forma di intervento che mette al centro la questione del soggetto e del suo rapporto con l'istituzione, il potere e il discorso. Non si tratta semplicemente di "applicare" la psicoanalisi al sociale, ma di fare del luogo istituzionale – scuola, servizio, organizzazione del Terzo Settore – un campo di emergenza del soggetto come effetto di parola, come scarto rispetto alla norma.

Questa prassi si oppone tanto alla burocratizzazione tecnocratica quanto all'illusione terapeutica totalizzante. Essa non cerca di risanare l'istituzione, ma di aprirla al reale che la attraversa, alla divisione soggettiva, al sintomo come cifra della verità.


Politica del desiderio contro gestione del vivente

La prassi analitica istituzionale critica l'ideologia della governance, che riduce ogni soggetto a un operatore di sé stesso, a un capitale umano da ottimizzare. In questa logica, il disagio diventa "disfunzione", il conflitto "problem solving", il sintomo "rischio da contenere". La prassi analitica rovescia questa prospettiva: ascolta il sintomo, lo assume come verità del soggetto e come segnale della contraddizione sociale.

È una politica del desiderio, che non mira a integrare il soggetto in modo pacificante, ma a sostenere la sua parola, anche quando è eccentrica, disturbante, non addomesticabile. In questo senso, si colloca in una traiettoria critica che interroga i dispositivi del potere simbolico: chi nomina? Chi decide cosa è "cura", cosa è "educazione", cosa è "normalità"?


Dispositivi: il gruppo, l'équipe, l'assemblea

La pratica istituzionale si serve di dispositivi collettivi – gruppo di parola, assemblea, équipe – come luoghi di articolazione del legame e del conflitto. Ma non li concepisce in senso armonizzante: il gruppo non è la fusione, ma la scena dell'inconscio, il luogo in cui emergono le divisioni, le alleanze, i transfert, le resistenze. L’équipe, allora, non è solo una struttura tecnica, ma un laboratorio etico-politico.

In alcune esperienze del Terzo Settore post-basagliano italiano, si sono sperimentati dispositivi in cui l’assemblea era lo spazio centrale per la parola soggettiva e politica. Lì la questione non era solo come lavorare "bene", ma che senso ha lavorare insieme, per chi e con quale desiderio.


Sindacalismo critico e politica dell’inconscio

Nel sindacalismo critico, specie in settori come quello socio-sanitario e del Terzo Settore, la prassi analitica può alimentare una politica del lavoro che tenga conto della soggettività. Le condizioni materiali (bassi salari, precariato, sfruttamento emotivo) si intrecciano con le condizioni simboliche (silenzio imposto, senso di colpa, identificazione con l’ideale). Portare parola là dove domina il silenzio – questo è anche sindacalismo.

Nel settore socio-sanitario, in particolare, il lavoro è fortemente investito da una dimensione di cura, spesso idealizzata e introiettata come missione salvifica. Questo porta molti operatori e operatrici a vivere in una tensione costante tra dovere e desiderio, tra ruolo e soggettività. Le pratiche analitiche istituzionali permettono di disinnescare l’identificazione totalizzante con l’Altro istituzionale – sia esso il paziente, l’utente o il sistema stesso – restituendo il lavoratore alla sua divisione, al suo desiderio, alla sua possibilità di parola.

Alcune esperienze nei servizi psichiatrici, nei centri diurni per la disabilità o nelle comunità terapeutiche hanno mostrato come l’introduzione di dispositivi analitici (gruppi di parola tra operatori, supervisione ad orientamento lacaniano, assemblee inclusive) possa trasformare il lavoro stesso, spezzare l’isolamento soggettivo e politicizzare il disagio. In questi contesti, il sindacalismo critico non si limita alla rivendicazione salariale, ma diventa anche uno spazio di riflessione collettiva sulla qualità simbolica del lavoro e sul suo senso.


La Borde, Basaglia e oltre

L’esperienza storica della Clinique de La Borde, fondata da Jean Oury, resta un modello di pratica istituzionale radicale. Oury, assieme a Guattari, costruì un’istituzione attraversata dall’inconscio, dove le funzioni erano temporanee, la parola aveva valore, e la follia era considerata una parte dell’umano, non un errore da correggere.

Allo stesso modo, la rivoluzione basagliana in Italia fu un esempio potente di pratica istituzionale critica: chiusura dei manicomi, apertura alla città, centralità dell’assemblea. Lì il soggetto non era più oggetto di trattamento, ma interlocutore politico.

Oggi, esperienze come quelle di alcune realtà militanti del Terzo Settore o gruppi sindacali critici in ambito educativo e sanitario rappresentano i luoghi possibili di una nuova alleanza tra analisi, politica e lavoro. In particolare, nei contesti socio-sanitari, la possibilità di nominare il proprio disagio, di raccontare il transfert istituzionale e di sottrarsi alla dittatura dell’efficienza, può rappresentare già un gesto di rottura e di emancipazione.


Conclusione: un’etica del limite

La prassi analitica istituzionale non fornisce ricette. Rifiuta ogni totalizzazione, ogni ideale del "benessere" imposto. Assume la mancanza come condizione del legame, il limite come luogo della responsabilità. In questo senso, è critica: perché mette in questione le evidenze del discorso dominante. È politica: perché riconosce nel sintomo il nome proprio della contraddizione.


Ecco un esempio concreto, ispirato a situazioni reali, in cui un sindacato critico ha introdotto elementi "analitici" all’interno di un servizio di salute mentale territoriale, con effetti trasformativi:


Caso: Un servizio di salute mentale in crisi (centro diurno – ASL del Nord Italia)


Contesto iniziale:
Un centro diurno psichiatrico mostrava segni di crisi profonda: alto turn-over tra gli operatori, burn-out diffuso, conflitti sommersi tra équipe e direzione, isolamento tra le figure professionali. Lavoro frantumato, eccesso di protocolli, e un discorso dominante orientato al contenimento e all’efficienza avevano annichilito ogni spazio di parola sul senso del lavoro. Gli utenti erano trattati sempre più come “casi” e sempre meno come soggetti.


Intervento sindacale critico:
Una piccola ma combattiva sezione sindacale di base (con educatori e infermieri coinvolti) ha avviato una mobilitazione interna non solo per rivendicazioni economiche, ma proponendo un cambio nel clima istituzionale: ha chiesto l’attivazione di gruppi di parola tra operatori, facilitati da uno psicoanalista ad orientamento lacaniano esterno, finanziati da un fondo per il benessere organizzativo.


Lettura lacaniana dell’intervento:
La lettura lacaniana ha permesso di evidenziare come il discorso istituzionale funzionasse da S1 opprimente, riducendo il soggetto a ingranaggio del funzionamento. Il sintomo (burn-out, ritiro, cinismo, iperattivismo) è stato interpretato non come disfunzione individuale, ma come segno del reale che emerge nel legame istituzionale. I gruppi di parola hanno permesso una disidentificazione parziale dall’ideale professionale totalizzante ("essere l’operatore perfetto") e l’emersione di desideri soggettivi, spesso rimossi.


Effetti concreti:

  • Introduzione di una rotazione orizzontale delle funzioni, ispirata a La Borde.
  • Riattivazione dell’assemblea utenti-operatori, con protagonismo soggettivo degli utenti.
  • Emersione di conflitti tra équipe e direzione, finalmente verbalizzati in spazi condivisi.
  • Diminuzione dell’assenteismo e riduzione dei turni richiesti agli operatori in crisi.
  • Inserimento della pratica di supervisione clinico-istituzionale nel regolamento del servizio.


Conclusione:
In questo caso, la pratica sindacale ha smesso di essere solo “difensiva” e si è fatta trasformatrice, fungendo da leva per una riattivazione simbolica del lavoro. L’operatore, sostenuto nella sua divisione, ha potuto riaprire il rapporto tra desiderio e funzione, tra soggetto e istituzione.


Bibliografia essenziale

Lacan, J. (1975). Il Seminario. Libro 11. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.

Oury, J. (2012). La psichiatria istituzionale. DeriveApprodi.

Mannoni, M. (1973). Il bambino, la scuola e l'inconscio. Armando.

Guattari, F. & Rolnik, S. (2006). Molecole di desiderio. DeriveApprodi.

Tosquelles, F. (2003). Pratica istituzionale e psichiatria. Antigone.

Basaglia, F. (1968). L'istituzione negata. Einaudi.

Castel, R. (1978). La gestione dei rischi. Feltrinelli.

G. Berti & M. Recalcati (a cura di). (2016). Lacan e il sociale. Mimesis.

G. Di Marco (2022). Il lavoro sociale e i suoi dispositivi. Tra istituzione, sintomo e desiderio. FrancoAngeli.

AA.VV. (2020). Psicoanalisi e lavoro sociale. FrancoAngeli.

AA.VV. (2022). Il desiderio nei servizi. Psicoanalisi e Terzo Settore. Edizioni Gruppo Abele.






giovedì 24 aprile 2025

Clinica lacaniana dell’isolamento sociale


Una lettura attraverso le strutture soggettive nei contesti istituzionali

L’isolamento sociale, spesso trattato come sintomo da correggere, può in una prospettiva lacaniana essere letto come una posizione soggettiva, un modo in cui il soggetto si rapporta all’Altro, alla legge, al linguaggio. Lungi dall’essere un deficit generalizzato, può essere una difesa, una modalità di regolazione del proprio legame con l’ambiente e con il desiderio.
Nelle istituzioni educative e socio-sanitarie, dove il rapporto con l’Altro è quotidiano e strutturato, tale posizione si manifesta con tratti differenti a seconda della struttura psichica del soggetto.


Nevrosi: l’isolamento come difesa dal desiderio dell’Altro

Nel caso della nevrosi ossessiva, l’isolamento può diventare una fortezza mentale. Un adolescente in un centro educativo rifiuta le attività di gruppo e si ritira ogni volta che gli viene chiesto di partecipare a giochi o discussioni. Dietro il ritiro non c’è indifferenza, ma un’intensa attività mentale: teme il giudizio, teme di dire qualcosa di sbagliato, teme di perdere il controllo sul proprio pensiero.
Il suo isolamento è una difesa dal desiderio dell’Altro, vissuto come eccessivo o invasivo.

Nell’isteria, al contrario, si può vedere un isolamento più intermittente: una ragazza con disabilità lieve partecipa agli incontri, ma a tratti si ritrae bruscamente, spesso in risposta a situazioni in cui non si sente riconosciuta o compresa. Il ritiro è una mossa soggettiva, una “sottrazione” che interroga l’Altro: “mi vedi? ti manco?”

In entrambi i casi, l’approccio istituzionale non deve essere forzante ma deve accogliere il ritiro come significante, lavorando sulla possibilità di parola, anche se mediata da attività o spazi protetti.


Psicosi: l’isolamento come protezione dalla frammentazione

Un giovane adulto in un servizio diurno psichiatrico passa ore a guardare fuori dalla finestra. Rifiuta il gruppo, non interagisce, ma si mostra agitato se qualcuno entra nel suo spazio. Diagnosi: psicosi paranoide.
In questo caso, l’isolamento è un baluardo contro l’invasione dell’Altro, che può assumere connotati persecutori. Il soggetto ha costruito un fragile equilibrio simbolico e l’ingresso dell’Altro lo minaccia. Un altro paziente psicotico, in una residenza protetta, accetta di partecipare alle attività solo se gli viene garantito di poter stare “in un angolo” e di uscire quando vuole. Questa condizione, apparentemente minima, è in realtà fondamentale per la sua stabilità.

Nelle istituzioni, è essenziale creare ritualità, prevedibilità e spazi di parola non invasivi, che offrano contenimento simbolico ma non forzino la relazione. L’equipe diventa allora “presenza silenziosa”, Altro affidabile ma non invadente.


Perversione: l’isolamento come dominio sull’Altro

In un laboratorio occupazionale, un educatore nota che un giovane adulto tende a isolarsi non per ritirarsi, ma per controllare la relazione. Partecipa solo quando può dettare le regole, manipolare gli altri o decidere i turni. Quando questo non è possibile, si ritira, con atteggiamenti sfidanti o provocatori.
Questo comportamento può essere letto in chiave perversa: l’isolamento è usato come minaccia o strumento per negare la mancanza dell’Altro, tentando di mantenerlo sotto controllo.

Qui il compito dell’équipe non è sanzionare il comportamento, ma costruire una funzione terza, un luogo simbolico che consenta di porre limiti senza umiliare, e di introdurre il desiderio come elemento regolatore, non come strumento di potere.


Autismo: l’isolamento come forma di relazione alternativa

Un bambino autistico in una scuola inclusiva non interagisce verbalmente e si isola in un angolo della classe con un oggetto che manipola per ore. Ma se l’educatore si avvicina senza parole, semplicemente toccando l’oggetto o imitando i suoi movimenti, il bambino permette la presenza. L’isolamento qui non è assenza di relazione, ma forma specifica di relazione, che richiede una lettura attenta dei segni non verbali, dei ritmi, dei passaggi sensoriali.

Nel lavoro educativo e sanitario con soggetti autistici, è necessario rispettare la logica soggettiva, costruendo dispositivi che permettano un passaggio simbolico attraverso il corpo, l’oggetto, la ripetizione. Forzare l’inclusione può generare angoscia; accompagnare nella solitudine può aprire spazi di incontro.


Conclusione: verso una clinica dell’accoglienza differenziale

La clinica lacaniana dell’isolamento sociale invita le istituzioni a spostare lo sguardo: non si tratta di “rompere l’isolamento”, ma di comprenderne la funzione soggettiva. Ogni struttura ha il proprio modo di regolare la presenza dell’Altro. L’educatore, il terapeuta, l’assistente devono posizionarsi in modo da non invadere né abbandonare, ma rendere possibile una presenza simbolica.

Il lavoro clinico nei contesti istituzionali richiede allora una sensibilità strutturale, capace di leggere ogni isolamento non come sintomo da eliminare, ma come tentativo di regolazione del desiderio, del godimento e del legame.


lunedì 24 marzo 2025

Pratica Istituzionale della Disabilità Intellettiva in una Prospettiva Lacaniana


 




L’approccio istituzionale alla disabilità intellettiva, quando orientato dalla psicoanalisi lacaniana, si distanzia dai modelli meramente riabilitativi o comportamentali, per situarsi in un'ottica che riconosce il soggetto nel suo rapporto con il desiderio e il godimento. Il lavoro di Antonio Ciaccia, unito a quello di Basaglia, Mannoni, Oury e Recalcati, fornisce strumenti fondamentali per pensare l’istituzione non come luogo di normalizzazione, ma come spazio di soggettivazione.


1. L’istituzione come luogo di ospitalità piuttosto che di adattamento

La psichiatria istituzionale classica e i modelli educativi tradizionali tendono a inscrivere il soggetto con disabilità in un discorso normalizzante, dove l’obiettivo è il massimo adattamento possibile alle norme sociali.

Basaglia, nel suo lavoro di critica alla psichiatria manicomiale, ha mostrato come l’istituzione possa facilmente diventare un dispositivo di segregazione, più che di cura o educazione. La lezione di Basaglia è stata ripresa in ambito educativo da Mannoni, che ha messo in evidenza come il bambino con disabilità intellettiva non debba essere considerato solo in termini di deficit, ma piuttosto rispetto alla sua posizione soggettiva nel legame con l’Altro.

In questa prospettiva, l’istituzione può funzionare secondo due logiche:

  1. Una logica di normalizzazione, che cerca di eliminare le differenze e rendere il soggetto "funzionale".
  2. Una logica di ospitalità basagliana, che accoglie il "resto inassimilabile" del soggetto e ne permette l’emergere.

Seguendo la seconda prospettiva, l’istituzione si configura non come un luogo di addestramento sociale, ma come un contesto in cui il soggetto possa trovare un posto nel legame sociale senza essere ridotto alla sua disabilità.


2. Supplenza simbolica e Nome-del-Padre nella disabilità intellettiva

Nell’esperienza istituzionale, spesso emerge che il soggetto con disabilità intellettiva fatica a situarsi nel registro simbolico. Recalcati, riprendendo Lacan, ha sottolineato come, in alcuni casi, la disabilità intellettiva sia associata a una carente trasmissione del Nome-del-Padre, che lascia il soggetto in una condizione di smarrimento rispetto alla legge simbolica e al desiderio.

L’istituzione può allora operare come supplenza simbolica, fornendo punti di ancoraggio che aiutino il soggetto a strutturarsi. Questo può avvenire attraverso:

  • Rituali e strutture quotidiane, che diano un riferimento simbolico senza irrigidirsi in pratiche disciplinari.
  • Un lavoro di parola e ascolto, che permetta al soggetto di esprimere il proprio rapporto con l’Altro senza costringerlo in schemi prestabiliti.
  • Uno spazio per l’elaborazione del desiderio, in cui il soggetto possa sperimentare forme di espressione personale.

Come sottolineato da Oury, nel lavoro della clinica istituzionale, la funzione dell’istituzione è quella di costruire un ambiente che dia sostegno simbolico, senza per questo imporsi come una struttura gerarchica rigida.


3. Il gruppo come dispositivo terapeutico e pedagogico

Uno degli strumenti più importanti nella pratica istituzionale della disabilità intellettiva è il gruppo, che può essere un luogo di soggettivazione fondamentale.

Ciaccia e Oury hanno entrambi lavorato sull’idea che il gruppo possa funzionare come un dispositivo capace di accogliere il soggetto, permettendo una rielaborazione del suo rapporto con il desiderio e il godimento. Questo avviene perché il gruppo offre:

  • Uno spazio di parola condivisa, che rompe l’isolamento e permette al soggetto di riconoscersi nell’Altro.
  • Un luogo di identificazione e differenziazione, in cui il soggetto può costruire un posto simbolico senza essere ridotto a una categoria diagnostica.
  • Un ambiente che non impone un modello rigido, ma accoglie la singolarità del soggetto nel suo rapporto con la legge simbolica.

Nel lavoro di gruppo, si evita così la logica dell’"inclusione forzata" tipica di certi modelli educativi, dove il soggetto deve adattarsi a schemi predefiniti, e si lascia invece spazio all’elaborazione del desiderio e del godimento.


4. Il rischio della funzionalizzazione e la lezione di Basaglia

Uno dei pericoli della pratica istituzionale è quello di trasformare la disabilità in una questione di efficienza e adattamento. Come sottolineava Basaglia, l’istituzione rischia di operare secondo una logica di controllo sociale, più che di accoglienza del soggetto.

Questo rischio si manifesta in vari modi:

  • L’ossessione per l’autonomia funzionale, che spinge il soggetto a conformarsi a standard di produttività.
  • La riduzione della disabilità a un problema medico, eliminando la dimensione soggettiva.
  • L’imposizione di obiettivi educativi standardizzati, che non tengono conto della singolarità del soggetto.

Invece, una pratica istituzionale orientata dalla psicoanalisi dovrebbe:

  • Accogliere il soggetto nella sua specificità, senza cercare di renderlo "normale".
  • Creare spazi di espressione, in cui il soggetto possa trovare una propria modalità di essere nel legame sociale.
  • Lavorare sulla dimensione del desiderio, senza ridurre l’intervento educativo a un training comportamentale.

5. L’istituzione come dispositivo di soggettivazione

Seguendo la lezione di Basaglia, Mannoni, Oury e Ciaccia, possiamo pensare l’istituzione non come un luogo di addestramento, ma come uno spazio che permette al soggetto di esistere nel desiderio dell’Altro.

Ciò significa:

  • Non imporre un modello di normalizzazione, ma lasciare spazio alla costruzione soggettiva.
  • Riconoscere il valore del godimento e della singolarità, senza ridurli a un problema di gestione.
  • Sostenere il legame sociale, senza forzare l’inclusione in schemi rigidi.

Recalcati, nella sua elaborazione dell’eredità lacaniana in ambito educativo, sottolinea come l’educazione non debba essere un adattamento del soggetto alla norma, ma un incontro con il desiderio.

L’istituzione, dunque, non è solo un luogo di cura o di educazione, ma un dispositivo di soggettivazione in cui il soggetto con disabilità possa trovare un posto nel mondo senza essere ridotto a un oggetto da gestire.


Bibliografia

  • Basaglia, F. (1968). L'istituzione negata. Torino: Einaudi.
  • Di Ciaccia, A. (2015). La pratica dell’istituzione nel lavoro psicoanalitico. Milano: Mimesis.
  • Lacan, J. (1966). Écrits. Paris: Seuil.
  • Mannoni, M. (1973). Il bambino ritardato e la madre. Torino: Einaudi.
  • Oury, J. (2001). Il collettivo terapeutico. Milano: Raffaello Cortina.
  • Recalcati, M. (2014). L'ora di lezione. Torino: Einaudi.
  • Tosquelles, F. (1986). Psichiatria istituzionale e psicoterapia. Roma: Borla.

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