giovedì 22 maggio 2025

"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" di Cesare Pavese: una lettura lacaniana


Verrà la morte


Verrà la morte e avrà i tuoi occhi 

– questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese 


"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", scritta da Cesare Pavese tra marzo e giugno del 1950, è forse il testo più nudo, tragico e radicale dell’intera sua opera. Ultimo approdo della sua scrittura poetica e insieme testamento esistenziale, questa poesia rappresenta l’incontro del soggetto con il reale, là dove il simbolico vacilla e il desiderio si confronta con la sua impossibilità.

1. Biografia e bibliografia: un ritorno alla poesia come sinthomo

La poesia appartiene a un piccolo ciclo postumo, pubblicato nel 1951, poco dopo il suicidio di Pavese. Dopo anni dedicati alla narrativa (La casa in collina, Il diavolo sulle colline, La luna e i falò), Pavese ritorna alla forma lirica, ma non più nella modalità epica e narrativa di Lavorare stanca. Qui la poesia è essenziale, concentrata, assoluta. È il suo sinthomo nel senso lacaniano: una forma di legame soggettivo con il reale, che tiene insieme ciò che non può essere simbolizzato — il lutto, la mancanza, il godimento.

In questa fase finale della sua vita, Pavese appare disarmato, incapace di trovare ancora riparo nel mito (come nei Dialoghi con Leucò) o nella cultura. Resta solo il corpo a corpo con la mancanza: una scrittura che si fa confessione, ma anche soglia di sparizione del soggetto.

2. Lo sguardo dell’Altro come oggetto a

Il verso iniziale — "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" — è già tutto un programma di svelamento. In esso, la morte non ha volto proprio, ma assume quello dell’amata. Si affaccia così il reale nel luogo dell’Altro: la Cosa (das Ding) si iscrive nello sguardo dell’amore. Non si tratta di un amore consolante, ma dell’incontro traumatico con il godimento che eccede il senso, con l’oggetto a che abita lo sguardo dell’Altro.

In Lacan, lo sguardo è oggetto pulsionale: non restituisce l'immagine rassicurante dell’Io, ma la buca, la inquieta. Gli occhi dell’amata sono allora il punto in cui il soggetto si smarrisce, non perché tradito, ma perché esposto all’eccesso del godimento, al buco del significante.

3. Morte e desiderio: il fallimento dell’amore simbolico

Lacan insegna che l’amore cerca di colmare la mancanza dell’Altro, ma senza riuscirci: è sempre disallineato, sospeso. Qui, l’amore è totalmente attraversato dal fallimento: non resta parola che tenga, solo un volto che coincide con la morte. L’Altro amato si rivela non come garanzia simbolica, ma come luogo della perdita.

La poesia lacanianamente mostra che non c’è Nome-del-Padre che possa rappresentare il lutto. L’amata è reale, assoluta, non mediabile: rappresenta quella parte dell’Altro che non risponde, che uccide. In questo senso, l’amore non è redenzione, ma catastrofe.

4. Godimento e pulsione di morte

Nel testo si avverte una jouissance che non passa più attraverso il desiderio, ma si coagula in una pulsione di morte, in un abbandono alla fine. L’io poetico è incollato all’oggetto a, senza più possibilità di separazione simbolica. Non c’è sublimazione, né trasfigurazione. Solo l’essenziale: l’incontro tra il soggetto e il reale del godimento, che non può essere detto ma solo subito.

5. Scrivere per scomparire: il soggetto come resto

Se in Lavorare stanca il soggetto si collocava nel mondo, nella storia e nel paesaggio, qui si dissolve. La scrittura non è più gesto di fondazione, ma atto terminale. Pavese scrive la poesia come atto ultimo, non tanto per dire qualcosa, quanto per testimoniare il punto in cui la parola fallisce e resta solo l’oggetto del godimento.

In questo senso, Verrà la morte è anche una poesia sul fallimento del simbolico: non c’è elaborazione, non c’è lutto, solo l’apparizione cruda della fine.


Conclusione

"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" è uno dei testi più potenti della letteratura italiana del Novecento proprio perché è anche uno dei più puri esempi dell’incontro tra poesia e reale. In essa Pavese mostra ciò che nella sua opera era sempre stato latente: il desiderio come mancanza, l’amore come impossibilità, il soggetto come resto.

Letta nell’orientamento lacaniano, la poesia rivela la struttura profonda dell’esperienza soggettiva: il volto dell’amore come luogo della perdita, lo sguardo dell’Altro come oggetto a, la scrittura come sinthomo per tenere insieme ciò che altrimenti crolla.

Una poesia che, come il desiderio stesso, non consola. Ma dice — con precisione vertiginosa — l’impossibile da dire.



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