martedì 2 settembre 2025

🔴 Il Reale in Lacan: ciò che sfugge al linguaggio

Quando Jacques Lacan parla di Reale, non si riferisce alla realtà quotidiana, fatta di oggetti, persone ed eventi che possiamo percepire e nominare. Quella è già realtà simbolizzata, organizzata attraverso il linguaggio e i significati. Il Reale, invece, è ciò che sfugge a ogni possibilità di rappresentazione, ciò che resiste al linguaggio e che non si lascia pienamente addomesticare dal Simbolico o dall’Immaginario.

In altre parole, il Reale è ciò che non smette di non iscriversi: ciò che non può essere detto, ma solo incontrato come urto, come trauma, come impossibile.


Il Reale come impossibile

Lacan definisce spesso il Reale come l’impossibile. Non perché non esista, ma perché non possiamo mai rappresentarlo del tutto. Ogni volta che cerchiamo di tradurlo in parole o immagini, ci sfugge.

👉 Esempio clinico: una persona che ha un attacco di panico non riesce a spiegare pienamente cosa sta vivendo. Può dire “mi manca l’aria”, “mi sento morire”, ma nessuna parola restituisce davvero l’esperienza. Lì, si incontra il Reale: un punto di impossibilità che eccede il linguaggio.


Il Reale del corpo

Il Reale non è un’entità astratta: lo tocchiamo spesso nel rapporto con il corpo. Il dolore, la malattia, la sessualità ci mostrano che non tutto è simbolizzabile.

👉 Pensiamo al dolore di un dente: puoi descriverlo, misurarlo, ma c’è sempre un nucleo che sfugge alla parola. Il corpo, con i suoi sintomi, porta tracce di questo Reale.


Il trauma come incontro con il Reale

Freud aveva già indicato che il trauma è un’esperienza che travolge e che non trova parole per essere elaborata subito. Lacan riprende questa intuizione: nel trauma incontriamo un pezzo di Reale.

👉 Esempio: chi vive un incidente stradale può rivivere la scena in flashback, senza riuscire a raccontarla come una storia coerente. L’evento ha lasciato una traccia nel corpo e nella psiche che eccede il linguaggio.


Reale, Simbolico, Immaginario

Per capire meglio, occorre situare il Reale rispetto agli altri due registri lacaniani:

Simbolico → è il regno del linguaggio, delle leggi, delle regole.

Immaginario → è l’ambito delle immagini, delle identificazioni, dello specchio.

Reale → è ciò che né il linguaggio né le immagini riescono a catturare del tutto.

👉 Esempio quotidiano: un lutto.

Nell’Immaginario, conserviamo l’immagine della persona amata.

Nel Simbolico, possiamo dire “è morto”, collocare l’evento in un discorso sociale e rituale.

Ma c’è un Reale del lutto: l’assenza insopportabile che nessuna parola né immagine possono colmare.


Il Reale nel discorso contemporaneo

Lacan collega il Reale anche alla società. Oggi lo incontriamo nei limiti della scienza e della tecnica. La medicina può fare molto, ma c’è sempre un “resto” che non può eliminare: la malattia cronica, la morte, il desiderio che sfugge al controllo.

👉 Esempio attuale: l’intelligenza artificiale. Può simulare linguaggio e immagini, ma non può colmare il Reale del desiderio umano, né eliminare l’imprevisto, l’impossibile, il trauma che sfugge al calcolo.


L’etica dell’analisi di fronte al Reale

In psicoanalisi, il compito non è cancellare il Reale, ma insegnare a ciascuno a farci i conti. Non esiste un mondo totalmente spiegabile e senza mancanza. L’analisi aiuta a trovare un modo singolare di convivere con ciò che non ha nome.

👉 Esempio clinico: un soggetto che balbetta non può semplicemente “guarire” eliminando il sintomo. Ma può imparare a vivere diversamente la sua parola, a non subirla come pura impotenza. Qui si vede un incontro con il Reale che diventa occasione di invenzione.


Conclusione

Il Reale in Lacan non è un concetto metafisico, ma una bussola clinica e filosofica. È l’impossibile che ritorna, il trauma che insiste, il corpo che resiste al linguaggio. Non possiamo dire tutto, non possiamo simbolizzare tutto: ma è proprio in questo incontro con l’impossibile che si apre lo spazio per il desiderio, per l’invenzione, per la libertà.





lunedì 1 settembre 2025

Come finisce una terapia?

 La fine di una terapia psicoanalitica, in chiave lacaniana, non è mai identica per tutti e non coincide con il semplice “stare meglio” o “aver risolto i sintomi”.

Riassumo i punti essenziali:

1. Non è una guarigione totale

La psicoanalisi non promette la cancellazione definitiva del sintomo o la conquista di una vita “senza conflitti”. Piuttosto, il lavoro porta il soggetto a trasformare il proprio rapporto con il sintomo, a decifrarne il senso inconscio e a ridurre il peso della ripetizione.


2. La caduta del soggetto supposto sapere

Il motore dell’analisi è il transfert, cioè l’attribuzione all’analista di un sapere sul proprio enigma. La fine dell’analisi coincide con la caduta di questa supposizione: il paziente non attribuisce più all’analista il sapere sulla sua verità, ma riconosce di essere lui stesso l’autore — e al tempo stesso l’effetto — del proprio discorso inconscio.


3. L’incontro con il reale

Lacan sottolinea che un’analisi porta fino a un punto d’incontro con il reale: ciò che non può essere simbolizzato o pienamente detto. Il soggetto impara ad assumere il proprio modo singolare di rapportarsi a questo reale, piuttosto che subirlo passivamente.


4. L’elaborazione del sintomo

Alla fine di un percorso, il sintomo non sparisce necessariamente, ma si rimodella: smette di essere un ostacolo incomprensibile e può diventare una risorsa, un modo inventivo di vivere. È ciò che Lacan chiama il “sinthomo”: una modalità propria, non più patologica, di tenere insieme il proprio desiderio e la propria vita.


5. Il sapere sul proprio inconscio

Il paziente non dipende più dall’analista per leggere i propri sogni, lapsus, ripetizioni. Acquisisce una familiarità con il funzionamento del proprio inconscio e può continuare a vivere senza restare intrappolato nello stesso circuito di sofferenza.


6. Un’uscita singolare

Ogni fine è diversa:

per alcuni coincide con la possibilità di fare scelte nuove che prima sembravano impossibili;

per altri con la capacità di accettare un limite che non poteva essere simbolizzato;

per altri ancora con l’invenzione di un proprio modo di tenere insieme desiderio, godimento e legame sociale.


👉 In breve: una terapia psicoanalitica finisce quando il soggetto non ha più bisogno dell’analista come garante del suo sapere, quando ha trasformato il proprio rapporto con il sintomo e ha trovato un modo singolare di abitare il proprio desiderio. Non è una conclusione “standard”, ma un atto unico, che appartiene a ciascun percorso.



Come inizia una terapia?


Molti si chiedono: cosa succede davvero quando si inizia una terapia psicoanalitica? Non c’è un protocollo fisso, ma un percorso che prende forma a partire da ciò che porta il soggetto. L’analisi non si riduce a “togliere i sintomi”, ma apre uno spazio in cui la parola può trasformare il rapporto con il desiderio e con l’inconscio.


La domanda e il sintomo

Chi si rivolge a un analista di solito arriva con un sintomo: ansia, attacchi di panico, difficoltà relazionali. Ma la domanda nascosta dietro il sintomo non è sempre chiara.

👉 Esempio: una giovane donna chiede di liberarsi dalle crisi d’ansia. Durante i primi colloqui emerge che le crisi compaiono ogni volta che deve scegliere: tra partner, lavoro, città. L’ansia non è solo un fastidio, ma segnala qualcosa del suo rapporto col desiderio: la paura di decidere.

In questo senso, il sintomo non è mai solo un “errore da correggere”, ma una traccia che rimanda a un nodo inconscio.


I colloqui preliminari

La terapia inizia con alcuni colloqui preliminari. Qui il paziente racconta liberamente, e l’analista ascolta senza giudicare né riempire gli spazi vuoti.

👉 Esempio: un uomo racconta di non riuscire a smettere di bere la sera. Non parla subito della sua storia, ma di quanto si senta “fuori posto” al lavoro. Il bere emerge come risposta a un disagio più ampio, che non aveva ancora potuto dire a nessuno.

Questa fase serve a capire se il soggetto può implicarsi nel proprio sintomo: se è disposto a interrogarsi piuttosto che chiedere solo un sollievo immediato.


Il posto dell’analista

L’analista non è un consigliere che dà ricette. Occupa la posizione di chi lascia emergere il discorso del paziente, senza sostituirsi a lui.

👉 Esempio: una madre chiede: “Mi dica cosa devo fare con mio figlio che non studia”. Un terapeuta direttivo proporrebbe strategie educative. L’analista, invece, potrebbe restituirle la frase: “Cosa significa per lei che suo figlio non studi?”. La domanda si sposta: non si tratta più solo del figlio, ma di ciò che quella situazione tocca in lei.


Il transfert

Il lavoro analitico inizia davvero quando si instaura il transfert: il paziente attribuisce all’analista un sapere sul proprio sintomo. Questo non è semplice “fidarsi”, ma un movimento inconscio che mette in moto il desiderio di parlare.

👉 Esempio: una ragazza inizia dicendo: “Non so perché, ma credo che con lei riuscirò a capirmi meglio”. Non è l’analista a promettere la guarigione, ma lei a supporre che lì ci sia un sapere nascosto. Questo spostamento rende possibile l’analisi.

L’analista non deve mai confermare di possedere quel sapere, ma restituirlo al soggetto stesso, accompagnandolo a scoprirlo nella propria parola.


Il sintomo come enigma

In psicoanalisi non si elimina il sintomo come si toglie un dente. Si cerca di interrogarlo: che ruolo ha nella vita del soggetto? quale legame mantiene?

👉 Esempio: un uomo soffre d’insonnia. Potrebbe chiedere solo una “cura per dormire”. Ma in analisi scopre che le notti insonni sono il momento in cui non deve rispondere a nessuno: né al capo, né alla famiglia. L’insonnia diventa un modo paradossale per affermare uno spazio proprio. Comprenderlo gli permette di trasformare il rapporto con quel sintomo.


Un inizio sempre singolare

Ogni analisi inizia in modo unico. Non ci sono formule standard. Quello che si ripete è la logica: ascoltare la domanda, favorire l’emergere del transfert, interrogare il sintomo come enigma.

Si può dire che l’analisi comincia davvero quando il paziente riconosce che ciò che lo fa soffrire lo riguarda da vicino, e che vale la pena esplorare il legame tra il sintomo e la propria storia.

In conclusione: l’inizio di una terapia psicoanalitica è un incontro: da una parte il soggetto che porta il suo sintomo, dall’altra l’analista che offre un ascolto particolare, capace di far emergere un desiderio. È lì che il percorso si apre, sempre in modo singolare.


🔴 Il Reale in Lacan: ciò che sfugge al linguaggio

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