sabato 28 giugno 2025

Vasco Rossi: una voce che dà corpo al sintomo contemporaneo

                              
Vasco's concert

"Eh già, sembrava la fine del mondo / ma sono ancora qua."
(Eh… già, 2011)

Vasco Rossi è molto più di un’icona musicale: è un fenomeno sociale che attraversa decenni di trasformazioni culturali, dando voce a un malessere che spesso resta inespresso. Non è un profeta né un guaritore. Non offre risposte, ma restituisce parola – e soprattutto corpo – a ciò che nella soggettività contemporanea resta senza nome: la confusione, la voglia, il desiderio che non sa dove andare.

La sua voce roca, imperfetta, imperniata di eccessi e fragilità, non è un “difetto stilistico” ma una forma di oggetto pulsionale, qualcosa che si inscrive direttamente sul corpo di chi ascolta. In termini lacaniani, potremmo dire che Vasco è oggetto voce, ovvero un frammento di godimento che tocca l’inconscio più che la comprensione razionale.


Il cantante che non guida ma accompagna

"Voglio una vita esagerata / piena di guai."
(Vita spericolata, 1983)

Fin dall’inizio Vasco ha preso le distanze dai modelli normativi – morali, religiosi, educativi – della tradizione italiana. Non ha cercato di proporre un nuovo ordine simbolico, ma ha mostrato la possibilità di restare accanto al vuoto, senza cedere alla disperazione né alla restaurazione di autorità fittizie.

In questo, la sua figura rappresenta non tanto un’alternativa quanto un’esposizione sincera. Egli non indica la via, ma testimonia che si può stare nella mancanza. Ed è proprio per questo che risuona con la condizione esistenziale di molti.


Il sintomo che tiene insieme

"C’è chi dice no, io non mi muovo."
(C’è chi dice no, 1987)

In psicoanalisi, il sintomo non è semplicemente un disturbo da eliminare. È una soluzione soggettiva al disagio, un modo – spesso paradossale – con cui il soggetto tenta di tenersi insieme. Le canzoni di Vasco non “curano”, ma mettono in scena il sintomo, e così lo rendono condivisibile, legabile, non più isolato.

L’identificazione che molti stabiliscono con lui – spesso potente, viscerale – può essere letta in termini di identificazione immaginaria: ci si riconosce in ciò che lui mostra, ci si sente rappresentati. Questo non è necessariamente un ostacolo. Può essere, al contrario, una prima forma di legame, una soglia di accesso al proprio sentire.


Il rispetto dell’alterità

Un aspetto meno evidente ma importante del repertorio di Vasco riguarda le figure femminili, che raramente sono stereotipate o ridotte a oggetti del desiderio. In brani come Albachiara o Sally, l’altro è lasciato nel suo enigma. Non viene posseduto, decifrato o conquistato, ma riconosciuto nella sua irriducibilità.

Questo atteggiamento, raro nel panorama musicale, apre uno spazio etico. Un rispetto della differenza che, pur nel linguaggio semplice della canzone, parla un linguaggio simbolico alto.


Il concerto come rito contemporaneo

"La gente non ha bisogno di spiegazioni, ha bisogno di sentire che non è sola."
(Intervista a Rolling Stone, 2018)

Nel contesto sociale odierno, dove prevale la disgregazione dei legami e il ritiro individuale, i concerti di Vasco rappresentano un raro spazio di risonanza collettiva. Il concerto non è solo intrattenimento: è rito, è legame, è esperienza del corpo in mezzo ad altri corpi che vibrano allo stesso ritmo.

In questi momenti, la confusione si trasforma in appartenenza, anche solo per qualche ora. E forse è in questo che si genera un senso.


Una figura-sintomo nel tempo del vuoto simbolico

In conclusione, Vasco Rossi rappresenta una figura-sintomo nel tempo del vuoto simbolico.
Non è guida spirituale, non è ideologo. È qualcuno che dà corpo a una forma di godimento imperfetta, sincera, esposta, con cui tanti possono entrare in risonanza.

Come ogni sintomo, non guarisce, ma tiene insieme. E nel suo modo di stare sul palco – fragile, ironico, ostinato – incarna qualcosa del soggetto contemporaneo: non risolto, ma vivo.

E questo, forse, è già molto.



venerdì 27 giugno 2025

ADHD: una lettura lacaniana del sintomo iperattivo-disattentivo


ADHD: una lettura lacaniana del sintomo iperattivo-disattentivo

Introduzione

Il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) è oggi uno dei disturbi più frequentemente diagnosticati nell’infanzia e nell’adolescenza. Il modello dominante di lettura è di tipo neurobiologico e comportamentale, orientato alla gestione dei sintomi e alla normalizzazione del comportamento. La psicoanalisi, e in particolare l’insegnamento di Jacques Lacan, propone invece una radicale messa in questione di questo paradigma: ci invita a interrogarci non su ciò che manca al bambino, ma su ciò che in lui eccede, sul senso soggettivo del suo sintomo, sul rapporto tra godimento, desiderio e discorso.


1. Il sintomo come risposta soggettiva

Lungi dall’essere un semplice "deficit", il comportamento iperattivo o disattento può essere letto come una risposta del soggetto a un impasse nel legame con l’Altro. Come insegna Lacan nel Seminario XI, “non c’è soggetto che non sia effetto di un significante per un altro significante”. Se manca un significante stabile che fondi l'identità simbolica del soggetto, si crea una condizione di disorganizzazione soggettiva.

In diversi casi clinici si osserva come i bambini manifestino comportamenti di agitazione o distrazione come risposta alla difficoltà di collocarsi nel desiderio dell’Altro. L’iperattività può rappresentare un modo per farsi vedere, per occupare uno spazio soggettivo non assegnato simbolicamente. Il sintomo non è allora un semplice disfunzionamento, ma una forma di appello, una modalità di sopravvivenza nel legame.


2. L’iperattività come difesa contro l’angoscia

Nell’ADHD il tempo sembra collassare: il soggetto non sa attendere, è preda dell’urgenza. Questo può essere letto come un tentativo di evitare l’incontro con la mancanza. Come osserva Lacan nel Seminario XX, “il reale del godimento, se non è mediato dal simbolico, invade il corpo”. Il bambino iperattivo agisce per non pensare, si muove per non sentire, occupa lo spazio per non cadere nel vuoto.

In alcune situazioni cliniche, il bambino mostra come la frenesia del corpo sia una barriera contro l’emersione dell’angoscia. Attraverso disegni o frammenti di parola, può emergere un vissuto di inseguimento, di minaccia indefinita, che l’azione corporea tenta di neutralizzare. Il sintomo protegge il soggetto da un confronto diretto con ciò che non ha nome.


3. Il fallimento dell’Altro simbolico

La funzione dell’Altro (genitoriale, educativo, sociale) è quella di offrire al soggetto una cornice simbolica, una Legge che consenta l’inserimento nel discorso. Nell’ADHD questa funzione sembra venuta meno. La madre è spesso troppo presente, il padre evanescente o senza parola. Il bambino resta in balia di un godimento senza argine.

Alcune situazioni cliniche mostrano come, in assenza di una funzione separativa, il bambino resti immerso in un legame simbiotico che impedisce l’instaurarsi di una posizione soggettiva. Il sintomo iperattivo o disattento diventa così una modalità di reazione a un eccesso di presenza dell’Altro, che invade lo spazio del soggetto.


4. Il discorso capitalista e l’iper-adattamento

Nel Seminario XVII Lacan descrive il discorso capitalista come un dispositivo in cui il soggetto è spinto alla produzione e al godimento immediato. In questo contesto, il bambino iperattivo è spesso il prodotto di una richiesta eccessiva: deve performare, adattarsi, non perdere tempo. Quando non riesce a farlo, viene medicalizzato.

In contesti familiari o scolastici molto esigenti, l’iperattività può insorgere come risposta inconscia a un ideale di efficienza inaccessibile. Alcuni bambini sembrano dire, con il corpo, “io non ci sto”, opponendosi inconsciamente a una logica di prestazione totalizzante.


5. La clinica della separazione

L’intervento psicoanalitico con soggetti iperattivi o disattenti non mira alla correzione del sintomo, ma alla sua soggettivazione. Si tratta di restituire al bambino la possibilità di entrare nel linguaggio, di nominare il proprio disagio, di riconoscere il desiderio dell’Altro e distinguersene.

Il lavoro clinico coinvolge spesso anche i genitori e gli insegnanti, per riformulare il posto del bambino nella rete simbolica. Laddove il sintomo occupa tutto lo spazio, la parola può riaprirlo. Anche piccoli segni, come un disegno ripetuto o una frase enigmatica, possono diventare l’inizio di una separazione soggettiva dal godimento e dall’Altro.


Conclusione

L’ADHD, letto alla luce della psicoanalisi lacaniana, non è un disturbo da correggere ma un sintomo da ascoltare. Un grido del corpo, una risposta al fallimento dell’Altro, un tentativo disperato di fare legame. Restituire al bambino la sua dimensione di soggetto è l’etica della clinica orientata dal desiderio.


Bibliografia

  • Lacan, J. (1973). Il Seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1970). Il Seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1973). Il Seminario. Libro XX: Ancora. Einaudi.
  • Mannoni, M. (1970). Il bambino, il folle e l’artista. Einaudi.
  • Maleval, J.-C. (2003). L’autismo: un’altra lettura possibile. Borla.
  • Laurent, E. (2005). La clinica del soggetto ipermoderno. In Attualità della psicoanalisi.
  • Di Ciaccia, A. (2006). La clinica del bambino e l’orientamento lacaniano. Quodlibet.
  • Recalcati, M. (2010). L’uomo senza inconscio. Da Freud al neoliberismo. Raffaello Cortina.


Quando il sapere inciampa. Una lettura psicoanalitica dei DSA

Introduzione: il sinthomo e il sapere

Il concetto di sinthomo, proposto da Jacques Lacan nel Seminario XXIII (1975-76), segna una svolta: il sintomo non è più semplicemente un messaggio da decifrare, ma una soluzione soggettiva, un nodo che tiene insieme le tre dimensioni fondamentali dell’esperienza: reale, simbolico e immaginario. In quest’ottica, il sinthomo rappresenta una risposta singolare alla divisione soggettiva, un punto di tenuta nel rapporto con il linguaggio e il godimento.

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) – tradizionalmente inquadrati in termini di deficit delle funzioni cognitive – possono così essere letti, nella prospettiva lacaniana, come formazioni sinthomatiche: espressioni del modo soggettivo di posizionarsi rispetto al sapere, alla Legge e all’Altro (famiglia, scuola, società). Il DSA, più che una disfunzione, diviene una forma di risposta, una strategia di esistenza nel legame con il sapere.


Dislessia: l’inciampo come distanza dal sapere

La dislessia, definita in termini cognitivi come un disturbo nella decodifica del linguaggio scritto, può essere osservata anche come resistenza simbolica all’ingresso nel sapere dell’Altro. Alcuni soggetti, nella relazione con la lettura, mostrano un’insistenza su errori che non sembrano solo derivare da un’incapacità, ma da una distanza difensiva rispetto al messaggio dell’Altro.

In alcuni casi osservati, si nota una lettura rallentata e piena di esitazioni, nonostante un’adeguata esposizione educativa. Ogni errore si presenta come un modo per sottrarsi all’effetto intrusivo del sapere, come se leggere correttamente comportasse una sottomissione al comando simbolico. In questo senso, la dislessia non appare come una semplice carenza, ma come un modo soggettivo di trattare l’invasione del linguaggio.


Disortografia: l’errore come segno di differenza

La disortografia, con le sue inversioni, omissioni o sostituzioni nella scrittura, può essere letta non solo come errore funzionale, ma come atto soggettivo. Si osservano bambini che, pur conoscendo le regole ortografiche, le infrangono sistematicamente: una specie di firma, di gesto unico e ripetuto, che resiste all’omologazione.

In alcuni contesti familiari, questo fenomeno è emerso in situazioni dove il soggetto si trova confrontato con ideali elevati, perfezionismi proiettati da figure parentali o confronti con fratelli eccellenti. L’errore ortografico diventa allora un modo per differenziarsi, per affermare un’esistenza propria fuori dallo schema dell’efficienza. L’errore non correggibile segnala un punto di godimento, un punto di rottura della norma in cui il soggetto dice: non sono l’altro che volete.


Disgrafia: il corpo che resiste alla scrittura

La disgrafia è spesso inquadrata come una difficoltà motoria fine nella scrittura. Ma il gesto grafico è, nel campo simbolico, il segno stesso dell’ingresso nel linguaggio. Quando la scrittura si inceppa, può trattarsi anche di una resistenza del corpo a farsi attraversare dal significante.

In più casi clinici, si osservano bambini che, nel momento della scrittura, mostrano movimenti corporei ripetitivi, auto-stimolazioni leggere o tensioni somatiche. La scrittura non riesce a diventare fluida, e sembra in qualche modo conflittuale per il corpo stesso. Questo lascia pensare che la disgrafia possa, in certi soggetti, rappresentare una difficoltà di separazione, un’impossibilità a lasciar passare il segno attraverso il corpo senza produrre un’eccedenza di godimento.


Discalculia: il rifiuto della separazione simbolica

Nel linguaggio lacaniano, il numero è spesso collegato alla funzione paterna, alla Legge, all’ordine. La discalculia può quindi essere interpretata anche come una resistenza all’operazione simbolica della separazione.

In alcune situazioni osservate, bambini senza deficit cognitivi generalizzati mostrano un rifiuto profondo del calcolo, una difficoltà immotivata nell’apprendere le tabelline o i concetti numerici elementari. Tali difficoltà sembrano in certi casi accompagnarsi a contesti familiari in cui il legame con la figura materna è molto forte e poco differenziato. Il numero, in questo senso, si configura come strumento di separazione, e il suo rifiuto come una forma inconscia di mantenimento della fusionalità.


Conclusione: il DSA come struttura sinthomatica

Rileggere i DSA attraverso la lente del sinthomo ci permette di spostare il fuoco dalla correzione alla comprensione soggettiva. Il bambino non è un contenitore deficitario da riempire, ma un soggetto che articola la propria posizione rispetto al sapere. Il disturbo non è un errore da rimuovere, ma un modo per reggere il proprio desiderio e il proprio corpo sotto la pressione del linguaggio dell’Altro.

La clinica psicoanalitica non mira alla normalizzazione funzionale, ma accompagna il soggetto nella trasformazione del rapporto con il sapere, sostenendolo nel costruire un legame che non annienti la sua singolarità. In questo senso, il DSA, quando accolto come sinthomo, può aprire lo spazio di una nuova articolazione del desiderio, e non solo di un miglioramento della prestazione.


Bibliografia

  • Lacan, J. (1964). Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1972-73). Il Seminario. Libro XX. Ancora. Einaudi.
  • Lacan, J. (1975-76). Il Seminario. Libro XXIII. Il sinthomo. Einaudi.
  • Brusa L., I disturbi dell'appartamento. Prospettive psicoanalitiche e dispositivi pedagogici, Quodlibet, 2024.
  • Maleval, J.-C. (2012). Il bambino autistico e la sua scrittura. Astrolabio.
  • Cosenza, G. (a cura di). (2018). La clinica dei disturbi dell’apprendimento. FrancoAngeli.
  • Recalcati, M. (2007). L’uomo senza inconscio. Raffaello Cortina.



martedì 17 giugno 2025

La Polis tra Neoliberismo e Comunitarismo: democrazia critica e resistenza del soggetto

 


Nel XXI secolo, la democrazia si trova stretta tra due forze simboliche di grande potenza: da un lato il neoliberismo, che dissolve progressivamente i legami sociali attraverso l'individualizzazione estrema e la razionalità economica totalizzante; dall'altro, il neocomunitarismo identitario, che risponde a questa dissoluzione con forme di chiusura, risentimento e difesa identitaria. In questo scenario complesso, si rende sempre più necessario pensare e praticare una democrazia critica, capace di accogliere la tensione tra queste due tendenze e di custodire la complessità del soggetto.

Il neoliberismo, che ha segnato l'ordine globale sin dagli anni Ottanta, ha prodotto ingiustizie profonde e durature. Il suo principio guida è la trasformazione di ogni ambito della vita in mercato: lavoro, scuola, cura, cultura. Il soggetto è spinto a pensarsi come imprenditore di se stesso, responsabile unico del proprio destino. Questa ideologia, che all'apparenza promette libertà, finisce per generare precarietà, solitudine e colpa. Le istituzioni pubbliche, debolite o privatizzate, non riescono più a sostenere i legami simbolici che strutturano la vita collettiva.

Di fronte a questa frattura, molti gruppi sociali reagiscono riscoprendo la forza dell'appartenenza: religiosa, etnica, nazionale o culturale. È il campo del neocomunitarismo identitario, che si esprime in forme diverse: dai fondamentalismi religiosi ai nazionalismi sovranisti, fino a movimenti comunitari chiusi e oppositivi. Queste forme rispondono a un bisogno reale di protezione, ma lo fanno spesso irrigidendo il simbolico, trasformando la differenza in minaccia, il confine in muro.

Eppure, il comunitarismo non è necessariamente regressivo. Se riconosciuto e accompagnato, può trasformarsi in comunitarismo critico: una forma di legame che mantiene la memoria, la cura e l'appartenenza, ma le apre al confronto, alla pluralità e alla responsabilità. Non più comunità identiche a sé stesse, ma comunità che riflettono sul proprio fondamento simbolico, che interrogano il proprio rapporto con l'altro.

È qui che la psicoanalisi ha molto da dire. Lacan ha mostrato come il soggetto sia sempre diviso, marcato dalla mancanza, e come ogni identificazione sia, al tempo stesso, necessaria e fittizia. Il soggetto ha bisogno di un significante padrone (S1) per stabilire la propria posizione, ma non coincide mai pienamente con esso. Questo scarto è il luogo stesso del desiderio e della libertà. La psicoanalisi, allora, non nega il bisogno di comunità, ma lo attraversa, lo decifra, ne svela le rigidità e le aperture possibili.

Nel lavoro clinico, educativo e sociale, vediamo ogni giorno soggetti presi tra la solitudine neoliberale e l'abbraccio soffocante dell'identità. Giovani, migranti, lavoratori precari cercano senso, ascolto, legame. La psicoanalisi può offrire uno spazio di parola in cui queste tensioni siano rese dicibili, in cui il soggetto sia riconosciuto nella sua irriducibile singolarità, ma anche nella sua iscrizione in un legame.

In questo orizzonte, la democrazia critica si presenta non come un semplice sistema procedurale, ma come forma simbolica della mediazione. Essa accoglie il conflitto senza volerlo eliminare, riconosce la differenza senza gerarchizzarla, apre spazi in cui i soggetti e le comunità possano articolare la propria voce. Quando la democrazia incontra forme di comunitarismo critico, si aprono esperienze concrete di "polis": spazi dove la cittadinanza non è solo appartenenza giuridica, ma partecipazione reale, cura del bene comune, costruzione di senso condiviso.

Possiamo citare come esempi:

  • Il terzo settore e le reti dei commons, che creano legami solidaristici nel cuore dell'economia;
  • il municipalismo democratico di Barcellona e altre città europee, che tenta di radicare la democrazia nella vita quotidiana;
  • alcune esperienze di scuola popolare e di pedagogia radicale, dove il sapere diventa condivisione e liberazione.

Questi esempi non sono modelli da imitare, ma segni che un altro incontro è possibile. Un incontro tra libertà e legame, tra differenza e appartenenza, tra soggetto e comunità. In questo senso, la democrazia critica può anche diventare comunitarismo critico: non negazione della comunità, ma suo attraversamento riflessivo, simbolico, aperto.

Lavorare per la democrazia oggi significa resistere alla doppia disumanizzazione del mercato e dell'identità chiusa. Significa difendere lo spazio della parola, del conflitto simbolico, del desiderio. Significa affermare che il soggetto non è mai del tutto inglobabile, né dal capitale, né dalla tribù. Ma anche che il soggetto non è mai solo: ha bisogno di luoghi, riti, nomi, legami.

Ecco allora il compito: trasformare la polis in uno spazio in cui soggetti e comunità possano non solo esistere, ma significare. In cui la psicoanalisi non sia un sapere separato, ma una pratica della parola e dell'ascolto capace di illuminare le faglie della contemporaneità.

Bibliografia sintetica

  • Brown, W. (2019). La fine della democrazia?. Einaudi.
  • Brague, R. (2009). Il futuro dell'Occidente. Cantagalli.
  • Lacan, J. (1964). Il seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.
  • Nancy, J.-L. (2000). Essere singolare plurale. Einaudi.
  • Mouffe, C. (2005). Sulla politica. Democrazia e antagonismo nel capitalismo globale. Meltemi.
  • Taylor, C. (1994). Radici dell'io. Feltrinelli.
  • Zizek, S. (2008). Vivere alla fine dei tempi. Ponte alle Grazie.
  • Butler, J. (2004). Vite precarie. Meltemi.
  • Han, B.-C. (2022). La crisi della narrazione. Einaudi.

Ecco l'articolo sviluppato fino a 6000 caratteri, integrando la tensione tra neoliberismo e comunitarismo identitario, il ruolo della democrazia critica, e la funzione della psicoanalisi nella salvaguardia del soggetto. Fammi sapere se vuoi inserirlo in una rivista specifica o adattarlo a un pubblico più tecnico o divulgativo.

Il vuoto nella pratica istituzionale: un'etica dell'attesa







1. Il vuoto come esperienza concreta nei servizi

Nel lavoro quotidiano nei servizi socio-sanitari ed educativi, il vuoto si presenta come esperienza concreta: momenti di sospensione, inattività, silenzio. Pause improvvise nel ritmo istituzionale, tempi morti tra un’attività e l’altra, assenze che sembrano pesare sull’atmosfera. Talvolta, questi vuoti sono vissuti come errori da colmare, falle nel dispositivo da riparare. Eppure, se ci si sottrae alla logica dell’efficienza immediata, si può riconoscere in questi interstizi il riemergere del reale, quell’eccedenza che sfugge all’organizzazione e che interroga profondamente la nostra posizione etica di operatori.


2. Vuoto, desiderio e mancanza nel soggetto

La psicoanalisi lacaniana ci invita a un'altra lettura: il vuoto non è assenza di senso, ma condizione strutturale del desiderio. Il soggetto umano si costituisce attorno a una mancanza originaria – il manque-à-être – che non va colmata, ma riconosciuta e sostenuta. Lacan afferma che “non c’è atto simbolico se non nel vuoto” (Seminario V): è nel vuoto che può emergere un nuovo significante, un atto soggettivo. In questa luce, i momenti “vuoti” nel lavoro educativo o terapeutico non sono da eliminare, ma da abitare con rispetto.


3. Il disagio degli operatori di fronte al vuoto

Nelle équipe, il vuoto mette spesso in crisi l’identificazione con un ideale di efficienza e di progettazione continua. L’operatore che si confronta con un’utenza silenziosa, apatica, non cooperante, può sentirsi inutile o inadeguato. Il rischio è la reazione ansiosa: colmare subito, agire, riempire. Ma questa risposta rischia di negare il tempo del soggetto e l’opportunità del desiderio. È necessario uno spostamento: dalla prestazione alla presenza, dalla fretta al rispetto per il tempo logico del soggetto.


4. Il tempo logico e l’attesa significativa

Lacan distingue il tempo cronologico da quello logico: il soggetto non si costituisce nel tempo lineare, ma attraverso rotture, sospensioni, atti. L’etica istituzionale che accoglie questa logica può offrire spazi dove il tempo del soggetto sia rispettato, e dove il desiderio possa articolarsi senza essere spinto o ridotto a bisogno. È la capacità di attendere senza esigere che rende fecondo un incontro. L’operatore che sa attendere senza forzare assume una posizione prossima a quella dell’analista.


5. Esempi clinici e quotidianità del vuoto

Pensiamo a un adolescente in un centro educativo che non partecipa alle attività, rifiuta ogni dialogo, sembra non volere nulla. La tentazione è quella di “fare qualcosa”: organizzare, intervenire, proporre. Ma può essere proprio l’assenza di intervento diretto, il rispetto per quel ritiro, a creare uno spazio dove qualcosa accada. Un giorno, forse, quel ragazzo chiede una musica, una frase, uno sguardo: in quel momento il soggetto ha occupato il vuoto con un proprio gesto.


6. Il vuoto come occasione di soggettivazione

Come ricorda Massimo Recalcati nella sua Clinica del vuoto, è nell’assenza dell’Altro che garantisce – nel tempo in cui il grande Altro si mostra mancante – che può emergere la soggettività autentica. Non si tratta di abbandono, ma di sostegno non intrusivo. Il vuoto non è il nulla, ma il luogo potenziale dove il soggetto può produrre un atto proprio, non imposto, non eterodiretto. Anche nelle riunioni d’équipe, momenti di disorientamento o sospensione progettuale possono divenire, se ben accolti, spazi di elaborazione collettiva e di ripensamento dell’azione.


7. Etica della presenza e clinica dell’inconsistenza

Questa pratica del vuoto richiede una trasformazione della posizione dell’operatore: non più colui che offre sempre senso, ma colui che sa sostenere l’inconsistenza del sapere. Una presenza che non pretende, che non chiude, che non anticipa. Si tratta, in termini lacaniani, di “occupare il posto dell’oggetto a”, ovvero sostenere la mancanza dell’Altro senza volerla saturare. Questo è il vero atto clinico, che riguarda tanto l’istituzione quanto la relazione uno per uno.


8. Conclusione: una politica della mancanza

In un tempo istituzionale dominato dalla logica dell’efficienza, accogliere il vuoto è un gesto clinico e politico. È un’etica dell’attesa, della presenza non saturante, della fiducia nel tempo soggettivo. Il vuoto, lungi dall’essere un fallimento, è ciò che rende possibile l’invenzione, la parola, l’atto. È lì che può emergere il soggetto, con il proprio tempo, la propria voce, la propria mancanza.

Bibliografia

  • Lacan, J. (1957-58). Il Seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio. Torino: Einaudi.
  • Lacan, J. (1966). Scritti. Torino: Einaudi.
  • Recalcati, M. (2010). Clinica del vuoto. Milano: Raffaello Cortina.
  • Heidegger, M. (1927). Essere e tempo. Milano: Longanesi.
  • Fink, B. (1995). The Lacanian Subject. Princeton University Press.


domenica 15 giugno 2025

Il disagio nella famiglia contemporanea. Una lettura lacaniana


1. Introduzione

La famiglia contemporanea si presenta come uno dei luoghi privilegiati in cui si manifesta il disagio psichico. Il venir meno delle strutture simboliche tradizionali ha reso più fragile il contesto familiare, spesso trasformandolo da luogo di trasmissione del desiderio e della legge a spazio confuso di domande, proiezioni e disorientamento. Una lettura lacaniana consente di cogliere questi fenomeni a partire dalle trasformazioni del significante, del Nome-del-Padre e del desiderio.


2. Il declino del Nome-del-Padre

Lacan (anni ’60-’70) ha sottolineato il progressivo declino del Nome-del-Padre, cioè della funzione simbolica che organizza la legge e struttura l’inconscio. Questo declino si riflette in una famiglia dove:

  • la funzione paterna non si impone più come punto di riferimento simbolico;
  • la funzione materna tende a inglobare il figlio, con effetti di alienazione e simbiosi.

Esempio:

In molte famiglie monoparentali o con padri “presenti-assenti”, si osservano madri che occupano tutto il campo simbolico, parlando "a nome del padre", ma in realtà senza mediazione. Il bambino diventa oggetto del loro godimento (jouissance), senza un terzo che tagli questa relazione.


3. La funzione della madre e la questione del godimento

Lacan distingue la madre come funzione del desiderio (apertura alla mancanza) dalla madre tutta (che chiude, godendo del figlio come oggetto).

Quando la madre non accede alla dimensione del desiderio, ma resta legata al godimento, si crea un soffocamento dello spazio soggettivo del figlio.

Esempio:

Nel caso di un adolescente con disagio psichico che vive in una famiglia con una madre iperprotettiva, si nota spesso l’impossibilità di separarsi. Il figlio, privo di una funzione paterna che introduca la legge della mancanza, resta imprigionato nel fantasma materno.


4. Nuove configurazioni familiari e nuove sfide simboliche

La pluralità delle forme familiari (famiglie ricostituite, omogenitoriali, monogenitoriali, ecc.) mette in evidenza che ciò che conta per la strutturazione del soggetto non è la forma, ma la funzione simbolica: chi occupa la funzione della legge, della castrazione simbolica, del desiderio.

Esempio:

In una famiglia omogenitoriale dove uno dei genitori riesce a sostenere la funzione del desiderio e della mancanza, il bambino può strutturarsi simbolicamente, purché vi sia un punto terzo che separi l’Altro materno dal soggetto.


5. Il ritorno del padre reale

In assenza della funzione simbolica del padre, può emergere un padre reale (violento, autoritario, o totalmente deresponsabilizzato) che non media, ma impone o abdica. Lacan chiama questo fenomeno "il padre che gode", cioè colui che non rappresenta la legge ma il proprio godimento.

Esempio:

Padri che trattano i figli come amici o rivali, introducendo dinamiche di seduzione o competizione che generano angoscia nei bambini. Qui il padre non taglia il godimento materno, ma vi partecipa o lo duplica.


6. Conseguenze sul piano clinico ed educativo

Il disagio familiare contemporaneo si esprime spesso in:

  • sintomi di angoscia, acting out e passaggi all’atto nei bambini;
  • difficoltà nei processi di separazione e individuazione;
  • rifiuto del limite, ma anche ricerca angosciosa di esso.

Esempio clinico-educativo:

Nei servizi per minori, si incontrano spesso soggetti che mettono in scena il fallimento della funzione simbolica: comportamenti esplosivi o fusioni affettive eccessive con gli adulti educatori, come se cercassero un significante padrone che manca nel proprio discorso familiare.


Conclusione

La lettura lacaniana del disagio nella famiglia contemporanea mostra come la crisi del legame simbolico e della funzione del desiderio produca forme nuove ma riconoscibili di sofferenza soggettiva. La sfida è riaprire lo spazio della parola e del desiderio, restituendo al soggetto una possibilità di separazione e di iscrizione nella legge simbolica.


Bibliografia essenziale

Opere di Lacan

  • Lacan, J. (1953-1980). Seminari I-XX. In particolare:
    • Seminario V: Le formazioni dell’inconscio
    • Seminario VII: L’etica della psicoanalisi
    • Seminario XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi
    • Seminario XVII: Il rovescio della psicoanalisi
    • Seminario XX: Encore (sul godimento e la femminilità)

Commentatori e applicazioni

  • Miller, J.-A. (2004). Il posto dell’insegnamento di Lacan nella storia della psicoanalisi.
  • Recalcati, M. (2007). Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre.
  • Recalcati, M. (2011). Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno.
  • Lebrun, J.-P. (2006). Le perversioni ordinarie. Vivere senza il Nome-del-Padre.
  • Mannoni, M. (1969). Il bambino, la maestra e lo psicoanalista (utile anche per il lavoro educativo con disabilità).

giovedì 12 giugno 2025

Cambiare il mondo senza prendere il potere: Zapatismo, desiderio e soggettivazione politica in chiave psicoanalitica

Cambiare il mondo senza prendere il potere. Zapatismo, desiderio e soggettivazione politica in chiave psicoanalitica


Introduzione

Il movimento zapatista, emerso nel 1994 nel Chiapas, ha rappresentato una rottura simbolica e politica con i paradigmi rivoluzionari tradizionali. Il suo rifiuto esplicito di "prendere il potere" e la pratica del "comandare obbedendo" offrono un'occasione unica per una lettura psicoanalitica della soggettivazione politica, del desiderio collettivo e della funzione dell'Altro. Questa lettura, ispirata alla teoria lacaniana, permette di comprendere il carattere rivoluzionario dello zapatismo non come presa del potere statuale, ma come trasformazione del legame sociale. Tuttavia, questa proposta etico-politica, pur profondamente innovativa, presenta limiti rilevanti quando confrontata con le sfide materiali e simboliche della contemporaneità.


1. Il soggetto politico tra mancanza e desiderio

In psicoanalisi il soggetto non è un'entità compatta ma divisa ($), costitutivamente mancante. Il desiderio non nasce da un bisogno, ma dall'incontro con l'Altro e dal fallimento di ogni soddisfazione piena. Lo zapatismo, nel rifiuto della conquista del potere centrale, sembra assumere questo carattere strutturalmente mancante del desiderio rivoluzionario, spostandolo dal piano del potere sull'altro al piano dell'apertura all'altro. "Camminare domandando" è una forma politica del desiderio: non voler colmare la mancanza con un potere, ma farne il motore del processo collettivo. Tuttavia, come nota Zizek, il rischio di una politica del desiderio priva di mediazione istituzionale è quello di cadere in una forma di impotenza sublimata, dove il desiderio stesso viene feticizzato a scapito dell'efficacia storica.


2. Il potere come significante padrone (S1)

Lacan individua nel significante padrone (S1) il fondamento simbolico del discorso del potere. Le rivoluzioni moderne hanno spesso sostituito un S1 con un altro (il re con il popolo, il capitale con il partito), senza modificare la struttura stessa del discorso. Lo zapatismo, al contrario, rifiuta di incarnare un nuovo S1. La sua struttura politica orizzontale, la pluralità dei soggetti e delle parole, il rifiuto della centralizzazione sono tutti tentativi di evitare la riemersione del discorso del padrone. Tuttavia, Laclau ha evidenziato che ogni articolazione politica richiede un momento di condensazione simbolica, un significante vuoto capace di unificare le domande eterogenee. Il rifiuto dello S1, se radicale, rischia di impedire la costruzione di un'egemonia contro-egemonica.


3. Comandare obbedendo: sovversione dell'Altro

"Comandare obbedendo" è una formula che disinnesca la verticalità del comando. Il capo non è l'Uno che sa, ma colui che risponde. L'autorità è ridotta a funzione simbolica, temporanea, legata al riconoscimento della comunità. Qui il soggetto politico non è rappresentato, ma articolato: si apre uno spazio di enunciazione dove l'autorità diventa funzione dell'ascolto. Questo può essere paragonato al discorso dell'analista, dove il sapere non è imposto ma evocato, emergente. Tuttavia, Badiou ha criticato le forme di democrazia radicale che rinunciano a ogni forma di decisione sovrana, vedendo in esse un rischio di dispersione: senza un Evento che imponga un nuovo ordine simbolico, il rischio è che la politica si dissolva nel sociale.


4. Il noi che include il diverso: identità molteplice

Lo zapatismo parla di un "noi" che non si chiude nell'identità ma che include la differenza. Il "nosotros" zapatista è il luogo simbolico dove il soggetto può esistere senza essere ridotto all'identico. È una politica del soggetto diviso, in cui il legame non è dato dalla somiglianza, ma dall'apertura all'inassimilabile. In termini psicoanalitici, si tratta di un "noi" che assume la castrazione simbolica e non cerca di riempirla con un Uno totalizzante. Pavón-Cuéllar, nella sua lettura critica della psicoanalisi latinoamericana, sottolinea l'importanza di non proiettare su questi "noi" locali un'immagine idealizzata o mitica del soggetto rivoluzionario: il rischio è quello di riprodurre inconsciamente una funzione dell'Altro coloniale, anche se apparentemente decostruita.


5. Il tempo dell'attesa e la soggettivazione come processo

Lo zapatismo non ha fretta di vincere. Rifiuta le logiche dell'accelerazione rivoluzionaria. Il tempo è il tempo dell'altro, del processo, della trasformazione soggettiva. Come in analisi, dove il tempo logico non coincide con il tempo cronologico, anche la rivoluzione zapatista procede per atti simbolici, interruzioni, retroazioni, elaborazioni collettive. Non c'è un fine, ma una direzione: quella dell'emancipazione soggettiva e comunitaria. Tuttavia, questa temporalità rischia di restare impolitica se non viene articolata con una strategia che tenga conto dei dispositivi di potere globali: come sottolinea Zizek, la sospensione dell'atto sovrano può diventare complicità con lo stato delle cose se non attraversa l'ordine simbolico con un taglio.


Conclusione: una rivoluzione etica con limiti strategici

Lo zapatismo rappresenta un esempio vivente di quella che Lacan avrebbe chiamato un'etica del desiderio. Non si tratta di abolire il potere, ma di sottrarsi alla sua cattura immaginaria. Non si tratta di eliminare il significante padrone, ma di ridurne gli effetti, di renderlo reversibile, temporaneo, attraversabile. In questo senso, lo zapatismo è una rivoluzione simbolica: non per prendere il potere, ma per trasformare il legame sociale.

Tuttavia, come notano diversi critici (Zizek, Laclau, Badiou, Pavón-Cuéllar), la rinuncia al potere può tradursi in una rinuncia alla trasformazione reale delle strutture materiali. L’esperienza zapatista mostra i limiti di una politica del desiderio quando non è sostenuta da una riflessione sul simbolico e sul reale della violenza sistemica. Forse la sfida, oggi, è quella di tenere insieme etica del desiderio e costruzione di istituzioni emancipative.


Bibliografia essenziale

  • Jacques Lacan, Il seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi, Einaudi
  • John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, Alegre
  • Subcomandante Marcos, Ya basta!, Feltrinelli
  • Enrique Dussel, 20 tesi di politica, Castelvecchi
  • Cornelius Castoriadis, L’istituzione immaginaria della società, Einaudi
  • Gloria Muñoz Ramírez, EZLN: el fuego y la palabra, Ediciones La Jornada
  • Miguel Benasayag, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli
  • Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi
  • Ian Parker e David Pavón-Cuéllar, Lacan, Discourse, Event: New Psychoanalytic Approaches to the Political, Routledge
  • Slavoj Zizek, Meno di niente, Ponte alle Grazie
  • Ernesto Laclau, La ragione populista, Laterza
  • Alain Badiou, L'ipotesi comunista, Ponte alle Grazie 

La famiglia contemporanea nella prospettiva lacaniana: tra sintomo, desiderio e funzione simbolica


Introduzione

Nel contesto attuale, la famiglia si presenta come un crocevia instabile di configurazioni relazionali, pressioni sociali e discorsi normativi. Di fronte alla moltiplicazione dei modelli familiari — monogenitoriali, omogenitoriali, migranti, ricomposti — l’approccio lacaniano offre una lettura non normativa, centrata non sulla forma della famiglia ma sulla sua funzione simbolica. Lungi dall’essere un residuo teorico del Novecento, il pensiero di Jacques Lacan fornisce strumenti ancora potenti per leggere la soggettivazione contemporanea, soprattutto laddove il discorso educativo e clinico si confronta con il disagio infantile e adolescenziale.


1.Famiglia e funzione del Nome-del-Padre

Per Lacan, la famiglia è il luogo primario di strutturazione del soggetto. La funzione del Nome-del-Padre non coincide con la figura paterna reale, ma designa un operatore simbolico che introduce il bambino nel campo del desiderio e del linguaggio, separandolo dall’immersione immaginaria nella relazione duale con la madre:

“Il Nome-del-Padre è il significante che fonda la legge come tale, e che essa stessa in quanto tale si rappresenta” (Lacan, 1957-58, Il Seminario. Libro V).

La crisi contemporanea del Nome-del-Padre, legata alla fragilizzazione dei legami simbolici, produce costellazioni familiari in cui i ruoli generazionali si sfumano: padri in posizione di minoranza simbolica, madri sovrainvestite, e figli portatori di un sintomo che non appartiene solo a loro, ma all’intero sistema familiare.

Esempio clinico : un bambino manifesta rifiuto scolastico e sintomi ansiosi in seguito alla separazione dei genitori. L’intervento lacaniano non mira a “curare” il sintomo in senso diretto, ma a leggerlo come formulazione soggettiva di un non-detto materno, espressione di una solitudine impossibile da nominare.


2.Il soggetto diviso e il desiderio dell’Altro

La soggettivazione, per Lacan, nasce nell’incontro con il desiderio dell’Altro. Il bambino si costruisce nella risposta alla domanda materna implicita: “Cosa sono per te?”. In assenza di una funzione simbolica che limiti tale domanda, il bambino può diventare oggetto fantasmatico del desiderio altrui, subendo un'alienazione soggettiva profonda.

“Il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro” (Lacan, 1958, Seminario VI).

Famiglie in cui la separazione soggettiva non è avvenuta, o in cui uno dei membri è trattenuto in una funzione riparativa o pacificante, tendono a produrre sintomi che incarnano questo eccesso di senso.

Esempio clinico: un adolescente svolge il ruolo di mediatore tra i genitori separati. Il lavoro educativo non si limita a “rafforzarne la resilienza”, ma si orienta verso la disidentificazione dalla funzione immaginaria, restituendo al soggetto lo spazio per non essere ciò che gli altri vogliono.


3.Il sintomo come prodotto della struttura familiare

Il sintomo, in una lettura lacaniana, non è mai solo individuale. Esso si colloca spesso nel figlio come “sintomo della coppia”, ovvero come elemento che mantiene in vita un legame o ne denuncia l’inconsistenza.

“Il bambino è preso nella funzione di oggetto a per il desiderio dei genitori” (Lacan, 1967, Proposta del 9 ottobre).

In particolare, nelle famiglie ricomposte o in transizione, il sintomo può esprimere tensioni non simbolizzate tra i membri.

Esempio clinico: un ragazzo si autolesiona nel contesto di una nuova convivenza con la compagna del padre. Il suo gesto diventa iscrizione corporea di un’impossibilità a scegliere tra due fedeltà contrapposte. Il sintomo qui nomina una divisione, laddove il discorso familiare resta silenzioso.


4.L’équipe come luogo di non-sapere

L’intervento educativo o psicologico ispirato al pensiero lacaniano non si fonda sull’applicazione di tecniche risolutive, ma sull’ascolto del soggetto e del suo sintomo come traccia di una verità. L’équipe non si pone come detentrice di sapere, ma come luogo di ospitalità dell’enigma.

“Il sapere non è mai tutto. L’inconscio non è qualcosa da interpretare una volta per tutte, ma da far parlare” (Lacan, 1977, Seminario XX).

  • L’educatore assume una posizione di presenza non intrusiva, sostenendo il tempo soggettivo dell’elaborazione.
  • Lo psicologo non interpreta in modo diretto, ma facilita il passaggio dalla sofferenza passiva alla possibilità di assumere il sintomo.
  • Tutti i membri dell’équipe si confrontano con l’idea che il sapere non può essere posseduto, ma solo evocato.


5. Nuove configurazioni familiari e discorsi sociali

Nel mondo contemporaneo, le famiglie si articolano in forme plurali, e non sempre si basano su un triangolo edipico. Tuttavia, ciò che resta fondamentale per la soggettivazione è la possibilità che vi sia una mediazione simbolica: un ordine che separi, nomini, strutturi.

In molte famiglie migranti, ad esempio, o in contesti religiosi fortemente normativi, il discorso dell’Altro si presenta sotto forma di identificazioni rigide o regole impositive. In altri casi, il discorso neoliberale si sostituisce al Nome-del-Padre con un invito a essere “performanti”, “adattati”, “flessibili”.


           “Il Nome‑del‑Padre è il significante della                 mancanza dell’Altro" (Seminario XI,                       1964)



L’approccio lacaniano non impone nuovi modelli, ma mira a riaprire lo spazio della domanda soggettiva, contro ogni discorso totalizzante.


Conclusione

In un tempo in cui la famiglia appare attraversata da incertezze simboliche e da sintomi che si manifestano sempre più precocemente nei bambini e negli adolescenti, la prospettiva lacaniana rappresenta un invito a non chiudere troppo presto il senso. Non si tratta di ripristinare un ordine perduto, ma di creare le condizioni affinché nel soggetto si apra un margine di libertà, dove il sintomo possa trasformarsi in parola, e la famiglia possa diventare — pur nelle sue nuove forme — un luogo di separazione e desiderio, e non solo di bisogno e identificazione.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1957-58). Il Seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio. Torino: Einaudi.
  • Lacan, J. (1958). Il Seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione. Inedito in italiano, disponibile in traduzioni parziali.
  • Lacan, J. (1967). Proposta del 9 ottobre 1967 sullo psicoanalista della scuola, in Scritti. Torino: Einaudi, 1974.
  • Lacan, J. (1972-73). Il Seminario. Libro XX. Ancora. Torino: Einaudi, 2001.
  • Mannoni, M. (1964). Il bambino, il suo “insegnante” e la psicoanalista. Torino: Einaudi, 1976.
  • Dolto, F. (1985). L'immagine inconscia del corpo. Milano: Raffaello Cortina 1997

venerdì 6 giugno 2025

Il leader nelle formazioni politiche: una lettura psicoanalitica

 

Leader e Formazioni politiche


Introduzione

La relazione tra leader e massa è un nodo cruciale per comprendere le dinamiche politiche collettive. A partire da Freud (1921), la psicoanalisi ha mostrato come i leader funzionino come figure di identificazione primaria, in grado di organizzare il desiderio e di strutturare l’investimento libidico collettivo. La teoria lacaniana, con il concetto di discorso del padrone e la formalizzazione dei quattro discorsi, ha permesso un ulteriore avanzamento: il leader non è solo un soggetto carismatico, ma un punto di sutura simbolica che struttura il legame sociale. In questa prospettiva, si può distinguere tra diversi tipi di leadership, ciascuno in rapporto con specifiche strutture psichiche e modi di funzionamento delle masse.


Tipologie di leadership in relazione alla psiche delle masse

Tipo di leadership Struttura psichica del leader Discorso dominante Struttura psichica prevalente nella massa Esempi storici
Perversa Perversa Discorso del padrone Complicità feticistica, adesione acritica Hitler, Mussolini
Paranoide Paranoide Discorso del padrone / universitario Identificazione persecutoria, coesione nell’odio Stalin, Netaniahu (in parte)
Isterica Isterica Discorso dell’isterica Idealizzazione, domanda incessante Zelensky, Greta Thunberg
Ossessiva Ossessiva Discorso universitario / padrone Adesione razionale, controllo difensivo De Gaulle, Cavour
Generativa Simbolicamente situata Discorso del padrone (pluralizzato)/ analista Cooperazione, legame orizzontale Gandhi, M.L. King, Allende
Analitica Funzione di causa Discorso dell’analista Apertura al desiderio, spostamento soggettivo Figura liminare, rara


Discussione

Le leadership perverse, come quelle di Hitler e Mussolini, si fondano su un godimento autoritario che incarna la Legge come volontà arbitraria. Il leader perverso si offre come oggetto causa del godimento della massa, convertendo il desiderio in obbedienza. Le masse risuonano a livello feticistico con questo assetto, godendo dell’identificazione senza colpa.

La leadership paranoide struttura invece il legame sociale attorno a un Nemico, interno o esterno. Il leader paranoide è convinto della propria missione salvifica e costruisce un legame comunitario attraverso la minaccia. Le masse si organizzano intorno alla coesione difensiva e all’identificazione persecutoria.

La leadership isterica, invece, gioca sul versante della domanda. Il leader isterico pone incessantemente una questione all’Altro – “perché questo mondo è così ingiusto?” – e convoca la massa a seguirlo nella sua inquietudine. Questo può generare mobilitazioni potenti ma anche instabilità.

Il leader ossessivo, come De Gaulle, agisce a partire da un punto di Legge che lo attraversa. Tende a strutturare la massa attraverso norme, pianificazione e razionalità. Il legame sociale si costruisce su un’identificazione con la coerenza e l’integrità del leader.

La leadership generativa si fonda su una simbolizzazione condivisa e situata. Gandhi e Martin Luther King hanno costruito la loro autorità non sulla forza o sulla fascinazione, ma sull’adesione etica a un principio superiore. La loro funzione è quella del significante che mette in parola e in forma il desiderio collettivo, senza imporsi come totalizzante. Questo tipo di leadership permette una soggettivazione diffusa.

Infine, in modo più raro e limite, vi è la possibilità di un leader che si ponga nella posizione del discorso analitico: non come colui che sa, ma come colui che causa desiderio. In questo caso, il leader non è un punto di godimento, né di identificazione rigida, ma una funzione che apre lo spazio della parola, del dubbio, della responsabilità soggettiva. È il caso di alcune figure rivoluzionarie che rifiutano il potere personale, o di alcune esperienze assembleari dove il ruolo del leader è decentrato e decostruito.


Bibliografia essenziale

  • Freud, S. (1921). Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Opere, vol. XI.
  • Lacan, J. (1969-70). Il rovescio della psicoanalisi. Seminario XVII.
  • Recalcati, M. (2007). L’uomo senza inconscio. Raffaello Cortina.
  • Lazzarato, M. (2012). La fabbrica dell’uomo indebitato. DeriveApprodi.
  • Žižek, S. (2006). La soggettivazione politica. Meltemi.


giovedì 5 giugno 2025

Il potere di generare: leadership diffusa e soggettività sociale in trasformazione

Potere di generare


📌 Abstract

L’articolo propone una riflessione critica sulla leadership generativa come forma emergente di soggettivazione collettiva nel lavoro contemporaneo, con particolare attenzione al terzo settore e al sindacalismo critico. In un contesto segnato dalla crisi del management tradizionale e dalla trasformazione delle istituzioni del lavoro, emergono pratiche di leadership distribuita che non si fondano sul comando, ma sulla capacità di attivare, sostenere e accompagnare processi generativi di senso e cooperazione. Attraverso una lettura che integra contributi teorici della psicologia sociale, della filosofia politica e della psicoanalisi lacaniana, l’articolo indaga i nodi critici e le potenzialità di queste esperienze, portando esempi tratti dal mondo del lavoro sociale e dei movimenti sindacali di base.

1. Introduzione: una crisi simbolica e organizzativa del lavoro

Nel cuore della crisi del capitalismo cognitivo e dell’economia delle piattaforme, il lavoro appare attraversato da una duplice contraddizione: da un lato la crescente frammentazione dei diritti e dei legami professionali; dall’altro, il riemergere di pratiche comunitarie, collaborative e politicamente consapevoli, che interrogano il modello dominante di leadership come puro esercizio di comando e controllo.

Come osservano Bonomi e Masiero (2020), nella società post-fordista emergono nuove soggettività che non si lasciano più organizzare secondo schemi gerarchici rigidi, ma richiedono forme di riconoscimento e partecipazione che valorizzino l’esperienza e l’iniziativa. La nozione di "leadership generativa" (Magatti, 2022) permette di leggere questi fenomeni in chiave trasformativa, come processi in cui non si trasmette solo potere, ma si produce soggettività, senso, e legami nuovi.

2. Cos’è la leadership generativa

La leadership generativa è un concetto emerso per indicare una forma di guida che non si limita a gestire o motivare, ma che attiva spazi di senso condiviso, di innovazione sociale e di trasformazione reciproca. Magatti (2022) parla di una leadership che "non si impone ma dispone", che ha la capacità di generare contesti e possibilità più che di esercitare controllo.

Questa forma di leadership è spesso situata e diffusa, come notano Pearce & Conger (2003), che la descrivono come "shared leadership", cioè una funzione che può emergere collettivamente e che si sviluppa lungo relazioni orizzontali, non necessariamente vincolata a ruoli o gerarchie formali. È una funzione che può emergere in momenti critici, o in modo rotante, come nei gruppi cooperativi o nei collettivi sindacali.

3. Lacan, il desiderio e la funzione del vuoto nella leadership

Jacques Lacan ha mostrato come ogni struttura del potere sia anche una struttura del desiderio. Il significante-padrone (S1) non è solo comando, ma ciò che organizza il discorso e orienta il desiderio collettivo (Lacan, 1981). Quando il comando manageriale perde legittimità simbolica, la funzione del leader non può più consistere nell’imposizione di norme, ma nel sostenere spazi vuoti in cui possano emergere soggettività.

Come suggerisce il Lacan del Seminario XI (1975), il desiderio si sostiene su un vuoto strutturale, e dunque anche la funzione del leader può essere interpretata come custodia di uno spazio simbolico generativo, e non come occupazione autoritaria. Questo è ciò che accade in molte esperienze del terzo settore e del sindacalismo critico, dove l’autorità si reinventa come ascolto radicale e messa in questione reciproca.

4. Due casi esemplari

4.1. Un collettivo educativo in area metropolitana

In una cooperativa sociale impegnata nell’accoglienza di famiglie migranti, l’équipe educativa ha rifiutato una struttura gerarchica rigida, scegliendo di ruotare la funzione di coordinamento tra i vari educatori. Si è trattato di una leadership "distribuita" e "non delegata" (Pearce & Conger, 2003), dove la capacità di guidare è emersa dall’esperienza e dalle relazioni.

Il risultato è stato un gruppo più coeso, capace di proporre innovazioni anche rischiose, rafforzando il senso di appartenenza e di responsabilità collettiva. È emersa una leadership generativa, che ha attivato soggettività senza fondarsi sul potere formale.

4.2. Un’assemblea sindacale di base nei servizi pubblici

In una grande città del Nord Italia, un gruppo di operatori sociosanitari, educatori e tecnici precari ha dato vita a un’assemblea intersettoriale, ispirata a pratiche mutualistiche. L’assenza di una figura fissa di portavoce ha favorito l’emergere di competenze multiple: comunicazione, lettura normativa, organizzazione dal basso.

Questa modalità ha permesso l’attivazione di nuove soggettività politiche, in linea con quanto afferma Giorgi (2022): "il lavoro che resiste non è solo quello che rivendica, ma quello che produce legami e senso". La leadership, in questi contesti, è funzione relazionale e generativa, più che gerarchica o rappresentativa.

5. Soggettività generativa e sindacalismo critico

Il sindacalismo critico — che comprende esperienze autonome, di base e anche talune trasformazioni interne alla rappresentanza tradizionale — rappresenta un terreno fertile per forme di leadership generativa. Giorgi (2022) parla di una "politica della cooperazione situata" che produce leadership relazionali e temporanee.

In questo contesto, il ruolo del leader non è comandare o rappresentare, ma connettere, tradurre, ascoltare, stimolare. Come affermano Carli e Paniccia (2003), è nell’analisi della domanda collettiva che può emergere una funzione generativa del coordinamento, al servizio di processi partecipativi.

6. Conclusioni

In un’epoca in cui il modello organizzativo tradizionale è sempre più inefficace, la leadership generativa si configura come pratica trasformativa. Nei contesti del terzo settore e nel sindacalismo critico, essa rompe la logica verticale del potere e propone un’altra visione: quella del potere di generare, del potere di sostenere vite e legami, e non solo performance.

Come nota Dejours (2009), "il lavoro contiene una dimensione di verità" che non può essere catturata dalla sola logica dell’efficienza. La leadership generativa custodisce questa verità, promuovendo spazi di parola, ascolto e trasformazione reciproca.


📚 Bibliografia

  • Bonomi, A. & Masiero, M. (2020). La società circolare. DeriveApprodi.
  • Carli, R. & Paniccia, R.M. (2003). Psicologia della partecipazione. FrancoAngeli.
  • Dejours, C. (2009). La banalità dell’ingiustizia sociale. Raffaello Cortina.
  • Giorgi, C. (2022). Il lavoro che resiste. Manifestolibri.
  • Lacan, J. (1975). Il seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1981). Il seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi. Einaudi.
  • Magatti, M. (2022). Generare libertà. Accedere al futuro. Feltrinelli.
  • Mazzoleni, G. (2023). Leadership generativa. Oltre il management tradizionale. Vita e Pensiero.
  • Pearce, C. L. & Conger, J. A. (2003). Shared Leadership: Reframing the Hows and Whys of Leadership. SAGE.
  • Sandri, G. (2018). Fare cooperazione oggi. Edizioni Gruppo Abele.


Vasco Rossi: una voce che dà corpo al sintomo contemporaneo

                               "Eh già, sembrava la fine del mondo / ma sono ancora qua." ( Eh… già , 2011) Vasco Rossi è molt...