"Eh già, sembrava la fine del mondo / ma sono ancora qua."(Eh… già, 2011)
Vasco Rossi è molto più di un’icona musicale: è un fenomeno sociale che attraversa decenni di trasformazioni culturali, dando voce a un malessere che spesso resta inespresso. Non è un profeta né un guaritore. Non offre risposte, ma restituisce parola – e soprattutto corpo – a ciò che nella soggettività contemporanea resta senza nome: la confusione, la voglia, il desiderio che non sa dove andare.
La sua voce roca, imperfetta, imperniata di eccessi e fragilità, non è un “difetto stilistico” ma una forma di oggetto pulsionale, qualcosa che si inscrive direttamente sul corpo di chi ascolta. In termini lacaniani, potremmo dire che Vasco è oggetto voce, ovvero un frammento di godimento che tocca l’inconscio più che la comprensione razionale.
Il cantante che non guida ma accompagna
"Voglio una vita esagerata / piena di guai."(Vita spericolata, 1983)
Fin dall’inizio Vasco ha preso le distanze dai modelli normativi – morali, religiosi, educativi – della tradizione italiana. Non ha cercato di proporre un nuovo ordine simbolico, ma ha mostrato la possibilità di restare accanto al vuoto, senza cedere alla disperazione né alla restaurazione di autorità fittizie.
In questo, la sua figura rappresenta non tanto un’alternativa quanto un’esposizione sincera. Egli non indica la via, ma testimonia che si può stare nella mancanza. Ed è proprio per questo che risuona con la condizione esistenziale di molti.
Il sintomo che tiene insieme
"C’è chi dice no, io non mi muovo."(C’è chi dice no, 1987)
In psicoanalisi, il sintomo non è semplicemente un disturbo da eliminare. È una soluzione soggettiva al disagio, un modo – spesso paradossale – con cui il soggetto tenta di tenersi insieme. Le canzoni di Vasco non “curano”, ma mettono in scena il sintomo, e così lo rendono condivisibile, legabile, non più isolato.
L’identificazione che molti stabiliscono con lui – spesso potente, viscerale – può essere letta in termini di identificazione immaginaria: ci si riconosce in ciò che lui mostra, ci si sente rappresentati. Questo non è necessariamente un ostacolo. Può essere, al contrario, una prima forma di legame, una soglia di accesso al proprio sentire.
Il rispetto dell’alterità
Un aspetto meno evidente ma importante del repertorio di Vasco riguarda le figure femminili, che raramente sono stereotipate o ridotte a oggetti del desiderio. In brani come Albachiara o Sally, l’altro è lasciato nel suo enigma. Non viene posseduto, decifrato o conquistato, ma riconosciuto nella sua irriducibilità.
Questo atteggiamento, raro nel panorama musicale, apre uno spazio etico. Un rispetto della differenza che, pur nel linguaggio semplice della canzone, parla un linguaggio simbolico alto.
Il concerto come rito contemporaneo
"La gente non ha bisogno di spiegazioni, ha bisogno di sentire che non è sola."(Intervista a Rolling Stone, 2018)
Nel contesto sociale odierno, dove prevale la disgregazione dei legami e il ritiro individuale, i concerti di Vasco rappresentano un raro spazio di risonanza collettiva. Il concerto non è solo intrattenimento: è rito, è legame, è esperienza del corpo in mezzo ad altri corpi che vibrano allo stesso ritmo.
In questi momenti, la confusione si trasforma in appartenenza, anche solo per qualche ora. E forse è in questo che si genera un senso.
Una figura-sintomo nel tempo del vuoto simbolico
Come ogni sintomo, non guarisce, ma tiene insieme. E nel suo modo di stare sul palco – fragile, ironico, ostinato – incarna qualcosa del soggetto contemporaneo: non risolto, ma vivo.
E questo, forse, è già molto.