sabato 15 marzo 2025

Il sintomo e i suoi falsi nomi: dalla nominazione alla soggettivazione


Se il sintomo è ciò che nel soggetto resiste all’ordine simbolico dato—qualcosa che non si lascia del tutto assimilare dalle coordinate del discorso—i suoi falsi nomi sono quei tentativi di addomesticarlo, di ridurlo a un significato già pronto. Il sintomo è una scrittura opaca, che il soggetto porta nel corpo e nel linguaggio; i suoi falsi nomi sono i modi in cui il discorso dominante cerca di tradurlo in qualcosa di leggibile, spesso sottraendogli la sua funzione soggettiva.

Ma perché il sintomo viene sempre nominato in modo falso? Perché non si può dargli un nome una volta per tutte? Il punto è che il sintomo non è semplicemente un disturbo, un deficit o un errore: è un modo con cui il soggetto si tiene nel mondo, un modo di fare legame con l’Altro. La questione non è eliminarlo, ma riconoscere in esso una logica, un possibile uso.


1. Il falso nome come riduzione clinica: dal DSM alla neutralizzazione del soggetto

Nella clinica psichiatrica standard, il sintomo è nominato attraverso categorie diagnostiche: depressione, disturbo ossessivo-compulsivo, ADHD, autismo, schizofrenia… Questi nomi non sono falsi nel senso che siano completamente sbagliati, ma lo diventano quando funzionano come etichette che inchiodano il soggetto, senza lasciare spazio alla sua singolarità.

Ad esempio, se un bambino con difficoltà di apprendimento viene nominato “dislessico”, questa nominazione può aprire a strumenti di supporto, ma può anche chiudere un’altra possibilità: quella di interrogare cosa significa per lui quel blocco nel leggere e nello scrivere. È un problema cognitivo o una forma di rifiuto dell’Altro che gli impone il linguaggio? È un deficit o una modalità sintomatica di resistenza?

Il rischio di questa nominazione clinica è che il sintomo venga trattato come un malfunzionamento da correggere, anziché come un elemento con un senso da decifrare.


2. Il falso nome pedagogico: l’adattamento forzato

Nel campo educativo, il sintomo viene spesso rinominato in funzione dell’integrazione sociale: comportamento problematico, iperattività, difficoltà relazionali, bisogno educativo speciale… Questi nomi sono strumenti operativi, ma possono diventare falsi nomi quando mirano solo ad adattare il soggetto alle regole dell’istituzione, ignorando la sua struttura soggettiva.

Un ragazzo che si isola e rifiuta il contatto può essere classificato come “timido” o “con difficoltà sociali”, ma questo non dice nulla sul perché di questo isolamento. È una difesa contro un’angoscia insostenibile? È una forma di protesta contro un ambiente che non lo riconosce?

Nel lavoro con la disabilità, questo tema è ancora più centrale: nominare un comportamento come “non conforme” può portare a forzare l’adattamento, senza considerare il valore del sintomo per il soggetto stesso.


3. Il falso nome politico: la cattura del sintomo nei discorsi sociali

C’è poi un’altra modalità di falsificazione: quella che trasforma il sintomo in un effetto dell’ordine sociale, senza più riconoscere la parte attiva del soggetto nella sua formazione.

Oggi molte sofferenze vengono lette attraverso griglie sociopolitiche:

La depressione diventa “malattia della società della performance”

L’ansia giovanile diventa “effetto della precarietà”

Il disagio psicologico diventa “trauma dovuto alla violenza strutturale”

Anche qui, non si tratta di negare che ci siano fattori sociali reali. Il problema è quando il sintomo viene letto solo come qualcosa di imposto dall’Altro (la società, il capitalismo, il patriarcato, la scuola, la famiglia…), togliendo al soggetto la possibilità di riconoscere la propria posizione in ciò che gli accade. Se il sintomo è solo un effetto, allora il soggetto diventa una pura vittima, senza nessun margine di lavoro su di sé.

Nel lavoro con gli immigrati, per esempio, il discorso vittimario può essere un falso nome che li incastra in un ruolo passivo, mentre la questione soggettiva del loro sintomo resta in ombra. Un giovane immigrato musulmano che rifiuta la scuola può certo avere difficoltà legate al razzismo o alla discriminazione, ma il suo rifiuto può anche avere una dimensione più interna, legata al modo in cui vive il rapporto con l’autorità, con il sapere, con la trasmissione culturale.


4. Il falso nome dell’autogiustificazione

Infine, il soggetto stesso può darsi dei falsi nomi per evitare di confrontarsi con il proprio sintomo.

“Sono fatto così” → Nome che chiude, senza lasciare spazio alla trasformazione

“È il mio carattere” → Nome che lo naturalizza, come se fosse immutabile

“È colpa dei miei genitori” → Nome che lo colloca interamente nell’Altro

Queste nominazioni funzionano come difese: proteggono il soggetto dall’angoscia di interrogarsi su cosa fare del proprio sintomo.

Verso un nome proprio del sintomo

Se il sintomo ha tanti falsi nomi, esiste un vero nome?

Lacan direbbe che non esiste un nome definitivo, ma esiste la possibilità di costruire un uso del sintomo. Il punto non è eliminarlo, né semplicemente capirlo, ma trovare un modo per fargli posto senza esserne schiacciati.

In educazione e nel sociale, questo significa:

Dare spazio alla parola del soggetto, senza imporgli subito una lettura esterna

Considerare la funzione del sintomo, invece di vederlo solo come un errore da correggere

Permettere che il soggetto trovi un suo modo di nominarsi, senza incasellarlo in categorie chiuse




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