Quando si parla di cura psicoanalitica, molti pensano subito a un percorso per “stare meglio”, “rafforzare l’Io” o “adattarsi alla vita quotidiana”. Lacan, già nel 1958, mette però in guardia da questa visione troppo psicologica: per lui la direzione della cura non si fonda su un manuale tecnico o sul buon senso dell’analista, ma su un’etica precisa.
Vediamo i punti principali, con esempi per capirli meglio.
1. Non si cura l’Io, ma il soggetto dell’inconscio
Per Lacan, l’analisi non serve a rendere l’Io più forte o più razionale. Quello che conta è l’inconscio, con i suoi lapsus, sogni, sintomi.
🔹 Esempio: Una persona va in analisi dicendo: “Vorrei essere più sicuro di me, non avere più ansia quando parlo in pubblico”. Un approccio adattivo lavorerebbe sul rafforzare l’autostima. L’analista lacaniano invece presta attenzione a un lapsus: “Quando devo parlare… mi sento come se stessi tacendo”. Da lì si apre un lavoro sulla sua storia e sul significato che ha per lui il silenzio, magari collegato a un padre che non lo ascoltava. La cura non va verso “fare un bel discorso”, ma verso capire che cosa si gioca per lui nella parola.
2. Il desiderio dell’analista
Lacan dice che la cura è orientata dal desiderio dell’analista. Non vuol dire i suoi gusti personali, ma la sua posizione particolare: non riempire i vuoti, non dare consigli, ma mantenere viva la mancanza che fa parlare il paziente.
🔹 Esempio: Una paziente racconta: “Sono sicura che il mio compagno mi tradisca. Lei cosa ne pensa? Devo lasciarlo?”. Un analista che “risponde” darebbe un consiglio. L’analista lacaniano invece rilancia: “Perché per lei è così importante saperlo da me?”. Così rimette in gioco il desiderio della paziente, senza sostituirsi a lei.
3. L’interpretazione come taglio
L’interpretazione analitica non è una spiegazione lunga (“lei si comporta così perché da bambina…”), ma un taglio che apre uno scarto. È spesso breve, enigmatica, spiazzante.
🔹 Esempio: Un uomo dice: “Mia moglie mi rimprovera che non sono mai a casa, ma io lavoro per la famiglia”. L’analista interviene: “Per chi lavora davvero?”. Questa piccola frase può mettere in crisi la giustificazione abituale e aprire a una domanda più profonda sul suo desiderio.
4. Il transfert: amore e illusione
Il paziente può innamorarsi dell’analista, idealizzarlo o vederlo come un maestro che ha le risposte. Lacan chiama questo transfert e dice che va governato: usato come motore, ma anche smascherato come illusione.
🔹 Esempio: Una paziente esclama: “Solo lei mi capisce!”. L’analista non conferma né alimenta il legame d’amore, ma mostra che ciò che lei sente non riguarda tanto lui come persona, quanto la posizione che l’analisi occupa nel suo inconscio.
5. Il fine: incontrare il proprio desiderio
La cura non termina quando “spariscono i sintomi” o “ci si sente meglio”, ma quando il soggetto arriva a riconoscere e assumere il proprio desiderio, insieme al proprio modo singolare di rapportarsi al sintomo.
🔹 Esempio: Una donna che per anni ha sofferto di attacchi di panico arriva a capire che questi si scatenano sempre quando deve “essere la brava figlia” che accontenta tutti. La fine dell’analisi non è “zero panico”, ma il poter dire: “Io scelgo cosa voglio fare, anche se non sarò la figlia perfetta”. Il sintomo perde forza, perché lei non è più intrappolata nell’ideale.
In sintesi
La direzione della cura, per Lacan, non è una strada dritta verso l’adattamento o la normalità, ma un percorso che porta ciascuno a incontrare la propria verità singolare, il proprio desiderio e il proprio modo di vivere con il sintomo. L’analista non guida con consigli, ma con un ascolto che taglia, rilancia, mette in movimento.
Bibliografia
Lacan J., “La direzione della cura e i principi del suo potere” (1958), in Scritti, Einaudi.
Miller J.-A., Introduzione alla clinica lacaniana, Quodlibet.
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