martedì 30 settembre 2025

Omaggio ad Alice



Jacques Lacan ha dedicato un’intera conferenza radiofonica a Lewis Carroll, intitolata Hommage à Lewis Carroll, trasmessa nel 1966 su France Culture. In essa, Lacan esplora come le opere di Carroll tocchino “i nessi più puri della nostra condizione d’essere”: il simbolico, l’immaginario e il reale. Questi tre registri psichici sono fondamentali nel pensiero lacaniano e sono incarnati nel viaggio di Alice.


Il corpo che cambia: il reale

Nel Paese delle Meraviglie, il corpo di Alice subisce trasformazioni radicali: cresce e rimpicciolisce in continuazione. Queste metamorfosi corporee rappresentano il reale lacaniano: ciò che sfugge alla simbolizzazione e non può essere pienamente integrato nel linguaggio. Quando Alice mangia la torta e cresce enormemente, o beve il liquido e diventa minuscola, il suo corpo diventa un luogo di eccedenza che non può essere contenuta dalle strutture simboliche del mondo circostante.


Il linguaggio e il nonsenso: il simbolico

Il Paese delle Meraviglie è popolato da personaggi che giocano con il linguaggio in modo paradossale e illogico. Il Cappellaio Matto, ad esempio, afferma: “Non c’è tempo da perdere!” mentre è sempre in ritardo. Questi giochi verbali evidenziano la dimensione simbolica del linguaggio, che può essere manipolata e distorta. In Lacan, il simbolico è il registro della legge, del linguaggio e dell’ordine sociale, ma qui viene messo in crisi dal nonsenso che permea il mondo di Alice.


Il soggetto e l’Altro: l’immaginario

Alice si confronta continuamente con figure autoritarie e misteriose, come la Regina di Cuori e il Gatto del Cheshire. Questi incontri rappresentano il registro immaginario, legato all’immagine di sé e all’identificazione con l’Altro. La Regina di Cuori, con il suo comando “Tagliatele la testa!”, incarna l’autorità che definisce l’identità attraverso il riconoscimento e la punizione. Il Gatto del Cheshire, che appare e scompare a piacimento, simboleggia l’Altro come presenza sfuggente e ambigua, che sfida le certezze di Alice.


Alice e il godimento femminile

In Lacan, il godimento femminile è qualcosa che sfugge alla legge fallica e non può essere completamente simbolizzato. Alice, con la sua curiosità insaziabile e il suo corpo che non si conforma alle aspettative, rappresenta una forma di godimento che non si lascia ridurre a norma. Il suo viaggio nel Paese delle Meraviglie è un’esplorazione di un mondo che non risponde alle leggi della logica e del linguaggio, ma che offre uno spazio per un’esperienza di godimento che eccede ogni controllo simbolico.


Conclusione

L’opera di Lewis Carroll, attraverso il viaggio di Alice, offre una rappresentazione della soggettività che attraversa i registri del simbolico, dell’immaginario e del reale. In questo mondo, il corpo che cambia, il linguaggio che vacilla e l’Altro che sfugge creano uno spazio in cui il soggetto può confrontarsi con le proprie identificazioni, le proprie leggi e il proprio godimento. Alice nel Paese delle Meraviglie, letto attraverso la psicoanalisi lacaniana, diventa così una metafora della condizione umana, in cui il soggetto è sempre in viaggio, sempre alla ricerca di un senso che non si lascia mai completamente afferrare.



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Bibliografia

Lacan, J. (1966). Hommage à Lewis Carroll. Trasmissione radiofonica, France Culture.

Carroll, L. (1865). Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie. Milano: Mondadori.

Yansori, A. (2025). Alice’s Adventures in Lacan-Land: Demystifying Lacanian Psychoanalysis. Routledge.




lunedì 29 settembre 2025

La psicoanalisi: scienza della singolarità

 

La psicoanalisi parte da un’idea semplice ma radicale: ogni soggetto è unico.

Il sintomo non è mai solo un disturbo da eliminare, ma un messaggio che porta con sé qualcosa della storia personale, dei desideri e delle difficoltà nel rapporto con gli altri. La psicoanalisi lacaniana chiama questo principio “scienza della singolarità”: ogni percorso è irripetibile, perché non esistono due soggetti uguali.


Depressione e ricerca di senso

Un soggetto arriva con apatia e perdita di interesse per le attività quotidiane. I manuali clinici descrivono questi fenomeni come depressione, ma la psicoanalisi guarda oltre: dietro a quei sintomi si nasconde spesso un conflitto interno, un senso di colpa o la difficoltà a dire “no” agli altri. In analisi, la depressione non è solo un disturbo da ridurre, ma un linguaggio da interpretare per restituire senso e parola a chi soffre.


Ansia e imperativi interiori

Un altro soggetto è tormentato da attacchi d’ansia. L’esperienza non si spiega soltanto in termini biologici: dietro l’ansia c’è spesso un imperativo interiore, un “devi” che spinge a inseguire la perfezione. La psicoanalisi aiuta a riconoscere questo comando nascosto – ciò che Lacan chiamava “significante padrone” – e a comprendere come orienti il rapporto con sé stessi e con gli altri.


Ossessioni e rituali quotidiani

C’è chi controlla ripetutamente di aver chiuso la porta. Per la psicoanalisi, quel gesto non è soltanto un’abitudine ansiosa, ma un rituale che media tra desiderio e regole interiori. Decifrarne il significato permette di capire come il soggetto costruisce la propria sicurezza, e come cerca un equilibrio tra ordine e caos interiore.


Psicosi e nuovi legami

Un soggetto vive esperienze persecutorie e costruisce un mondo di significati che sembrano scollegati dalla realtà condivisa. La psicoanalisi non si concentra tanto sul contenuto dei deliri, quanto sulla struttura che li sostiene. L’obiettivo è favorire nuove connessioni simboliche e relazionali, permettendo di ritrovare un posto nel legame sociale e di dare voce alla propria esperienza.


Psicoanalisi ed Evidence-Based Medicine

Oggi la clinica è dominata dal paradigma delle scienze sperimentali e della Evidence-Based Medicine (EBM). Si tratta di strumenti fondamentali: protocolli standardizzati e dati statistici servono a garantire efficacia e sicurezza nei trattamenti. Ma c’è un punto che resta fuori: la dimensione della singolarità.

La medicina evidence-based risponde alla domanda: “cosa funziona in media?”.

La psicoanalisi risponde invece a: “che senso ha per questo soggetto, in questo momento della sua vita?”.

Non è una contrapposizione, ma una differenza di campo. L’EBM lavora su popolazioni, la psicoanalisi su soggetti. La prima cerca regole generali, la seconda decifra messaggi unici. Entrambe sono necessarie, ma solo la psicoanalisi permette di ascoltare ciò che sfugge ai protocolli, cioè il modo in cui ciascuno dà forma al proprio sintomo e al proprio desiderio.


Conclusione

La psicoanalisi lacaniana si distingue perché non riduce il soggetto a diagnosi o statistiche. Ogni sintomo racconta una storia irripetibile, ogni persona ha una logica propria da scoprire. L’obiettivo non è adattare l’individuo a un modello standard, ma creare uno spazio in cui la sua singolarità possa emergere, essere ascoltata e trasformata.

È in questo che la psicoanalisi rimane, ancora oggi, la scienza della singolarità.




domenica 28 settembre 2025

Anatomia della distruttività umana


Parlare di distruttività significa interrogarsi su ciò che, nell’essere umano, eccede la semplice difesa della vita. Non è solo aggressività istintiva: è anche odio, crudeltà, guerra, violenza cieca. Per comprenderne l’“anatomia”, possiamo passare da Freud, che ne individua la radice pulsionale, a Fromm, che ne legge la dimensione storico-sociale, fino a Lacan, che ci offre una bussola per cogliere come la distruttività si inscriva nella struttura del soggetto.


Freud: la pulsione di morte

Freud, in Al di là del principio di piacere (1920), introduce l’idea che accanto a Eros vi sia Thanatos: una pulsione di morte che spinge ogni organismo a ritornare all’inorganico. L’aggressività non è solo difesa, ma spinta radicale alla distruzione. In Il disagio della civiltà (1930), Freud mostra come la società sia costretta a contenerla con leggi, norme morali e sublimazioni. La distruttività, in questa prospettiva, è inevitabile: al massimo si può regolare.


Fromm: la distruttività come prodotto sociale

Fromm, in Anatomia della distruttività umana (1973), contesta l’idea freudiana di una pulsione innata. Distingue tra aggressività benigna (difensiva, vitale) e aggressività maligna (specificamente umana, gratuita, non orientata alla sopravvivenza). Quest’ultima, secondo Fromm, nasce in contesti di alienazione, oppressione, società necrofile. La distruttività è quindi storicamente variabile: dipende dal tipo di organizzazione sociale.


Lacan: l’aggressività come struttura

Lacan, nel saggio Aggressività in psicoanalisi (1948), sposta il discorso: la distruttività non è né un istinto naturale (alla Freud) né solo un prodotto sociale (alla Fromm), ma una conseguenza della struttura immaginaria del soggetto.

  • Immaginario: nello stadio dello specchio il bambino si riconosce in un’immagine unitaria, ma sperimenta l’altro come rivale. La relazione con il simile è segnata da aggressività e gelosia.
  • Simbolico: il linguaggio e la Legge possono trasformare la violenza in parola, in conflitto regolato. L’autorità simbolica (il Nome-del-Padre) non elimina l’aggressività, ma la incanala.
  • Reale: resta un nucleo irriducibile che sfugge a ogni mediazione. Quando il simbolico crolla, la distruttività appare in forma pura: guerre, genocidi, odio cieco.

Per Lacan, dunque, la distruttività appartiene alla condizione stessa del soggetto, che è sempre diviso e in rapporto competitivo con l’altro.


Autorità, famiglia e società

La gestione della distruttività passa attraverso le forme dell’autorità. Non un’autorità repressiva (che può generare più violenza), ma un’autorità simbolica che introduca limiti e regole riconosciute. La famiglia, ad esempio, è il primo luogo in cui il bambino incontra la Legge. Quando manca questa mediazione, l’aggressività resta allo stato immaginario e può degenerare in violenza.

Qui Lacan incontra, in modo diverso, le analisi della Scuola di Francoforte: Adorno e Horkheimer mostrarono come società autoritarie o eccessivamente repressive favoriscano esplosioni di violenza. Lacan, tuttavia, vede nel simbolico non solo repressione, ma possibilità di trasformazione.


Distruttività e ideologia

Slavoj Žižek, lacaniano e critico della società contemporanea, sottolinea come oggi la distruttività venga catturata dall’ideologia. L’aggressività immaginaria viene incanalata verso nemici simbolici, trasformando la rabbia in odio politico o in violenza verbale online. Qui si vede come il reale del godimento ritorni sotto forma di polarizzazione e di esclusione dell’altro.

Fromm aveva già notato che l’alienazione sociale produce distruttività; Lacan, integrato da Žižek, ci permette di capire come questa alienazione trovi vie di espressione attraverso l’odio simbolico, alimentato dai discorsi dominanti.


Conclusione: contenere, non eliminare

Freud ci ricorda che la distruttività è radicata nell’inconscio; Fromm che essa è amplificata o ridotta dalle condizioni sociali; Lacan che la sua forma dipende dalla struttura del soggetto e dal funzionamento dei registri.

Non esiste eliminazione della distruttività. Ciò che è possibile è:

  • simbolizzarla, trasformandola in parola, narrazione, creazione;
  • regolarla con istituzioni autorevoli, non solo repressive;
  • incanalarla in pratiche culturali, politiche e sociali che la trasformino in conflitto produttivo anziché in guerra cieca.

La distruttività è parte dell’umano, ma la sua anatomia mostra che esistono vie di trasformazione.


Bibliografia essenziale

  • Freud S. (1920), Al di là del principio di piacere.
  • Freud S. (1930), Il disagio della civiltà.
  • Lacan J. (1948), Aggressività in psicoanalisi, in Scritti.
  • Lacan J. (1966), Scritti.
  • Fromm E. (1973), Anatomia della distruttività umana.
  • Žižek S. (1994), The Metastases of Enjoyment.
  • Horkheimer M., Adorno T.W. (1947), Dialettica dell’Illuminismo.





sabato 27 settembre 2025

Il marchese de Sade e l'imperativo del godimento


Il confronto di Jacques Lacan con il Marchese de Sade rappresenta un passaggio cruciale del suo insegnamento. Non si tratta soltanto di leggere Sade come autore libertino, ma di farne un luogo teorico privilegiato per interrogare il rapporto tra legge, desiderio e godimento (jouissance). Nel Seminario VII, L’etica della psicoanalisi (1959-1960) e soprattutto nel saggio Kant avec Sade (1963), Lacan sviluppa questa prospettiva con rigore.


1. Kant avec Sade: due imperativi assoluti

Lacan accosta Sade a Kant non come opposti, ma come complementari. L’imperativo categorico kantiano prescrive: “Agisci solo secondo quella massima che tu possa volere diventi legge universale”. A questo Sade risponde con il suo imperativo del godimento: “Io devo godere, e non c’è nulla che possa opporsi a questa legge”.

Lacan commenta: «Il marchese de Sade, col suo imperativo di godere, non fa che mettere a nudo l’altro lato dell’imperativo kantiano» (Kant avec Sade, in Écrits). In altre parole, Sade mostra il rovescio pulsionale di quella Legge che Kant aveva voluto fondare sulla pura ragione.


2. Il godimento come rovescio della Legge

Per Lacan, l’opera di Sade dimostra che la Legge non è mai pura forma morale: porta sempre con sé un legame con il godimento. «Non c’è Legge che non comporti un resto di jouissance» (Seminario VII). In questo senso, Sade “completa Kant”: dove il filosofo di Königsberg separa il dovere dal desiderio, Sade mostra che dietro il dovere si nasconde un comandamento al godimento.


3. La posizione del soggetto sadiano

Dal punto di vista clinico, Lacan legge Sade come paradigma della perversione. Il sadico non gode isolatamente: ha bisogno dell’Altro come scena e garanzia. Nei suoi scritti, Sade lo formula con chiarezza: «Il mio unico piacere è nel vedere l’altro soffrire; ma questo piacere non è arbitrario, è il mio dovere, perché la natura lo esige» (La filosofia nel boudoir).

Lacan sottolinea come il sadico non si percepisca come carnefice, ma come strumento della Legge: «Il soggetto perverso non si pone mai come autore del proprio atto, ma come esecutore di una volontà superiore» (Seminario VII). È questo che distingue la perversione dalla semplice crudeltà: essa si fonda su una struttura di Legge e di universalità.


4. Sade e il fantasma

Il contributo di Sade è per Lacan decisivo per comprendere la logica del fantasma perverso. Ogni fantasma sostiene il soggetto nella sua posizione desiderante; nel sadismo, esso si costruisce intorno alla formula: «Io agisco perché l’Altro goda». Il sadico si mette così al servizio di un godimento che non gli appartiene del tutto, ma che proviene dall’Altro come luogo della Legge.

Lacan lo esprime con forza: «Il perverso si offre come strumento della jouissance dell’Altro» (Seminario VII). Sade mette in scena questa logica fino all’estremo, mostrando che la perversione è una forma rigorosa di obbedienza a un imperativo, non un semplice capriccio.


5. Conseguenze etiche

Da questa lettura nasce una lezione più ampia: non esiste etica senza un rapporto con il godimento. «Il comandamento sadiano, per quanto insostenibile, ci mostra che l’etica non può mai ignorare la jouissance» (Kant avec Sade).

Per questo Lacan propone un’altra via: non l’imperativo sadiano del godere, né il rigore kantiano del dovere puro, ma l’etica della psicoanalisi, centrata sul non cedere sul proprio desiderio. È questa, per lui, la posta in gioco del lavoro analitico: riconoscere che ogni legge è attraversata dal godimento, senza ridurre il soggetto a mero ingranaggio dell’imperativo di godere.


Conclusione

Sade, nella lettura lacaniana, non è soltanto uno scrittore scandaloso ma un pensatore che, più di altri, rivela il nucleo nascosto della Legge. Accostato a Kant, diventa il suo rovescio necessario. La psicoanalisi, da parte sua, non si colloca né dalla parte di Kant né da quella di Sade: essa cerca un’etica diversa, che non imponga né il sacrificio assoluto né il godimento assoluto, ma la fedeltà singolare al desiderio.


Bibliografia essenziale

Lacan, J. (1960). Le Séminaire, Livre VII: L’éthique de la psychanalyse. Paris: Seuil, 1986.

Lacan, J. (1963). Kant avec Sade. In Écrits. Paris: Seuil, 1966.

Sade, D.A.F. (1795). La philosophie dans le boudoir. Paris.

Miller, J.-A. (1996). Extimité. Paris: Seuil.

Žižek, S. (1992). Il godimento come fattore politico. Milano: Cortina.




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sabato 20 settembre 2025

Anoressia: tra corpo, sintomo e soggetto


L’anoressia nervosa è comunemente descritta come un disturbo dell’alimentazione caratterizzato da restrizione calorica significativa, perdita di peso e, nella forma classica, paura intensa di ingrassare. Secondo il DSM-5, questi criteri sono necessari per la diagnosi di anoressia nervosa (AN). Tuttavia, esistono casi in cui il soggetto limita drasticamente il cibo senza manifestare paura di aumentare di peso: in questi casi il DSM-5 utilizza le categorie di OSFED (Other Specified Feeding or Eating Disorder) o il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo (ARFID). Dal punto di vista medico, la restrizione calorica grave comporta rischi significativi: squilibri elettrolitici, alterazioni cardiache, osteoporosi e insufficienza organica richiedono monitoraggio clinico e intervento tempestivo.


Il sintomo come atto soggettivo

La psicoanalisi insegna che l’anoressia non è solo un problema di nutrizione o di peso. Il digiuno diventa un atto che parla, un modo per il soggetto di affermare la propria posizione rispetto all’Altro. Fin dai primi scambi con la madre, il cibo rappresenta cura e amore. Rifiutarlo può significare: “Non prendo nulla da te, non ti do la soddisfazione di nutrirmi”. Lacan parla di posizione anoressica, cioè un modo in cui il soggetto si sottrae al godimento dell’Altro e cerca di delimitare uno spazio autonomo sul proprio corpo.

Un esempio quotidiano: un’adolescente rifiuta la cena preparata dalla madre, non perché ha paura di ingrassare, ma perché desidera afferrare il controllo assoluto sul proprio corpo. In analisi, riferisce che “saltare il pasto la fa sentire forte, indipendente”, ma ammette anche sensazioni di vuoto e mancanza di energia. Questo equilibrio tra padronanza e vuoto è tipico della posizione anoressica.


Corpo, immagine e linguaggio

Il corpo non è solo organismo biologico, ma corpo parlato, inscrivibile nei registri simbolico e immaginario. La società contemporanea, con i modelli estetici e la pressione costante sulle immagini del corpo, aumenta il rischio che il corpo diventi oggetto di controllo e messaggio piuttosto che spazio soggettivo. Il gesto di svuotare il corpo, quindi, non è semplicemente una questione di peso: è un modo per sottrarsi allo sguardo altrui.


Strutture cliniche e varianti

L’anoressia non coincide con una sola struttura psichica:

Isterica: il rifiuto del cibo è simbolico, un modo per dire all’Altro “guarda cosa sto facendo”.

Ossessiva: rigore e rituali alimentari, il digiuno serve a ridurre l’angoscia e mantenere controllo.

Psicotica: il cibo può essere percepito come intrusivo o persecutorio; il rifiuto non ha mediazione simbolica.

Questa trasversalità mostra che la posizione anoressica attraversa strutture diverse, assumendo significati differenti a seconda del soggetto.


Desiderio, godimento e vuoto

Rifiutare il cibo significa spesso sottrarsi al desiderio dell’Altro, ma in questo atto si genera anche un vuoto interiore: annullando il rapporto con il cibo, il soggetto rischia di svuotare anche la propria capacità di desiderare. Un caso clinico: una giovane donna, in analisi, racconta che saltare i pasti la fa sentire potente, ma contemporaneamente percepisce isolamento e apatia. La cura psicoanalitica cerca di offrire uno spazio in cui questo “no” possa essere ascoltato, simbolizzato e gradualmente trasformato in una possibilità di desiderio positivo.


Cura e implicazioni cliniche

Sul piano medico, la priorità è proteggere la salute fisica: monitoraggio del peso, degli elettroliti e della funzione cardiaca; intervento ospedaliero se necessario. La psicoanalisi non sostituisce la cura medica, ma la integra: ascoltando il sintomo, si permette al soggetto di articolare il proprio rapporto con il desiderio e di ritrovare uno spazio soggettivo oltre il corpo svuotato. La famiglia, spesso coinvolta, diventa parte del campo simbolico entro cui il sintomo si manifesta, non un elemento da colpevolizzare.


Conclusione

L’anoressia non è solo un disturbo alimentare: è un sintomo che parla, un messaggio sul rapporto con l’Altro, il corpo e il desiderio. La lettura psicoanalitica, integrata con la medicina e i criteri diagnostici del DSM-5, invita a non fermarsi al peso o alla restrizione calorica, ma ad ascoltare ciò che il corpo dice. Solo restituendo parola al sintomo si apre la possibilità di trasformare il “no” radicale al cibo in un “sì” alla vita e al desiderio.



mercoledì 17 settembre 2025

Disturbi dell’adattamento: una lettura integrata


Il disturbo dell’adattamento, come lo definisce il DSM-5, nasce da una reazione sproporzionata a uno stressor riconoscibile: un lutto, una separazione, un licenziamento, un trasferimento. I sintomi si collocano a metà strada tra una risposta “normale” e un disturbo strutturato (come la depressione maggiore o il disturbo d’ansia). La psicoanalisi lacaniana, però, ci invita a spostare lo sguardo: più che soffermarsi sulla misura della reazione, si tratta di interrogare il rapporto soggettivo con l’Altro e con il significante che l’evento mette in crisi.


L’adattamento e il desiderio

In termini psicoanalitici, il termine “adattamento” è ambiguo. Non si tratta semplicemente di conformarsi a una nuova situazione esterna, ma di come il soggetto riarticola il proprio desiderio di fronte a un cambiamento che intacca le coordinate simboliche su cui si reggeva. Lacan insiste sul fatto che il soggetto non è mai pienamente “adattato” al mondo: vive sempre in un certo scarto, determinato dal desiderio inconscio. Quando un evento stressante obbliga a una ristrutturazione rapida (perdita di un ruolo, rottura di un legame, cambiamento improvviso), questo scarto può diventare sintomatico.


L’evento come rottura del Nome-del-Padre

Un esempio: un uomo perde il lavoro dopo vent’anni di impiego stabile. Il DSM parla di umore depresso, insonnia, irritabilità. La psicoanalisi aggiunge: il licenziamento ha incrinato il significante che dava sostegno alla sua posizione soggettiva, quello del “padre di famiglia che provvede”. In termini lacaniani, è il Nome-del-Padre (il significante che ordina il desiderio e lo lega alla Legge simbolica) che viene messo in questione. Non è tanto l’assenza di reddito a creare il sintomo, ma il crollo della scena simbolica che fondava la sua identità.


Tra eccitazione e depressione

Lacan descrive le reazioni soggettive al trauma e allo stress come oscillanti tra due poli: eccitazione (angoscia, agitazione, acting out) e depressione (ritiro, abbattimento, melanconia). Nei disturbi dell’adattamento osserviamo proprio questa dinamica: il soggetto non riesce a elaborare un nuovo significante che lo collochi, e resta sospeso tra un eccesso di tensione e un vuoto di senso.

Un’adolescente che, dopo il divorzio dei genitori, manifesta ribellione a scuola e comportamenti oppositivi, non esprime soltanto “ansia e rabbia”: mette in scena la caduta di un riferimento simbolico — la coppia genitoriale come garanzia di stabilità — e cerca di inventare, a modo suo, una nuova posizione soggettiva.


La questione del tempo

Il DSM stabilisce il limite di sei mesi per la remissione dei sintomi. La psicoanalisi, invece, non misura il tempo in mesi ma nel ritmo dell’elaborazione soggettiva. Alcuni riescono a riarticolare rapidamente il proprio desiderio dopo una perdita; altri restano a lungo prigionieri di un significante caduto. Ad esempio, una donna che dopo un trasferimento di città non riesce a inserirsi socialmente può non soffrire tanto del cambiamento pratico, quanto della perdita del legame con un Altro che la riconosceva. Il tempo clinico necessario è quello per trovare un nuovo punto d’appoggio simbolico, non quello fissato dalle classificazioni.


Trattamento: dal sostegno al desiderio

In chiave lacaniana, l’obiettivo non è “riportare il soggetto alla normalità” né insegnargli strategie di coping, ma accompagnarlo a produrre un nuovo legame tra il proprio desiderio e la catena significante.

  • Con il padre licenziato, il lavoro analitico può consistere nell’interrogare l’identificazione al ruolo lavorativo e aprire uno spazio dove emerga ciò che resta del suo desiderio al di là del lavoro perduto.

  • Con l’adolescente oppositiva, non si tratta di reprimere i comportamenti ma di ascoltarli come messaggi rivolti all’Altro, segni di una ricerca di collocazione simbolica.

  • Con la donna che si sente spaesata dopo il trasferimento, il sintomo non è “ansia sociale”, ma il segnale di un legame con l’Altro che si è spezzato: la clinica apre la possibilità di rintracciare nuove modalità di appartenenza.


Conclusione

Il disturbo dell’adattamento, letto con Lacan, non è una semplice “reazione sproporzionata” a un evento, ma il punto in cui un soggetto è chiamato a reinventare il proprio legame con l’Altro, spesso nel vuoto lasciato da un significante caduto. La clinica non mira a riportarlo a una stabilità presunta, ma a sostenerlo nel processo di riscrittura del proprio posto simbolico, là dove l’Altro non gli offre più garanzie.



lunedì 15 settembre 2025

La mente al plurale e la dislessia. Oltre la visione del deficit


La dislessia è spesso interpretata come un ostacolo alla lettura e alla scrittura. Tuttavia, ridurla a un semplice deficit rischia di trascurare le risorse cognitive e creative che possono emergere. Parlare di dislessia oggi significa riconoscere non solo le difficoltà, ma anche la pluralità della mente e i diversi modi in cui un soggetto può apprendere, pensare e conoscere.


Il dono e il vantaggio

Ronald Davis (1994), con Il dono della dislessia, ha evidenziato come la mente dislessica funzioni spesso per immagini, offrendo una visione d’insieme e una capacità di collegare idee lontane. Brock e Fernette Eide (2011), con Il vantaggio della dislessia, descrivono i profili cognitivi M.I.N.D. (Materiale, Interconnessione, Narrazione, Dinamico), che includono abilità nel manipolare oggetti e spazi, intuire collegamenti complessi, creare narrazioni e immaginare scenari futuri. La difficoltà nella lettura diventa così un indicatore di stili cognitivi alternativi, non di incapacità.


Gardner e le intelligenze multiple

La teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner (1983) è una cornice utile per comprendere questa pluralità. Esistono diverse intelligenze: linguistica, logico-matematica, musicale, spaziale, corporeo-cinestetica, naturalistica, interpersonale e intrapersonale. Tutte possono manifestarsi nei soggetti dislessici come risorse alternative al canale linguistico.

In particolare, l’intelligenza intrapersonale (consapevolezza di sé) e quella interpersonale (sensibilità agli altri) aiutano i ragazzi a sviluppare strategie di apprendimento e relazioni efficaci. Ma anche le altre forme di intelligenza possono emergere: la spaziale facilita l’orientamento e il problem solving; la corporeo-cinestetica permette di apprendere attraverso il movimento; la musicale supporta il ritmo e la memoria sonora; la logico-matematica consente di risolvere problemi astratti, anche se la lettura è lenta o faticosa.

📌 Esempio: un bambino che fatica a leggere un testo di scienze può invece costruire un modellino funzionante, dimostrando comprensione attraverso l’intelligenza spaziale e corporea.


Bruner e i codici di rappresentazione

Jerome Bruner (1966) propone un approccio complementare, concentrandosi sui modi in cui la conoscenza viene rappresentata:

1. Esecutivo – apprendere facendo, attraverso l’azione;

2. Iconico – apprendere tramite immagini e simboli visivi;

3. Simbolico – apprendere tramite linguaggio e simboli astratti, come la scrittura.

La difficoltà nel canale simbolico scritto tipica della dislessia può essere compensata dai canali esecutivo e iconico. In sintesi: Gardner descrive chi sei e quali talenti possiedi, Bruner descrive come apprendi. Insieme, offrono una cornice utile per valorizzare le diverse modalità di apprendimento dei dislessici.


La psicoanalisi: soggettività e linguaggio

La psicoanalisi aggiunge un livello di comprensione del soggetto: la dislessia non è solo tecnica, ma riguarda anche il rapporto con il linguaggio e l’Altro. Le lettere possono confondersi, ma proprio da questa difficoltà nasce un modo originale di stare con la parola.

📌 Esempio: un adolescente che evita la lettura può eccellere in laboratorio teatrale o in attività narrative, trasformando il linguaggio in voce, gesto e ritmo. L’ascolto psicoanalitico valorizza la soggettività: non mira a “normalizzare”, ma a riconoscere i percorsi individuali di conoscenza, desiderio e apprendimento.


Educazione e clinica in dialogo

La clinica lavora su più livelli: valutazione globale, interventi educativi personalizzati, laboratori creativi, supporto emotivo e coordinamento multidisciplinare. Combinare strumenti compensativi con attività pratiche e ascolto psicologico produce risultati più duraturi.

📌 Esempio: un ragazzo con difficoltà di lettura può valorizzare il disegno tecnico, la narrazione orale o altre intelligenze, integrando risorse cognitive, emotive e relazionali.


Conclusione

Guardare la dislessia come pluralità della mente significa superare la visione riduttiva del deficit. Gardner e Bruner offrono strumenti complementari per riconoscere talenti e stili di apprendimento diversi, mentre la psicoanalisi ci ricorda l’importanza della soggettività. Educazione e clinica possono così accompagnare ogni soggetto nel proprio modo unico di conoscere, apprendere e desiderare, trasformando la dislessia in un’occasione di crescita e scoperta.



Bibliografia essenziale

Davis, R. (1994). Il dono della dislessia. Milano: Macro Edizioni.

Eide, B., & Eide, F. (2011). Il vantaggio della dislessia. Milano: Franco Angeli.

Gardner, H. (1983). Frames of Mind: The Theory of Multiple Intelligences. New York: Basic Books.

Bruner, J. (1966). Toward a Theory of Instruction. Cambridge, MA: Harvard University Press.

Foschi, R., & Rota, S. (2010). Psicoanalisi e difficoltà di apprendimento. Milano: Franco Angeli.





venerdì 12 settembre 2025

Psicopatia e patologia della normalità: continuità e differenze nella banalità del male

Psicopatia: il male fuori dal coro

La psicopatia si manifesta come un agire senza rimorso, senza empatia e senza confronto con il Super-io sociale. Esempi noti come Ted Bundy o Andrei Čikatilo mostrano come il male possa nascere dal soggetto stesso, senza bisogno di giustificazione esterna. Qui il significante dominante – la voce della coscienza, del dovere, del gruppo – è silente o irrilevante. L’atto è personale, calcolato e scelto: non c’è banalità, ma brutalità autonoma e isolata.

In chiave lacaniana, si può anche ipotizzare che lo psicopatico agisca per porre un limite al Reale insopportabile: l’impulso diventa un modo per contenere ciò che non riesce a essere simbolizzato, un gesto immediato che tenta di organizzare l’esperienza quando manca un significante padrone stabile.


Patologia della normalità: il male guidato dal coro

La normalità ordinaria, invece, agisce secondo un “coro” di voci interne e sociali: leggi, ordini, valori condivisi, ideali collettivi. Il soggetto interiorizza queste voci e le percepisce come guida della coscienza, come se fossero una vera e propria “voce interiore” che indica ciò che è giusto fare.

In situazioni di guerra o contesti ideologici, atti che altrove sarebbero considerati crimini possono essere premiati o osannati: il riconoscimento sociale rafforza il significante dominante e trasforma il male in routine percepita come legittima.

Esempi storici comprendono Eichmann, organizzatore della Shoah, soldati in Vietnam, e massacri in Ruanda o Afghanistan. In questi casi, la banalità del male emerge proprio dal fatto che persone ordinarie compiono atti terribili senza sentirsi personalmente cattive, guidate dal coro interno del significante dominante.


Identificazione immaginaria e fattori di sostegno

Il soggetto ordinario si lega al significante dominante attraverso l’identificazione immaginaria: investe la propria identità sull’Io ideale, l’immagine di sé che riflette l’ordine, il gruppo e i valori condivisi.

Altri fattori rafforzano questo legame:

  • Paura e sopravvivenza spingono all’obbedienza;
  • Dovere e responsabilità verso il gruppo o la nazione consolidano la guida interna;
  • Premi o riconoscimenti sociali legittimano l’azione;
  • Distacco emotivo e meccanismi di difesa riducono empatia e senso di colpa.

In questo modo, la normalità ordinaria può diventare portatrice di male “banale”, agito come routine percepita giusta e necessaria.


Continuità e differenze

C’è una continuità: in entrambe le condizioni, psicopatia e normalità ordinaria, la soggettività struttura l’atto.

Le differenze principali sono però evidenti:

  • Psicopatia → vuoto interno, Super-io sociale silente, male personale, scelto e calcolato;
  • Normalità ordinaria → Super-io attivo, significante dominante interiorizzato e rinforzato dal coro sociale, male percepito come doveroso e ordinario.

La psicopatia non rientra nella banalità del male in senso arendtiano, ma può essere interpretata come un modo di affrontare il Reale insopportabile: l’azione impulsiva serve a contenerlo quando manca un significante padrone che simbolizzi e organizzi l’esperienza.


Il Reale e la responsabilità

Il male ordinario si compie in apparente continuità, ma il Reale emerge come limite e frattura morale: sofferenza, morte e orrore restano impressi e talvolta generano trauma o vuoto. Anche se razionalizzato o mediato dal significante dominante, il Reale mostra che nessuna guida interna o sociale può rappresentare pienamente la realtà dell’atto.

Riconoscere il peso del Reale, percepire il dissidio interno tra ordini, valori universali ed empatia, resta fondamentale per preservare la responsabilità soggettiva e prevenire che la banalità del male diventi routine.


📚 Breve bibliografia

  • Arendt, H. (1963). La banalità del male. Feltrinelli.
  • Freud, S. (1930). Il disagio della civiltà. Opere.
  • Lacan, J. (1966). Scritti. Einaudi.
  • Fromm, E. (1955). Fuga dalla libertà. Edizioni di Comunità.
  • Milgram, S. (1974). Obedience to Authority. Harper.






giovedì 11 settembre 2025

Integrazione di terapia farmacologica e terapia psicoanalitica

Introduzione

La pratica clinica contemporanea pone sempre più spesso di fronte alla necessità di integrare diverse modalità di cura. Tra queste, l’uso della terapia farmacologica e il trattamento psicoanalitico rappresentano due poli apparentemente distanti. Da un lato, la farmacologia agisce sul cervello e sui processi neurochimici; dall’altro, la psicoanalisi lacaniana lavora sul soggetto dell’inconscio, sul linguaggio e sul desiderio. Come possono questi due approcci dialogare? L’esperienza clinica mostra che non solo è possibile, ma in molti casi è indispensabile pensare a un’integrazione, rispettando i confini e le funzioni specifiche di ciascun intervento.


Differenze di prospettiva

La psicoanalisi lacaniana non si concentra sul sintomo come semplice disturbo da eliminare, ma lo legge come un modo con cui il soggetto si organizza rispetto al proprio desiderio e al rapporto con l’Altro. Il sintomo ha una funzione, spesso inconsapevole, e l’analisi lo esplora per aprire nuove possibilità soggettive.

La terapia farmacologica, invece, interviene sul piano biologico. Agendo sui sistemi serotoninergici, dopaminergici o glutammatergici, modula l’ansia, la depressione, le allucinazioni, i disturbi del sonno. È un intervento che non interpreta, ma riduce l’intensità del fenomeno.

Queste due logiche non sono sovrapponibili, ma proprio per questo possono coesistere. Il farmaco agisce sul reale del corpo, l’analisi sul simbolico del linguaggio.


La funzione del farmaco

Dal punto di vista lacaniano, il farmaco non risolve il sintomo, ma lo rende trattabile. In particolare:

  • contiene l’eccesso di godimento che invade il soggetto nella psicosi o nell’angoscia acuta;
  • riduce la sofferenza biologica che può impedire l’instaurarsi del transfert;
  • crea una base di stabilità che permette al soggetto di iniziare un lavoro di parola.

Un esempio è quello dei pazienti psicotici. In fase acuta, senza una terapia antipsicotica, il delirio o le voci possono risultare troppo invasivi perché un colloquio analitico abbia luogo. Il farmaco non cancella il delirio, ma ne riduce l’intensità, rendendo possibile l’incontro con l’analista.


La funzione dell’analisi accanto al farmaco

Il lavoro analitico si colloca altrove. Se il farmaco riduce il sintomo, l’analisi lavora sul senso che quel sintomo ha per il soggetto. Il trattamento lacaniano si orienta al desiderio, all’inconscio e alla particolarità della posizione di ciascuno. Nessun farmaco, per quanto efficace, può elaborare le domande fondamentali che abitano il soggetto: “Che cosa vuole l’Altro da me?”, “Che posto occupo nella mia storia?”, “Come posso vivere con il mio sintomo?”.

Un soggetto depresso, ad esempio, può trovare beneficio da un antidepressivo, recuperando energia e regolarità del sonno. Tuttavia, senza un lavoro analitico, il rischio è che il miglioramento resti parziale o dipendente dal farmaco. Solo il percorso con l’analista può permettergli di affrontare le radici del suo vissuto di vuoto, di colpa o di mancanza di senso.


I rischi da evitare

L’integrazione richiede equilibrio. Ci sono tre rischi principali:

  1. Medicalizzare tutto: ridurre il soggetto a un insieme di squilibri neurochimici, trascurando la sua parola.
  2. Rifiutare il farmaco per principio: negare a priori la farmacologia significa lasciare il paziente esposto a un reale ingestibile.
  3. Confondere i piani: il farmaco non interpreta, l’analista non prescrive. Ognuno deve mantenere il proprio ruolo.


Un modello di integrazione

La clinica più efficace si fonda su tre punti:

  1. Collaborazione interdisciplinare: psichiatra e analista lavorano insieme, in dialogo costante, ma senza annullare le differenze di funzione.
  2. Uso mirato del farmaco: pensato non come soluzione definitiva, ma come strumento per consentire l’avvio e la prosecuzione dell’analisi.
  3. Centralità del soggetto: la cura non si riduce a un dosaggio né a un’interpretazione. L’obiettivo è sostenere la singolarità del soggetto nella sua complessità, tra corpo e parola.


Conclusione

L’integrazione tra terapia farmacologica e psicoanalisi non è una fusione, ma una coabitazione. Il farmaco sostiene il corpo, l’analisi sostiene il soggetto. Tenere insieme queste due dimensioni consente una cura più ampia e rispettosa, capace di accogliere sia la realtà biologica sia la dimensione simbolica che costituisce l’essere umano.


Il principio di prestazione in psicoanalisi


Il linguaggio psicoanalitico classico di Freud ci ha lasciato due coordinate fondamentali: il principio di piacere e il principio di realtà. Il primo descrive la spinta originaria dell’apparato psichico a cercare soddisfazione immediata, scarico di tensione e godimento pulsionale. Il secondo rappresenta il limite imposto dalla vita sociale, dalla cultura e dalle esigenze materiali: la rinuncia o il differimento della soddisfazione, la sublimazione e la mediazione con l’ordine simbolico che garantisce la convivenza collettiva.

Per Freud, l’accesso alla civiltà comporta una certa rinuncia pulsionale: senza questa mediazione, l’individuo resterebbe schiavo del proprio desiderio immediato e la vita sociale sarebbe impossibile. Il conflitto tra piacere e realtà costituisce il terreno stesso della nevrosi e dell’elaborazione analitica.


Dal principio di realtà al principio di prestazione

Herbert Marcuse (Eros e civiltà, 1955) osserva come, nelle società industriali avanzate, il principio di realtà si sia trasformato in un principio di prestazione. Non si tratta più soltanto di rinunciare al piacere, ma di interiorizzare un imperativo più specifico: essere produttivi, efficienti e performanti.

Il soggetto deve dimostrare costantemente il proprio valore attraverso il lavoro, la competizione e la misurazione del rendimento. La realtà non è solo un dato materiale, ma diventa una realtà sociale organizzata attorno alla produttività e al successo individuale.


Lacan e la logica contemporanea della prestazione

Lacan non utilizza direttamente il termine “principio di prestazione”, ma il suo concetto di discorso del capitalista mostra come la società contemporanea non richieda solo rinuncia pulsionale, ma un nuovo tipo di godimento forzato. L’imperativo non è più “devi rinunciare”, ma “devi godere, devi performare, devi apparire competente”.

Questo produce forme cliniche tipiche della modernità: ansia da prestazione, burn-out, depressione legata al senso di inadeguatezza, difficoltà nel sostenere il desiderio in un contesto che non conosce limiti simbolici ma solo richieste di efficienza. Il paradosso è che il principio di prestazione non libera la pulsione, ma la incatena in una logica senza fine: non si raggiunge mai abbastanza, non si gode mai abbastanza, non si è mai sufficientemente performanti.


Esempi concreti

1. Ambito lavorativo: un impiegato tecnologico può vivere ansia cronica perché la sua identità è legata al rendimento e al confronto con i colleghi. Anche piccoli errori diventano fonte di inadeguatezza.

2. Ambito educativo: studenti sotto pressione scolastica mostrano disturbi del sonno e blocchi emotivi; il loro valore personale sembra misurarsi esclusivamente in voti e risultati.

3. Ambito digitale: nei social network, il principio di prestazione si manifesta nella necessità di apparire costantemente competente e felice; il valore soggettivo dipende dai like e dalla visibilità, generando stress e ansia da confronto.


Clinica e società

Dal punto di vista clinico, molti sintomi contemporanei derivano dall’angoscia di non essere all’altezza più che dalla colpa nevrotica classica. Dal punto di vista sociale, il principio di prestazione produce inclusione ed esclusione: chi performa è riconosciuto, chi non riesce resta ai margini. La psicoanalisi può offrire al soggetto uno spazio in cui interrogare il proprio desiderio al di là dell’imperativo di efficienza.


Conclusione

Il principio di prestazione, evoluzione storica del principio di realtà, ci aiuta a comprendere le sofferenze psichiche e sociali del presente. Con Freud cogliamo la necessità della rinuncia; con Marcuse vediamo come questa rinuncia sia storicamente organizzata; con Lacan osserviamo l’imperativo contemporaneo di eccedere nella prestazione. La psicoanalisi restituisce al soggetto la possibilità di fare esperienza del proprio desiderio singolare, al di là del comando sociale.


Breve bibliografia:

1. Freud, S. Al di là del principio di piacere, 1920.

2. Marcuse, H. Eros e civiltà, 1955.

3. Lacan, J. Il seminario, Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi (1969-70).

4. Byung-Chul Han, La società della stanchezza, 2010.








martedì 9 settembre 2025

Disturbi dissociativi

1. Cos’è la dissociazione

I disturbi dissociativi rappresentano una modalità attraverso cui la psiche cerca di proteggersi da esperienze traumatiche o da conflitti emotivi troppo intensi. In termini psicoanalitici, non si tratta semplicemente di anomalie neurologiche, ma di strategie di difesa complesse, che riflettono il tentativo del soggetto di mantenere un senso di sé di fronte a eventi insopportabili.


2. Disturbo dissociativo dell’identità (DID)

Tra i disturbi dissociativi più noti troviamo, secondo il DSM V, il Disturbo Dissociativo dell’Identità (DID). In questo disturbo, il soggetto manifesta due o più identità distinte, ciascuna con propri ricordi, comportamenti e modalità affettive.
Esempio: un adolescente con DID può avere un’identità principale che frequenta la scuola normalmente e un’altra che emerge in contesti domestici o in momenti di stress intenso, agendo in modo completamente diverso.

In chiave lacaniana, queste identità multiple possono essere interpretate come modalità separate di soggettivazione, ciascuna organizzata attorno a un proprio significante padrone (S1), che permette al soggetto di gestire desideri e impulsi altrimenti insopportabili.


3. Disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione (DPDR)

Il disturbo di depersonalizzazione si caratterizza per un senso di distacco da sé stessi o dall’ambiente circostante. Il soggetto può percepire il proprio corpo o i propri pensieri come estranei, o il mondo come irreale o distante.
Esempio: un giovane adulto durante un episodio di forte ansia può sentire le proprie mani come “estranee” e il volto degli altri come sfocato, pur mantenendo consapevolezza della realtà circostante.

Dal punto di vista psicoanalitico, la depersonalizzazione rappresenta una difesa contro un’angoscia intensa o un trauma non simbolizzato, un modo per distanziarsi temporaneamente dal reale che minaccia il senso di continuità del sé.


4. Dissociazione e isteria

Storicamente, questi fenomeni sono stati avvicinati alla “formazione isterica”. Freud osservava che l’isteria consisteva nella conversione di conflitti psichici in sintomi somatici o dissociativi. Anche oggi, i disturbi dissociativi possono essere considerati una forma di isteria, ma in versione più complessa: la frammentazione riguarda non solo il corpo o il sintomo isolato, ma memoria, identità e percezione della realtà.

In termini lacaniani, l’isteria è una modalità in cui il soggetto mette in scena il desiderio dell’Altro; nei DID o nella depersonalizzazione, questa dinamica si manifesta in modo più radicale: il Sé si frammenta per proteggere il soggetto dal trauma, ma comunica anche un messaggio simbolico alla propria rete di relazioni significative.


5. Trattamento psicoanalitico

Il trattamento psicoanalitico dei disturbi dissociativi è lungo e graduale.

  • Nel DID, l’obiettivo è favorire l’integrazione dei diversi aspetti del Sé attraverso interpretazione e rielaborazione narrativa del trauma.
  • Nel caso della depersonalizzazione, l’approccio mira a radicare il soggetto nella realtà, riducendo ansia e permettendo di elaborare il trauma attraverso il linguaggio e la simbolizzazione.
  • Tecniche di grounding, esercizi di consapevolezza corporea e lavoro sul desiderio possono essere integrate in un percorso psicoanalitico più ampio.


6. Il significato della dissociazione

In psicoanalisi, la dissociazione non è mai un semplice sintomo: è una risposta alla tensione tra il Reale, il Simbolico e l’Immaginario.

  • Nel DID, le identità multiple gestiscono traumi precoci non simbolizzati.
  • Nella depersonalizzazione, il distacco dal corpo e dalla realtà aiuta a sopportare esperienze emotive altrimenti intollerabili.

In tutti i casi, la dissociazione segnala una difficoltà nel rapporto con il significante padrone (S1), cioè con l’insieme di regole simboliche e valori che permettono al soggetto di organizzare il proprio desiderio.


7. Conclusioni

I disturbi dissociativi possono essere considerati forme complesse di isteria, modi in cui il soggetto cerca di preservare un nucleo di sé di fronte al trauma o all’angoscia. La psicoanalisi, soprattutto quella lacaniana, offre strumenti per comprendere come la frammentazione del Sé sia collegata al linguaggio, al desiderio e al rapporto con l’Altro, e come sia possibile accompagnare il soggetto verso una rielaborazione integrativa della propria esperienza.



mercoledì 3 settembre 2025

Psicopatia: una lettura psicoanalitica integrata

La psicopatia è una struttura soggettiva complessa, caratterizzata da comportamenti antisociali, manipolazione e assenza di rimorso, pur mostrando spesso un adattamento apparente alla realtà. Dal punto di vista clinico, il DSM-5 la colloca nel disturbo antisociale di personalità, con criteri come inosservanza delle regole, impulsività e mancanza di empatia. La psicologia dinamica, con autori come Kernberg, e strumenti come la PCL-R di Hare, consentono di osservare la forza dell’Io, le relazioni strumentali, l’aggressività e i tratti psicopatici, integrando la valutazione comportamentale con la comprensione dei meccanismi soggettivi senza alterarne la struttura profonda.


Contributo lacaniano

Dal punto di vista psicoanalitico lacaniano, la psicopatia si distingue per un rapporto debole o assente con il Nome-del-Padre, simbolo della legge e della mediazione del desiderio. Il soggetto psicopatico non interiorizza il limite, agendo direttamente sul mondo e trasgredendo senza mediazione simbolica.

Il godimento (jouissance) è centrato sul dominio e sulla manipolazione dell’Altro, a differenza del pervertito che gioca con la legge simbolica.

Esempio clinico: un manager che guida il suo team convincendolo a seguirlo senza considerare i bisogni dei membri, traendo piacere dal controllo esercitato. Esteriormente appare competente e funzionante, ma il godimento resta centrato sul dominio, non sulla relazione simbolica.

Autori post-lacaniani come Jacques-Alain Miller collocano la psicopatia nella psicosi ordinaria, in cui il contatto con la realtà è presente, ma le fragilità simboliche rendono instabili le relazioni e centrato il godimento sul potere.


Terapia e riabilitazione

L’approccio psicoanalitico non mira a “curare” la psicopatia, ma a instaurare una relazione simbolica: rafforzare il legame con la legge simbolica, osservare e modulare il godimento centrato sul dominio e guidare la relazione con l’Altro. L’obiettivo è creare uno spazio simbolico in cui il soggetto possa confrontarsi con limiti e regole, pur senza modificare la struttura profonda.


Sintesi e conclusione 

La psicopatia combina diversi livelli di comprensione:

DSM-5, psicologia dinamica e PCL-R di Hare descrivono criteri, comportamenti e tratti psicopatici;

Lacan e la psicoanalisi post-lacaniana spiegano la fragilità simbolica, il godimento centrato sul dominio e il rapporto con il Nome-del-Padre.

In chiave lacaniana, la psicopatia evidenzia che il soggetto può funzionare nella realtà senza essere totalmente simbolizzato, mostrando come il godimento e il contatto con la legge simbolica possano restare in tensione. La pratica clinica si concentra dunque sul rapporto con il simbolico, sull’instaurazione di limiti percepiti e sulla modulazione del godimento, più che sulla trasformazione della struttura stessa. La psicopatia diventa così un caso paradigmatico per comprendere le tensioni tra realtà, simbolico e godimento nell’esperienza umana, offrendo una lettura della soggettività che integra diagnosi, osservazione comportamentale e interpretazione psicoanalitica.



Bibliografia essenziale

Lacan, J. (1955-1956). Le Séminaire, Livre III: Les psychoses. Paris: Seuil.

Miller, J.-A. (2018). La psychose ordinaire: La convention d'Antibes. Paris: Navarin.

American Psychiatric Association (2013). DSM-5. Arlington, VA: APA.

Hare, R.D. (2003). Manual for the Revised Psychopathy Checklist (PCL-R). Toronto: Multi-Health Systems.

Kernberg, O.F. (2016). The Treatment of Patients with Borderline Personality Organization and Psychopathy. New York: Routledge.





Eschaton. Per un’erotica del tempo estremo

Il tempo dell’invecchiamento non è solo successione cronologica ( Chronos, χρόνος ), ma un esperire soggettivo della fine , un attraversame...