mercoledì 21 maggio 2025

"Dio è inconscio": Ateismo e funzione-Dio nella clinica lacaniana, tra teoria e casi clinici


Abstract

Lacan sostiene che "Dio è inconscio", intendendo che la funzione divina è iscritta nel discorso del soggetto, come garanzia simbolica, legge, o sapere assoluto. Questo articolo esplora come tale funzione si manifesti clinicamente, anche nei soggetti atei, e come l'attraversamento della funzione-Dio sia un momento chiave nella cura analitica. Il testo integra riferimenti teorici, esempi clinici e situazioni educative, offrendo uno sguardo concreto sul modo in cui la psicoanalisi lacaniana affronta la questione dell'ateismo. Viene inoltre approfondita la distinzione tra ateismo soggettivo e ateismo clinico, mostrando le implicazioni etiche di tale distinzione nella pratica psicoanalitica contemporanea.


1. Introduzione

La famosa frase di Lacan “Dio è inconscio” (Lacan, 1974) non va intesa come un'affermazione teologica, ma come l'indicazione che nel discorso dell'inconscio vi è una funzione che funge da garante simbolico, sostegno dell'ordine del senso. Non si tratta tanto della fede religiosa, quanto della funzione che Dio assume nel discorso del soggetto: legge, sapere, amore assoluto, giudizio morale, ecc. Il "Dio" lacaniano è un Nome-del-Padre, un significante che chiude il senso, lo garantisce. Anche l'ateismo è, dunque, un fenomeno clinico: può essere un attraversamento oppure una nuova forma di assolutismo, camuffata da negazione.

Nell'epoca contemporanea, in cui l'Altro simbolico si mostra spesso in crisi, il ritorno di forme religiose fondamentaliste, oppure di nuove forme di religiosità laiche (scienza assoluta, giustizia integrale, amore puro), mostra quanto la funzione-Dio sia resiliente nella soggettività.


2. La funzione-Dio nell'inconscio

Nel Seminario III Lacan introduce la nozione di Nome-del-Padre come significante che introduce la legge nel desiderio (Lacan, 1956). Questo significante struttura l'inconscio e la posizione del soggetto rispetto all'Altro. Quando questo significante è troppo rigido o viene forcluso, emergono le psicosi o forme di assolutismo simbolico.

La funzione-Dio è una delle forme che il Nome-del-Padre può assumere: Dio come Sapere, come Legge, come Amore totale, come Giudice. Essa si rende visibile in vari quadri clinici, e anche nel campo educativo e sociale. L’analisi può produrre un attraversamento di questa funzione, che Lacan descrive come l’assunzione della mancanza nell’Altro (Lacan, 1972-73).

Nel Seminario XX, Lacan distingue il godimento fallico, ancorato al senso, da un godimento che sfugge alla funzione del Nome-del-Padre. In questo senso, l'ateismo clinico non consiste semplicemente nel rifiuto di Dio, ma nel collocarsi in un discorso che non necessita più di un garante assoluto del senso, accettando l'assenza di garanzia nell'Altro.


3. Casi clinici: la funzione-Dio in atto

3.1 M.: il Dio-sapere assoluto

M., 28 anni, ingegnere ateo, si presenta per ansia e vuoto esistenziale. Nel suo discorso appare un attaccamento totalizzante al sapere scientifico, che considera l'unica fonte di verità. Ogni errore lo paralizza, ogni incertezza lo disorienta. Il suo "Dio" è un Altro che sa tutto, infallibile, che esige prestazione e controllo. La clinica lavora sulla decostruzione di questa idealizzazione del sapere: attraverso il fallimento del sapere assoluto emerge la possibilità di desiderare senza garanzie.

Durante il percorso, M. sogna una macchina perfetta che però si inceppa a causa di un filo invisibile: quel filo è il suo desiderio, escluso dal discorso ingegneristico. L’analisi lavora sul riconoscimento di questa presenza perturbante e sul suo valore simbolico.

3.2 A.: il Dio-amore totalizzante

A. è madre di un bambino con disabilità. Vive il suo ruolo come missione assoluta: deve amare senza limiti, senza errori. La colpa la travolge se prova stanchezza o ambivalenza. Il suo "Dio" è un Altro che la chiama a essere madre perfetta. L’analisi, qui, lavora sulla separazione simbolica: A. può accettare che l'amore includa mancanza, desiderio, frustrazione. Non è Dio, è soggetto diviso.

In un sogno ricorrente, A. si vede vestita da infermiera in una chiesa vuota. Nessuno arriva, e lei si dispera. Questo sogno mostra il legame tra servizio e sacralità, ma anche la sua solitudine. L’interpretazione rompe il circuito del dovere e apre la possibilità di un desiderio proprio.

3.3 G.: il Dio-giudice morale

G. è attivista politico con una visione etica inflessibile. Ogni deviazione dalla "giustizia" va punita. Il suo Altro è un Dio giudicante, che comanda una legge senza ambiguità. La clinica rivela il godimento nell'indignazione, nel giudicare. L’analisi permette di mettere in discussione il rapporto al giudizio, e apre a un'eticità più umana, non totalitaria.

Un episodio chiave accade quando G. confessa di provare sollievo quando un collega viene escluso da un progetto: è la prima volta che ammette il suo godimento. Da quel momento, il discorso cambia: comincia a interrogare la sua posizione soggettiva, piuttosto che sostenere un Altro infallibile.


4. Attraversamento della funzione-Dio

4.1 La mancanza nell’Altro

Lacan, nel Seminario XX, afferma che l’Altro “non è tutto”. Non c'è garanzia finale, sapere assoluto, legge perfetta. L’attraversamento della funzione-Dio è l'assunzione di questa mancanza: non esiste un significante che chiuda il senso del mondo. Questo permette l'emergere del soggetto del desiderio, non più garantito da un Altro onnipotente.

4.2 Il sinthomo: una nuova ancoraggio

Nel Seminario XXIII, Lacan introduce il concetto di sinthome, come nodo singolare tra Reale, Simbolico e Immaginario. Dopo l’attraversamento della funzione-Dio, il soggetto può scrivere la propria maniera di tenersi nel mondo, senza ricorrere a garanzie totali. M. si dedica a un progetto creativo che integra sapere e desiderio. A. riorganizza la propria maternità attorno a un desiderio vivibile. G. apre un nuovo spazio etico fondato sull'ascolto.


5. Educazione e funzione-Dio: una breve nota

In ambito educativo, la funzione-Dio si manifesta come idealizzazione dell'educatore, o come dovere assoluto verso l'Altro fragile. In un gruppo educativo con soggetti disabili, si è osservata la tendenza dell'équipe a farsi garante assoluto della coerenza simbolica del gruppo. Solo il lavoro sul limite e sull'assunzione del desiderio personale ha permesso la nascita di un luogo simbolico ospitale, non totalitario.

Al contempo, l’educatore può proiettare sull’Altro (l'utente) una funzione-Dio negativa: onnipotente nella sua sofferenza, impossibile da soddisfare. In questo senso, l’attraversamento passa anche attraverso l’accettazione della mancanza nell’Altro disabile, della sua parziale indifferenza al nostro investimento.


Conclusione

"Dio è inconscio" significa che Dio, o meglio la sua funzione, è nel discorso del soggetto. L’ateismo clinico è il processo attraverso cui il soggetto attraversa questa funzione, accetta la mancanza, rinuncia al sapere assoluto e scrive il proprio sinthome. Non è una negazione, è un riposizionamento etico e simbolico. Il compito dell'analisi non è distruggere Dio, ma mostrare la sua funzione simbolica e aprire il soggetto alla mancanza costitutiva, condizione per un'etica del desiderio.


Bibliografia

  • Lacan, J. (1956). Il Seminario III: Le psicosi. Torino: Einaudi.
  • Lacan, J. (1964). Il Seminario XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi.
  • Lacan, J. (1972-73). Il Seminario XX: Ancora. Torino: Einaudi.
  • Lacan, J. (1975-76). Il Seminario XXIII: Il sinthomo. Roma: Astrolabio.
  • Lacan, J. (1974). Conferenza a Roma: "Discorso agli italiani" (parafrasi).


L'odio nel transfert e nel controtransfert: una lettura lacaniana, con un confronto con Klein e Winnicott


L’odio, come dimensione soggettiva e relazionale, ha una presenza centrale nella clinica psicoanalitica, soprattutto quando si manifesta nel transfert e nel controtransfert. Nella prospettiva lacaniana, questa affettività primaria assume una valenza strutturale e non meramente accidentale, come invece potrebbe apparire in approcci più adattivi o evolutivi. Non si tratta semplicemente di un ostacolo alla cura, bensì di un momento rivelatore della struttura del soggetto e del suo rapporto con l’Altro.


L'odio nel transfert

Jacques Lacan ha affrontato la questione dell'odio all'interno della relazione transferale, in particolare nella lezione del 20 aprile 1960 del Seminario L’etica della psicoanalisi, dove, rifacendosi ad Aristotele, pone l’odio (misos) come l’affetto che mira all’essere dell’altro, mentre l’amore ne mira il bene. L’odio, in quanto tale, non è secondario rispetto all’amore: è della stessa stoffa. Nella relazione analitica, il soggetto può manifestare un odio tenace e violento verso l’analista, che non va inteso in senso personale ma come effetto del posto simbolico che l’analista occupa, quello di causa del desiderio e luogo dell’Altro.

L’analista, infatti, in quanto sostituto del soggetto supposto sapere (sujet supposé savoir), è chiamato a sostenere proiezioni e investimenti che mettono in gioco nuclei profondi della pulsione, del fantasma e della storia soggettiva. L’odio può emergere quando l’analista tocca o smaschera il godimento inconscio legato alla sofferenza, o quando il soggetto percepisce un’opacità nel suo desiderio. È spesso nel momento in cui l’analista si sottrae, non soddisfa la domanda d’amore, che il soggetto risponde con aggressività e odio.


Il desiderio dell’analista e la posizione etica

Nel Seminario XI (I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi), Lacan insiste sul concetto di "desiderio dell’analista" come ciò che orienta la cura. Questo desiderio non è desiderio personale, ma desiderio puro, spogliato, che non mira a soddisfare, né a rassicurare. È un desiderio che accetta l’odio del paziente, che lo attraversa, che ne sostiene l’elaborazione. L’analista è chiamato a sostenere la posizione di oggetto a, oggetto causa del desiderio, e quindi a tollerare di essere ridotto a cosa, a oggetto di odio, a rifiuto, senza retrocedere.

Il desiderio dell’analista implica una funzione di “buca” nel sapere: si tratta di non voler sapere tutto, di non pretendere di colmare l’Altro, ma di sostenere il vuoto strutturale che abita il soggetto. È proprio questa posizione che permette al transfert di evolvere e di aprirsi al movimento interpretativo e all’atto analitico. Come scrive Lacan nel Seminario XI, “Il desiderio dell'analista non è puro desiderio di guarire. È desiderio che ha incontrato la sua propria castrazione”.


Controtransfert e limite della reattività dell’analista

L’odio non appartiene solo al paziente. Come sottolinea Lacan nel Seminario VIII (Il transfert), l’analista non è immune dalle passioni. Tuttavia, per Lacan, è proprio l’analista che deve lavorare perché le sue passioni non interferiscano. Il concetto di controtransfert, sviluppato in area post-freudiana (es. Heimann, Racker), è ridimensionato da Lacan: l’analista deve rendere la propria posizione quanto più impersonale possibile, non perché si annulla, ma perché la sua soggettività deve diventare funzione.

L’odio dell’analista, quindi, può emergere nella pratica, soprattutto in ambito istituzionale dove i fenomeni di transfert negativo sono amplificati da dinamiche di gruppo, gerarchia e potere. In questi casi, mantenere il desiderio come causa e non come risposta reattiva è ancora più difficile. Il rischio è quello del godimento dell’analista, che si difende attraverso l’identificazione con un sapere o con un ruolo, invece di lasciarsi lavorare dal transfert.


Esempi dalla pratica istituzionale

In contesti educativi o terapeutici con soggetti psicotici o con disabilità, si osserva spesso un transfert negativo massiccio: rifiuto dell’educatore o dell’operatore, insulti, disorganizzazione comportamentale. Un esempio è il caso di un giovane con psicosi che durante il gruppo occupazionale, ad ogni proposta dell’operatore, risponde con l’insulto più feroce e minaccioso. L’operatore, se non è sostenuto da una supervisione e da un’elaborazione simbolica della sua funzione, rischia di rispondere in modo simmetrico: disprezzo, ironia, punizione. È qui che si gioca la possibilità di una funzione analitica o almeno simbolizzante: accettare di essere oggetto dell’odio, e non volerlo colmare con l’amore o con la pedagogia del bene.


Confronto con Melanie Klein e Donald Winnicott

Melanie Klein ha tematizzato a fondo l’aggressività primaria e l’odio nell’ambito della relazione oggettuale. Nella posizione schizo-paranoide, il bambino vive l’oggetto come persecutore, e riversa su di esso odio e distruttività. Solo attraverso l’elaborazione della posizione depressiva è possibile riconoscere l’oggetto buono e cattivo come unificato, e quindi riparare. Da questo punto di vista, l’odio nel transfert è un ritorno di quelle angosce originarie, che l’analista deve contenere e trasformare.

Winnicott, invece, si concentra sul concetto di odio dell’analista, con grande onestà clinica. Nel saggio L’odio nella contropartita terapeutica (1949), afferma che l’analista deve riconoscere e tollerare il proprio odio, soprattutto nel lavoro con pazienti gravi. L’odio che l’analista prova non è necessariamente patologico, ma espressione della realtà della situazione e della frustrazione. La differenza, per Winnicott, sta nel fatto che l’analista non agisce il suo odio, ma lo riconosce, lo sopporta e lo utilizza.

Rispetto a Lacan, sia Klein che Winnicott tendono a concepire l’odio come una fase, un contenuto da trasformare o contenere. Lacan, invece, pone l’odio come strutturale, come parte del desiderio stesso: “l’amore è sempre ricambiato dall’odio”, diceva, indicando che non si dà soggettivazione senza attraversamento del negativo.


Conclusione

Affrontare l’odio nel transfert e nel controtransfert è un passaggio necessario in ogni lavoro clinico e istituzionale che voglia avere un effetto di soggettivazione. Nella prospettiva lacaniana, l’odio non va risolto né rimosso, ma attraversato e letto come segno del reale in gioco. Il desiderio dell’analista, sostenuto dalla propria castrazione e non dal sapere, è ciò che consente di non rispondere alla provocazione, ma di mantenerne aperto il senso.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1959-60). Seminario VII. L’etica della psicoanalisi. Torino: Einaudi, 2008.
  • Lacan, J. (1964). Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi, 2003.
  • Lacan, J. (1960-61). Seminario VIII. Il transfert. Torino: Einaudi, 2021.
  • Klein, M. (1946). Note su alcuni meccanismi schizoidi, in Scritti 1921-1958. Firenze: Martinelli.
  • Klein, M. (1940). Invidia e gratitudine, in Scritti 1921-1958. Firenze: Martinelli.
  • Winnicott, D.W. (1949). L’odio nella contropartita terapeutica, in Sviluppo affettivo e ambiente. Roma: Armando, 1975.
  • Roussillon, R. (1991). Il transfert negativo. Roma: Borla.
  • Mannoni, M. (1969). L’enfant arriéré et la psychanalyse. Paris: Seuil.
  • Recalcati, M. (2010). Il transfert. Milano: Cortina.


martedì 20 maggio 2025

Fiabe cinesi come miti di soggettivazione: la ballata di Mulan

 
Mulan

Le fiabe tradizionali cinesi rappresentano un archivio simbolico nel quale si intrecciano elementi del pensiero confuciano, taoista e buddhista. A differenza delle narrazioni occidentali, dove la soggettivazione spesso passa attraverso la trasgressione della Legge e il confronto con un Altro mancante, in molte fiabe cinesi l’emergere del soggetto si realizza in un processo di armonizzazione etica e cosmica. La figura di Mulan, protagonista di una delle ballate più famose della tradizione cinese, costituisce un esempio paradigmatico di questa forma di soggettivazione.


1. La ballata di Mulan: trama essenziale

Nella "Ballata di Mulan" (Hua Mulan), risalente con ogni probabilità al periodo delle dinastie Wei del Nord (IV-VI secolo), la protagonista si traveste da uomo per prendere il posto del padre malato nell’esercito imperiale. Per dodici anni combatte valorosamente, rifiuta ogni ricompensa alla fine della guerra e torna a casa per riprendere la sua vita di figlia, rivelando solo allora la sua identità femminile.


2. L’atto etico di Mulan

Mulan compie un gesto che, nella logica confuciana, è allo stesso tempo una trasgressione e una massima espressione della pietà filiale (xiao). L’assunzione del posto del padre nell’esercito è un atto che rompe l’ordine dei ruoli sociali (una donna non può diventare guerriera), ma lo fa in nome dell’ordine morale superiore. In termini lacaniani, potremmo interpretare questo gesto come un atto soggettivante in senso pieno: Mulan non cede sul suo desiderio (ne cede pas sur son désir), che non è desiderio dell’Altro, ma adesione a una verità interiore, che trascende l’identità di genere e la funzione simbolica assegnata.


3. Travestimento e attraversamento dell’Immaginario

Il travestimento maschile non è un semplice inganno, ma un dispositivo simbolico. Mulan non assume l’identità maschile per desiderio mimetico o per ambizione personale, ma per assumere una funzione che le è eticamente necessaria. In questo senso, l’identificazione non è piena: ella resta soggetto nel travestimento, non si dissolve nell’identità maschile. Si può leggere questa operazione come una sospensione dell’Immaginario e una riconfigurazione del Simbolico, dove la posizione soggettiva è mobile, non fissata da un Nome-del-Padre ma orientata da una verità soggettiva.


4. Il ritorno: la soggettivazione senza trionfo

A differenza degli eroi occidentali, Mulan non cerca gloria né riconoscimento. Dopo anni di guerra, rifiuta onori e titoli e torna semplicemente alla sua vita. Il suo atto non è narrato come una forma di emancipazione individualistica o di affermazione narcisistica. È, al contrario, una soggettivazione in sottrazione: il soggetto si realizza attraverso il silenzio, la continuità, la fedeltà alla funzione assunta.

In termini lacaniani, non vi è qui un accesso all’oggetto a, né una simbolizzazione della mancanza dell’Altro, quanto piuttosto una soggettivazione che si dà al di fuori della dialettica edipica. L’Altro nella fiaba cinese è spesso impersonale: è la Legge morale, l’ordine naturale, il Tao. Il soggetto non deve confrontarsi con la castrazione del Padre, ma con l’armonia del mondo e con la responsabilità etica.


5. Confronto con le figure occidentali

Mulan può essere paragonata a figure come Antigone, Giovanna d’Arco o persino il Principe Ivan delle fiabe russe. Tuttavia, vi sono profonde differenze:

  • Antigone afferma la legge non scritta degli dèi contro quella dello Stato. Il suo desiderio è assoluto, e la conduce alla morte. Mulan, invece, agisce per una legge etica senza sfidare apertamente l’ordine imperiale. Non muore, ma si reintegra nel quotidiano.
  • Giovanna d’Arco è spinta da un comando divino. La sua soggettività si costituisce nella voce dell’Altro, che è però un Altro cristiano, personale. Mulan non sente voci: ascolta il proprio senso etico interno, più vicino al vuoto taoista che al Dio cristiano.
  • Il Principe Ivan compie un viaggio iniziatico, affronta prove simboliche e alla fine conquista un oggetto del desiderio (la principessa, il fuoco, l’uccello). La soggettivazione di Ivan è tragica e desiderante. Mulan, invece, attraversa la guerra senza cercare un oggetto, e ritorna con discrezione. La sua soggettività si definisce per l’assenza di appropriazione.


6. Conclusione

La figura di Mulan, letta psicoanaliticamente, ci mostra un modello alternativo di soggettivazione. Non un soggetto tragico, segnato dalla mancanza, ma un soggetto etico, capace di assumere una funzione simbolica senza identificarsi con essa. In questo senso, le fiabe cinesi offrono uno spazio narrativo in cui il soggetto non nasce dalla colpa o dalla trasgressione, ma dalla continuità tra sé e il mondo.

Bibliografia essenziale

  • Birrell, A. (1993). Chinese Mythology: An Introduction. Johns Hopkins University Press.
  • Idema, W. (2008). Mulan: Five Versions of a Classic Chinese Legend. Hackett Publishing.
  • Cheng, F. (2003). Vuoto e Pieno. Il linguaggio pittorico cinese. Milano: SE.
  • Lacan, J. (1978). Il Seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi.
  • Lacan, J. (2007). Il Seminario. Libro VII: L’etica della psicoanalisi. Torino: Einaudi.
  • Bettelheim, B. (1976). Il mondo incantato. Milano: Feltrinelli.


lunedì 19 maggio 2025

Logica senza soggetto e mondo post-umano

Logica senza soggetto


Introduzione

La logica coordinativa, intesa come forma di razionalità volta all’armonizzazione e all’efficienza sistemica, rappresenta oggi il paradigma dominante delle istituzioni globali. Essa si configura come risposta alla crisi delle grandi narrazioni, alla decostruzione della soggettività e alla liquefazione del legame sociale. Ma cosa resta del soggetto nella società della trasparenza algoritmica e dell’ottimizzazione digitale? E quale destino per l’Occidente che ha fatto del soggetto il suo fulcro simbolico?

1. La logica coordinativa: neutralizzazione del soggetto

Come hanno anticipato Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo (1947), la razionalità occidentale, se scissa dalla dialettica, regredisce in nuova mitologia. La logica coordinativa, nella sua forma attuale, incarna questa regressione: non fonda più soggetti, ma procedure; non interroga più l’origine, ma regola il funzionamento. La sua essenza è post-simbolica.

Byung-Chul Han, ne La società della trasparenza (2012) e Psicopolitica (2014), sottolinea come il potere si eserciti oggi non attraverso la repressione, ma tramite la seduzione dell’auto-ottimizzazione. Il soggetto si trasforma in un “progetto”, governato da algoritmi e performance, e il confine tra libertà e controllo diventa opaco. La logica coordinativa è così l’architettura del nuovo biopotere: un potere che non reprime, ma induce.

2. Cristianesimo e soggettività tragica

La soggettività occidentale ha avuto nel cristianesimo un momento costitutivo: la figura del soggetto peccatore, responsabile, redento e colpevole al tempo stesso, ha fornito per secoli la base etico-politica della modernità. Come ha mostrato Lacan nei suoi Écrits (1966), il soggetto è effetto del linguaggio, prodotto di una scissione simbolica che inaugura la colpa, il desiderio, la domanda.

Nel mondo post-umano, questa figura cede il passo a una soggettività debole, funzionale, intercambiabile. Il gesto tragico (Antigone, Abramo) lascia il posto alla compliance. È la fine del soggetto etico come polo di tensione tra legge e desiderio, come nodo tragico della polis.

3. Etiche orientali e armonia sistemica

Le etiche dell’armonia orientali, come nel confucianesimo o nel taoismo, promuovono una soggettività non centrata sull’opposizione, ma sulla coesistenza funzionale. Come ha notato Peter Sloterdijk in Devi cambiare la tua vita (2009), si tratta di etiche esercitative, non traumatiche. La soggettività nasce dall’adesione a ruoli predefiniti, dall’equilibrio tra individuo e ordine sociale, non da un gesto di rottura.

Questa logica è oggi apprezzata a livello globale proprio per la sua compatibilità con l’efficienza sistemica. Ma, al prezzo dell’eliminazione dell’inizio, della trasgressione, della politica come fondazione.

4. Populismo e autoritarismo: il ritorno del rimosso

Nel vuoto simbolico lasciato dalla logica coordinativa, riemergono forme di soggettività degradate: i populismi autoritari, le derive sovraniste, i leader carismatici che promettono un ritorno all’ordine attraverso il culto della forza e dell’identità.

Il populismo – come ha sottolineato Zizek in Problemi in Paradiso (2014) – è una risposta patologica alla desoggettivazione neoliberale: non è un ritorno del soggetto, ma della sua caricatura. L’autoritarismo è il sintomo di una crisi della rappresentanza e del desiderio. È il grido che chiede un nuovo significante padrone in un mondo che ha abolito ogni verticalità.

5. Tecnica, digitale e governo degli algoritmi

La tecnica contemporanea ha esasperato la logica coordinativa, facendone non solo un paradigma politico, ma anche una struttura antropologica. Il digitale non si limita a connettere: prevede, seleziona, filtra. Come ha scritto Deleuze nel Post-scriptum sulle società di controllo (1990), siamo passati dalle società disciplinari a quelle del controllo, dove il comando è continuo e distribuito.

L’algoritmo non punisce, ma ottimizza. Non reprime, ma orienta il desiderio. Le piattaforme digitali anticipano le scelte, modellano le preferenze, definiscono la realtà. La libertà è riformulata come compatibilità, e la verità come performance. È la realizzazione della “seconda natura” di cui parlava Adorno, ma in versione cibernetica.

In questo contesto, figure come Elon Musk e Donald Trump rappresentano due esiti divergenti ma complementari: Musk incarna l’utopia tecnocratica della disintermediazione totale e della fuga nello spazio, mentre Trump rappresenta l’arcaico che ritorna, l’identità pura, la scorciatoia simbolica. Entrambi operano nel vuoto lasciato dalla scomparsa del soggetto etico-politico.

Conclusione: per una nuova clinica del soggetto

Il mondo post-umano, coordinato e ottimizzato, sembra aver superato il soggetto. Ma questo superamento non è neutro: comporta la perdita del gesto simbolico, dell’inizio, della politica.

Una clinica e una critica della logica coordinativa devono allora riaprire lo spazio del tragico, del conflitto, della fondazione. Non per nostalgia, ma per necessità. Perché senza soggetto, nessun mondo è possibile.

Bibliografia essenziale

  • Adorno, T.W., Horkheimer, M. (1947). Dialettica dell’illuminismo. Einaudi.
  • Arendt, H. (1958). Vita activa. La condizione umana. Bompiani.
  • Byung-Chul Han (2010–2014). La società della stanchezza; La società della trasparenza; Psicopolitica. Nottetempo.
  • Deleuze, G. (1990). Post-scriptum sulle società di controllo. Pourparler. Quodlibet.
  • Kantzas, P. (2011–2025). La Polis senza Creonte e senza Antigone. Lezioni Fiorentine. UNIFI ScienPo.
  • Lacan, J. (1966). Écrits. Seuil.
  • Sloterdijk, P. (2009). Devi cambiare la tua vita. Meltemi.
  • Spengler, O. (1918–1922). Il tramonto dell’Occidente. Longanesi.
  • Zizek, S. (2014). Problemi in Paradiso. Il comunismo dopo la fine della storia. Ponte alle Grazie.


Clinica e Critica della Ragione Coordinativa: Soggettività performativa e Crisi del Legame simbolico

Logica Coordinativa


1. Introduzione

La logica coordinativa rappresenta una delle configurazioni dominanti della razionalità contemporanea. Essa si fonda su una modalità di pensiero e di organizzazione sociale che mira a mettere in relazione elementi molteplici senza conflitto, senza gerarchia esplicita, attraverso il principio della connessione funzionale. Tale logica, apparentemente neutra e inclusiva, produce in realtà forme insidiose di desoggettivazione, sottraendo al soggetto la sua possibilità di insistenza, di rottura, di domanda etica radicale. Questa logica attraversa tanto il campo politico quanto quello clinico, sociale e persino educativo, e si manifesta nella governance, nella psicologia adattiva, nella pedagogia prestazionale.


2. Razionalità coordinativa e funzionamento sistemico

Come ha osservato Habermas, la razionalità moderna si è differenziata in due registri: la razionalità strumentale del sistema e la razionalità comunicativa del mondo della vita. Tuttavia, la proposta habermasiana di salvare la sfera comunicativa tramite un'etica del discorso sembra oggi insufficientemente radicale. La logica coordinativa assorbe anche il discorso etico in un regime di gestione, dove il conflitto viene convertito in procedura, e la domanda viene trasformata in problema da risolvere.

In questo senso, si può affermare con Adorno che "non c’è vita vera nella vita falsa" (Minima Moralia, 1951). La logica coordinativa neutralizza la negatività, l’attrito che costituisce la materia della soggettività e dell’etica. Essa si presenta come la forma postmoderna della razionalità funzionalista, in cui tutto si connette, ma nulla resiste.


3. Clinica del soggetto e razionalità coordinativa

Nel campo clinico, tale logica si manifesta nel passaggio dalla psicoanalisi alla psicoterapia evidence-based, dalla domanda all’adattamento, dal sintomo come messaggio al sintomo come disfunzione. La clinica della ragione coordinativa è quella che non vuole sapere del soggetto, ma solo dei suoi comportamenti, dei suoi pattern, dei suoi deficit. Come sottolinea Lacan, la psicoanalisi non è una psicologia dell’Io, ma una pratica del soggetto diviso, strutturato dal linguaggio, irriducibile alla funzione adattiva (Écrits, 1966).

L’inconscio, in questa logica, diventa rumore, il sintomo una distorsione, e la cura una normalizzazione. In tale orizzonte, la clinica si trasforma in governance dell’individuo, in ingegneria della felicità o della resilienza. Come ricorda Byung-Chul Han (La società della stanchezza, 2010), l’individuo contemporaneo si sente libero proprio mentre è completamente inserito in un regime prestazionale che lo rende responsabile del proprio fallimento.


4. Etiche orientali e razionalità funzionale

Il confronto con le etiche orientali può sembrare, a prima vista, offrire un’alternativa alla logica occidentale. Tuttavia, se osservate nella loro ricezione contemporanea, queste etiche – fondate sull’armonia, sull’adattamento all’ordine naturale, sulla dissoluzione dell’ego – si prestano spesso a una riattivazione funzionalista. Come sottolinea Sloterdijk, il buddhismo globale oggi agisce più come tecnica di ottimizzazione dell'umore che come rottura dell’ordine costituito (Devi cambiare la tua vita, 2009).

In molti casi, tali etiche diventano supporti spirituali al neoliberismo, producendo una soggettività flessibile, disponibile, non conflittuale. L’armonia viene così dislocata dalla sfera etico-politica a quella della performance adattiva, e il soggetto si ritrae in una interiorità disattivata, anestetizzata.


5. Politica e desoggettivazione

La logica coordinativa si esprime politicamente nella forma della governance, nella sostituzione della decisione con la mediazione procedurale, del conflitto con il consenso. Sloterdijk ha messo in evidenza come la politica tardo-moderna tenda a trasformarsi in "cura del mondo", perdendo il legame con la passione del politico e con il rischio del dissenso radicale.

Zizek, in questo contesto, denuncia il modo in cui la democrazia liberale sopravvive solo come rituale, svuotata di contenuto sovversivo: "il soggetto politico autentico emerge nel momento in cui l’ordine simbolico vacilla" (Meno di niente, 2012). La logica coordinativa, al contrario, tende a suturare ogni rottura, convertendo l’evento in procedura, la rivolta in riforma, la soggettivazione in gestione.


6. Genealogia della soggettività occidentale

Come ha argomentato Kantzas (La Polis senza Creonte e senza Antigone, 2011–2025), il soggetto occidentale nasce dalla frattura tra legge e desiderio, tra ordine politico e istanza etica. Questa frattura, che la tragedia greca mette in scena attraverso Antigone e Creonte, è l’archetipo del soggetto come scissione. Anche la tradizione giudaico-cristiana, con Abramo, i profeti, e infine il Cristo, pone il soggetto davanti a un Altro che non coincide con l’ordine sociale. La modernità secolarizza questa frattura nella figura del soggetto autonomo, ma diviso: tra ragione e volontà, tra legge morale e felicità.

La logica coordinativa tenta di suturare questa frattura, proponendo un soggetto armonico, prestazionale, pienamente integrato nei dispositivi. Kantzas osserva che la "polis postmoderna" vuole il corpo di Antigone e la ragione di Creonte senza la loro tragedia, producendo così un soggetto impolitico, senza desiderio e senza legge.


7. Conclusione: Critica della ragione coordinativa

La ragione coordinativa, lungi dall’essere una neutralizzazione pacifica del conflitto, si rivela come una strategia per l’eliminazione della soggettività. Essa funziona come una desublimazione repressiva: promette liberazione, ma produce conformismo; promette dialogo, ma riduce il dissenso; promette cura, ma produce normalizzazione.

Contro questa logica, è urgente rilanciare una clinica e una politica del soggetto. Una clinica che non si accontenti di curare, ma che sappia sostenere la verità del sintomo. Una politica che non cerchi il consenso, ma la possibilità di un nuovo inizio. Come afferma Adorno: “L’unica etica che resta è quella che si fa carico dell’impossibilità dell’etica” (Dialettica negativa, 1966).


Bibliografia

  • Adorno, T.W., Minima Moralia, 1951
  • Adorno, T.W., Dialettica negativa, 1966
  • Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, 2010
  • Habermas, J., Teoria dell’agire comunicativo, 1981
  • Kantzas, P., La Polis senza Creonte e senza Antigone. Lezioni Fiorentine, UNIFI ScienPo, 2011–2025
  • Kierkegaard, S., Timore e tremore, 1843
  • Lacan, J., Écrits, 1966
  • Sloterdijk, P., Devi cambiare la tua vita, 2009
  • Zizek, S., Meno di niente, 2012


domenica 18 maggio 2025

Il Dio straniero: Dioniso, il pensiero tragico e l’eredità dell’Occidente

Dioniso


1. Pensiero tragico e dialettica apollineo-dionisiaca

Il pensiero tragico, secondo Nietzsche, nasce dalla tensione dinamica tra due princìpi fondamentali della cultura greca: l’apollineo e il dionisiaco. L’apollineo rappresenta la chiarezza, la forma, l’ordine e la misura, mentre il dionisiaco incarna il caos, l’ebbrezza, la fusione con l’altro e la perdita di sé nel flusso della natura. Nietzsche afferma che “la tragedia è l’arte che nasce dalla lotta e dall’unità di questi due spiriti” (Nietzsche, La nascita della tragedia, §2). Questa dialettica consente di rappresentare la realtà umana non come semplice razionalità, ma come uno scontro continuo tra ragione e impulso, forma e disfacimento.


2. Dioniso: il dio straniero e la forza del sovvertimento

Dioniso si presenta come un dio straniero, un elemento esterno che penetra nel cuore della polis greca e ne mette in crisi l’ordine stabilito. Egli è “il dio che unisce e dissolve, che fa esplodere la realtà nelle sue contraddizioni più profonde” (Vernant, 1972). Nel dramma di Euripide, Le Baccanti, Dioniso manifesta questa duplicità: da una parte è un dio di festa e liberazione, dall’altra un agente di follia e distruzione. Penteo, re di Tebe, rappresenta il potere apollineo, che si oppone alla rivelazione dionisiaca. La tragedia culmina nella morte di Penteo, sbranato dalle baccanti in preda al delirio, simbolo dell’irruzione violenta del dionisiaco nella realtà umana.


3. Lettura psicoanalitica lacaniana: il reale dionisiaco e la divisione del soggetto

Dal punto di vista della psicoanalisi lacaniana, Dioniso può essere interpretato come una manifestazione del “reale” — quel registro dell’esperienza che sfugge alla simbolizzazione e al controllo del linguaggio. Lacan sottolinea come il soggetto sia strutturato attorno a un’assenza originaria, una scissione interna tra il desiderio e la legge simbolica che lo limita. La tragedia diventa allora una rappresentazione della lotta interna del soggetto. Antigone, ad esempio, si oppone alla legge del re, incarnando il desiderio che sfida la norma: “La legge non ha il potere di sottomettere ciò che è giusto nel desiderio” (Lacan, Seminario VII, 1959). La tragedia mette in scena questa impossibilità di risolvere il conflitto tra desiderio e legge, tra individuo e società.

Edipo, a sua volta, simboleggia la ricerca disperata di un senso che si rivela impossibile da raggiungere. Lacan commenta che Edipo scopre “la mancanza nel sapere,” la realtà che il soggetto è sempre segnato da un vuoto che non potrà mai colmare completamente. La tragedia esprime così la condizione umana di soggettività divisa, esposta al dolore e alla contraddizione.


4. Il dionisiaco come eccesso e il ruolo educativo della tragedia

Il dionisiaco rappresenta l’eccesso, la forza che rompe i confini della misura e mette in crisi ogni ordine stabilito. La tragedia, come scrive Jean-Pierre Vernant, “insegna all’uomo a convivere con il caos e la perdita, mostrando la fragilità della condizione umana” (Vernant, 1972). L’esperienza tragica non è solo dolore, ma anche un momento di catarsi e consapevolezza, in cui l’uomo accetta la propria finitezza e la complessità dell’esistenza.

La tragedia greca esercita così un ruolo fondamentale nel permettere alla cultura occidentale di confrontarsi con l’ignoto e il perturbante. Dioniso incarna questa forza destabilizzante, ma anche rigenerativa: la sua presenza richiama l’uomo a non ridursi a mera razionalità o controllo, ma a riconoscere il proprio lato oscuro e irrazionale.


5. L’eredità del pensiero tragico nella cultura occidentale

L’influenza di Dioniso e del pensiero tragico nella cultura occidentale si manifesta in molteplici ambiti, dalla filosofia all’arte, dalla letteratura alla psicoanalisi. Nietzsche stesso sottolinea che la tragedia è “la suprema arte della vita, che afferma la vita nonostante il dolore e la sofferenza” (Nietzsche, La nascita della tragedia, §24).

Nel mondo moderno, dominato da razionalismo e controllo, la forza dionisiaca rimane un richiamo fondamentale alla complessità dell’umano. Lacan afferma che “la psicoanalisi è il tentativo di non cancellare il reale dionisiaco, ma di farlo emergere per riconoscere la verità del soggetto” (L’etica della psicoanalisi). La cultura occidentale, quindi, continua a portare con sé l’eredità del tragico, ossia la capacità di confrontarsi con la divisione, l’ambiguità e l’impossibilità di una totalità definitiva.


6. Conclusioni: il valore eterno del tragico e del dio straniero

Dioniso e il pensiero tragico rappresentano un’apertura fondamentale al mistero e all’inafferrabile dell’esperienza umana. Essi insegnano a vivere con il limite, con il conflitto e con la perdita senza negare la possibilità della bellezza e della trasformazione. In un’epoca in cui la cultura tende spesso a semplificare e controllare, il richiamo dionisiaco resta un monito a non dimenticare la nostra natura complessa, fatta di luce e ombra, ordine e caos.


Bibliografia

  • Nietzsche, F. (1872). La nascita della tragedia.
  • Lacan, J. (1959-1960). Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi.
  • Kantzas P. (2011-2025), La Polis senza Creonte e senza Antigone. UNIFI ScienPo, Firenze.
  • Euripide. Le Baccanti.
  • Sofocle. Antigone, Edipo Re.
  • Vernant, J.-P. (1972). Mito e tragedia nell’antica Grecia. Einaudi.
  • Detienne, M. (1997). Dioniso e la violenza. Laterza.


Fuxi e Nüwa: sinthomo collettivo e mito cinese della soggettivazione tra reale e ordine simbolico

Fuxi e Nuwa


1. Introduzione

Il mito di Fuxi e Nüwa occupa un posto centrale nella mitologia cinese, non solo come narrazione delle origini del mondo umano e dell’ordine cosmico, ma anche come espressione profonda di una forma culturale di soggettivazione. A differenza del mito occidentale del padre edipico e della Legge come interdizione del godimento (Nome-del-Padre), la mitologia cinese fonda l’ordine attraverso atti di riparazione, equilibrio e armonizzazione. Questo contributo propone una lettura del mito alla luce dell’ultimo insegnamento di Jacques Lacan, considerando il ruolo del reale, dei meccanismi difensivi e del sinthomo come risposta al godimento opaco.

2. Il mito di Fuxi e Nüwa: riparazione, scrittura, ordine

Nüwa, dopo il disastro cosmico che rompe l’asse del cielo e squarcia la terra, ripara il mondo con atti simbolici e concreti: salda il cielo, ricuce la terra, ripristina l’armonia. Fuxi, suo fratello e sposo, completa l’opera dando origine alla scrittura, ai rituali, ai codici matrimoniali. Insieme, costituiscono un dispositivo mitico di ordinamento del mondo, che però non passa attraverso l’interdizione o il sacrificio, ma attraverso l’armonizzazione.

Da una prospettiva psicoanalitica, questa operazione può essere intesa come una risposta difensiva al reale del godimento: ciò che si rompe è la coerenza del simbolico, e la risposta non è la fondazione di una Legge padrecentrica, bensì un’opera di ricucitura e funzionalizzazione. Il reale non viene forcluso né del tutto simbolizzato, ma contenuto in un’architettura simbolica stabile.

3. Ultimo Lacan: sinthomo, reale e il limite del Nome-del-Padre

Nell’ultima fase del suo insegnamento (Seminari XX–XXIII), Lacan abbandona la centralità del Nome-del-Padre come significante universale della Legge. Il reale, in quanto eccedenza opaca e traumatica (jouissance), non è domabile dalla sola funzione paterna. Da qui, Lacan introduce il concetto di sinthomo: non più sintomo come messaggio da interpretare, ma come modo singolare di tenere insieme i tre registri RSI (Reale, Simbolico, Immaginario).

Il mito di Fuxi e Nüwa, letto in questa ottica, non fonda una Legge castrativa, ma un modo collettivo e culturale di “tenere insieme” il reale attraverso un sistema di scrittura, numeri, legami familiari, cosmologia. L’ordine non è fondato sul sacrificio o sulla perdita, ma su una sorta di “legame sinthomatico”: una scrittura mitica del godimento.

4. Meccanismi difensivi collettivi e ordine simbolico

Nel mito si può riconoscere l’attivazione di meccanismi difensivi culturali di tipo iscrittivo e ritualizzante. La sublimazione è certamente presente – l’arte del rito e della scrittura come forma culturalizzata del godimento – ma si affianca a una isolamento del reale, che viene arginato attraverso pratiche ordinatrici. Invece della rimozione (come in Occidente), qui agisce una ritualizzazione del godimento, che ne permette la coesistenza con l’ordine sociale.

Questo lascia intravedere anche un possibile lato oscuro: se il godimento non è mai veramente affrontato come mancanza, ma solo come caos da contenere, il soggetto può restare annodato al simbolico senza divisione, senza interrogazione desiderante. In questo senso, il mito mostra anche i limiti di una soggettivazione senza taglio.

5. Confronto con il mito occidentale

La mitologia greco-giudaico-cristiana fonda spesso l’ordine sul sacrificio: Prometeo punito, Edipo accecato, Isacco salvato ma quasi ucciso. In tutti questi casi, l’accesso alla legge passa attraverso una perdita, una castrazione, una dialettica con il desiderio. Il Nome-del-Padre vieta, fonda la Legge, separa il soggetto dal godimento.

Nel mito cinese, invece, non c’è colpa originaria né trasgressione fondamentale. L’ordine nasce non dalla castrazione ma dalla compensazione, non dal divieto ma dalla riparazione. Questa è una differenza strutturale che influenza anche le forme della soggettività, della famiglia, della trasmissione.

6. Conclusione: un sinthomo armonico ma opaco

Il mito di Fuxi e Nüwa mostra come una cultura può rispondere al reale del godimento non attraverso la Legge del Padre, ma attraverso una struttura sinthomatica collettiva, fatta di simboli, riti, ordine cosmico. Questo permette una forma di soggettivazione armonica, ma forse anche chiusa alla mancanza, resistente alla domanda e alla divisione.

Il mito, dunque, offre una soggettivazione possibile ma non universale, e ci invita a pensare i limiti di ogni costruzione simbolica che non includa il reale come buco, come mancanza. È in questo senso che la psicoanalisi lacaniana può incontrare la mitologia cinese: non per giudicare, ma per leggere la pluralità delle risposte al trauma del godimento.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1975). Encore. Il Seminario XX. Einaudi.
  • Lacan, J. (1974). RSI. Il Seminario XXI. Inedito, appunti.
  • Lacan, J. (1975-76). Le sinthome. Il Seminario XXIII. Einaudi.
  • Granet, M. (1922). La pensée chinoise. Albin Michel.
  • Cheng, F. (1997). Vide et plein. Le langage pictural chinois. Seuil.


sabato 17 maggio 2025

Fiabe russe come miti di soggettivazione: Il principe Ivan

Fiabe russe


Le fiabe popolari russe, in particolare quelle raccolte da Afanas’ev nel XIX secolo, possono essere lette non solo come narrazioni mitologiche o pedagogiche, ma come veri e propri miti di soggettivazione, cioè racconti simbolici in cui si articola la costituzione del soggetto nel suo rapporto con il desiderio, con la legge, con l'Altro. In questa prospettiva, la figura del Principe Ivan, protagonista di molte fiabe, diventa emblematica. Egli incarna un percorso iniziatico che mette in scena il passaggio da una posizione infantile, dipendente e ingenua, a una posizione adulta, capace di affrontare la mancanza, il lutto, la responsabilità e l’amore.


1. Struttura simbolica della fiaba

Secondo Vladimir Propp, nella Morfologia della fiaba (1928), la fiaba russa segue una sequenza fissa di funzioni, che rappresentano una struttura rituale arcaica: un evento iniziale rompe l’equilibrio (una perdita, un furto), l’eroe parte per cercare ciò che è stato tolto, incontra aiutanti magici, affronta prove, riceve doni, vince il male e torna trasfigurato. "Tutte le funzioni si susseguono in un ordine invariabile" (Propp, 1966, p. 23). Questa struttura può essere interpretata psicoanaliticamente come il percorso del soggetto alle prese con la perdita originaria, la ricerca dell’oggetto perduto, il confronto con l’Altro e con la Legge.

In particolare, il movimento narrativo è quello che Lacan ha descritto come passaggio dall’immaginario al simbolico, dalla dimensione narcisistica a quella del desiderio strutturato. Come afferma Lacan, "il desiderio è il desiderio dell’Altro" (Seminario XI, 1978, p. 235). Il soggetto-fiabesco parte sempre da una condizione di mancanza: il padre è insoddisfatto, l’oggetto è perduto, il regno è minacciato. Ma è proprio questa mancanza che mette in moto il desiderio e lo obbliga a partire.


2. Il Principe Ivan e l’Uccello di Fuoco: una ricerca dell’objet petit a

Nella fiaba "Il Principe Ivan, l'Uccello di Fuoco e il Lupo Grigio", Ivan si lancia alla ricerca dell’Uccello di Fuoco, dopo aver trovato una piuma brillante e incandescente. Il padre lo manda alla ricerca dell’uccello, ma il Lupo Grigio lo ammonisce: la piuma era già troppo, chiedere di più porterà guai. Ivan non ascolta e prosegue. Questa sequenza mostra un eccesso di desiderio, un rifiuto del limite simbolico.

L’Uccello di Fuoco rappresenta un oggetto seducente, inafferrabile, enigmatico: un perfetto esempio di "objèt petit a", l’oggetto causa del desiderio di cui parla Lacan: "non è ciò che si desidera, ma ciò per cui si desidera" (Seminario XI, 1978, p. 149). Non è un oggetto che soddisfa, ma un oggetto che incarna la mancanza. La sua presenza attiva il desiderio, ma non può essere posseduto senza conseguenze. Ivan lo insegue, ma ogni volta che si avvicina, perde qualcos’altro. L’Uccello sfugge, ma lo spinge avanti, in una catena metonimica del desiderio.


3. L’alleato inconscio: il Lupo Grigio

Il Lupo Grigio, che compare dopo la prima trasgressione di Ivan, è una figura ambivalente. Punisce, ma poi protegge. Porta Ivan sulle sue spalle, gli dona metamorfosi, lo guida. È una rappresentazione dell’inconscio come alleato: non l’Io padrone, ma la dimensione altra, che conosce la via, se ascoltata. Lacan sottolinea che "l'inconscio è strutturato come un linguaggio" e parla se il soggetto sa ascoltarlo (Seminario XI, 1978, p. 25).

Il Lupo si trasforma più volte: in cavallo, in Ivan stesso, in mezzo per entrare nel castello. Questa funzione polimorfa ricorda il gioco delle identificazioni immaginarie, ma soprattutto il ruolo della funzione analitica: il Lupo permette a Ivan di ingannare il potere, di cambiare pelle, di attraversare le prove.


4. La morte simbolica e la rinascita

Quando Ivan viene tradito dai fratelli e ucciso, assistiamo a una morte simbolica. Egli perde tutto: vita, amore, missione. Ma il Lupo, ancora una volta, interviene e lo fa risorgere con l’Acqua della Morte e l’Acqua della Vita. Questo passaggio non è solo narrativo, ma profondamente simbolico: per diventare soggetto, Ivan deve morire come oggetto dell’Altro (il padre, i fratelli, la missione). Solo così può rinascere non come eroe puro, ma come soggetto diviso, consapevole del limite, capace di amare e scegliere. Come nota Bettelheim: "solo attraverso una simbolica morte e rinascita l’eroe può diventare adulto" (Il mondo incantato, 1976, p. 214).


5. Soggetto e Altro nella cultura russa

Le fiabe russe mettono in scena un rapporto particolare con l’Altro: spesso severo, imprevedibile, non completamente inscrivibile nella Legge. Il Padre è figura distante, autoritaria; le forze celesti (animali, spiriti, potenze magiche) sono potenti ma ambigue. Questo contesto culturale offre uno sfondo originale alla soggettivazione: non si tratta di un’adesione docile alla Legge, ma di un confronto drammatico, tragico, spesso mistico con l’Altro.

Ivan è spesso ingenuo, ma non stupido. È l’idiota dostoevskiano: chi non sa, ma si lascia attraversare. La sua vittoria non dipende dalla forza, ma dalla capacità di lasciarsi modificare, di perdere, di fidarsi dell’inconscio. In questo senso, il suo percorso è paradigmatico per la soggettivazione: Ivan non trionfa, ma si trasforma.


Bibliografia essenziale

  • Afanas’ev, A. N. Fiabe russe. Milano: Mondadori, 1997.
  • Bettelheim, B. Il mondo incantato. Milano: Feltrinelli, 1976.
  • Freud, S. Il perturbante. In Opere, Torino: Bollati Boringhieri.
  • Lacan, J. Il Seminario. Libro V: Le formazioni dell’inconscio. Torino: Einaudi, 2004.
  • Lacan, J. Il Seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi, 1978.
  • Meletinskij, E. M. Il racconto fiabesco. Milano: Mondadori, 2001.
  • Propp, V. Morfologia della fiaba. Torino: Einaudi, 1966.
  • Propp, V. Le radici storiche dei racconti di magia. Torino: Einaudi, 1987.
  • Žižek, S. God in Pain: Inversions of Apocalypse. New York: Seven Stories Press, 2012.

venerdì 16 maggio 2025

Genealogia della Modernità. Una lettura lacaniana


1. Introduzione

La modernità non è solo un cambiamento storico, ma una trasformazione profonda del modo in cui le persone si relazionano con il potere, la verità, il desiderio e la Legge. In questa genealogia, proviamo a seguire l'evoluzione della soggettività moderna attraverso lo sguardo della psicoanalisi lacaniana, che ci offre strumenti preziosi per leggere il legame tra il soggetto e l'Altro, tra l’individuo e il sistema simbolico che struttura la sua esperienza.

Al centro della riflessione c’è un concetto fondamentale della teoria di Lacan: il significante padrone (S1). Questo elemento rappresenta il punto simbolico attorno al quale si organizza il senso del mondo per ciascun soggetto e per una cultura intera. Quando S1 è forte, il mondo appare ordinato e dotato di senso. Quando S1 si indebolisce, il soggetto si trova disorientato, con ricadute importanti sul piano clinico, sociale e politico.


2. Le società tradizionali: ordine simbolico e funzione paterna

Prima della modernità, le società si fondavano su un ordine simbolico stabile. L’autorità era incarnata dalla figura del padre, del re, del sacerdote, del Dio unico. Tutto ruotava intorno a una struttura gerarchica in cui ciascuno aveva un posto: uomini e donne, giovani e vecchi, ricchi e poveri. La famiglia patriarcale e la religione fornivano il quadro simbolico entro cui si costruiva l’identità.

In termini lacaniani, possiamo dire che il Nome-del-Padre rappresentava il garante dell’ordine: introduceva la Legge, il limite, la possibilità di strutturare il desiderio senza perdersi nel godimento assoluto. Il soggetto era dunque inserito in un campo simbolico che gli offriva orientamento, ma anche vincoli precisi.

Questo sistema aveva i suoi problemi (rigidità, esclusioni, disuguaglianze), ma dava una risposta chiara alla domanda: “Chi sono io?”.


3. L’Illuminismo e la nascita del soggetto autonomo

Con l’Illuminismo si rompe questo ordine simbolico tradizionale. L’autorità non viene più accettata perché “viene dall’alto”, ma deve essere giustificata dalla ragione. La fede lascia il posto alla scienza, la tradizione alla critica, la monarchia al cittadino.

Nasce un nuovo tipo di soggetto: il soggetto razionale e autonomo, che cerca di costruire la propria identità attraverso il sapere, l’esperienza, la libertà individuale.

Ma Lacan ci avverte: la scienza moderna, pur producendo sapere, non dà senso. Anzi, produce un sapere senza soggetto, che oggettivizza tutto, compreso l’essere umano. Si tratta di un sapere che esclude il godimento, cioè la parte più singolare e opaca dell’esperienza umana. Il soggetto moderno diventa così padrone della natura, ma sempre più separato dal suo desiderio profondo.


4. Il capitalismo e il nuovo imperativo: godere

Con la rivoluzione industriale e il trionfo del mercato, la modernità entra in una nuova fase. Cambia radicalmente il modo di stare insieme nella società. Il capitalismo non si limita a produrre beni: produce anche desideri, immagini, aspettative.

Nel “discorso del capitalista” (come lo definisce Lacan nel Seminario XVII), la Legge che limitava il godimento viene sostituita da un nuovo comando: “Goditi!”. Il consumo, il successo personale, l’autorealizzazione diventano i nuovi valori dominanti. L’ideale sociale non è più l’obbedienza, ma la performance.

Questo produce effetti ambivalenti: da un lato una libertà mai vista prima; dall’altro, una nuova forma di schiavitù. Il soggetto non è più vincolato da divieti religiosi o morali, ma è obbligato a essere felice, performante, soddisfatto. Il desiderio non trova più orientamento nella Legge, ma si perde nel consumo illimitato.

Le patologie contemporanee (ansia, depressione, dipendenze, disturbi narcisistici) sono spesso l’effetto di questa nuova forma di comando: “Devi godere, devi realizzarti, devi essere speciale”. Il soggetto si sente libero, ma in realtà è intrappolato in un circuito infinito di frustrazione.


5. Il postmoderno e l’evaporazione del Nome-del-Padre

Nel XX secolo, con le guerre mondiali, la crisi delle ideologie, la rivoluzione culturale del ’68, anche gli ultimi punti di riferimento simbolico iniziano a sgretolarsi. Lacan parla di “evaporazione del Nome-del-Padre”: non c’è più un punto fermo, una garanzia simbolica che possa orientare il soggetto.

La famiglia cambia: il padre non è più figura di autorità, ma spesso è assente, debole, “democratico”. Anche le istituzioni vacillano. Le grandi narrazioni (religiose, politiche, culturali) non riescono più a convincere. Il soggetto è sempre più lasciato solo, e deve inventarsi da sé.

Ma questa libertà assoluta può diventare un peso: se tutto è possibile, niente ha davvero senso. Il rischio è il nichilismo, oppure la fuga in identità rigide, come le appartenenze religiose fondamentaliste o le nuove ideologie autoritarie.


6. Ritorni reattivi del significante padrone

Quando il significante padrone si indebolisce troppo, spesso assistiamo a un ritorno “brutale” dell’autorità: nuove religioni dogmatiche, leader carismatici, ideologie identitarie, oppure un’adesione cieca alla tecnica o al mercato.

Questi nuovi padri però non hanno la funzione simbolica del vecchio Nome-del-Padre: sono spesso figure che promettono protezione ma impongono obbedienza senza mediazione simbolica. Lacan direbbe che sono “semblanti” di padri, che coprono il vuoto ma non lo elaborano.

Anche la tecnologia può diventare un nuovo S1: l’algoritmo, la macchina, il dato oggettivo diventano nuovi padroni a cui affidare le scelte. Ma anche qui manca il simbolico: non c’è parola, non c’è desiderio, solo calcolo.


7. Quale futuro per il legame sociale?

Davanti a questa crisi, l’insegnamento di Lacan ci invita a non cercare di restaurare il passato, ma a inventare nuovi modi di tenere insieme il soggetto e il legame sociale. Serve un nuovo modo di pensare la Legge, non come divieto assoluto, ma come struttura che orienta il desiderio e lo mette in relazione con l’Altro.

Questo riguarda in modo particolare l’educazione, la clinica, il lavoro sociale, la politica: tutti ambiti in cui oggi si tratta di creare spazi simbolici dove i soggetti possano costruire il loro posto senza essere schiacciati dalle richieste sociali, né lasciati soli nel vuoto.

Bisogna trovare modi nuovi di dire “no” al godimento assoluto, ma anche “sì” al desiderio singolare, che chiede parola, riconoscimento e legame.


8. Conclusione

La genealogia della modernità ci mostra come il soggetto sia passato da una struttura simbolica rigida e ordinata a una situazione di grande libertà, ma anche di grande smarrimento. La psicoanalisi lacaniana ci aiuta a leggere questa trasformazione non con nostalgia, ma come sfida per reinventare il legame sociale.

Non si tratta di scegliere tra libertà e autorità, ma di pensare nuove forme di simbolizzazione che sappiano tenere insieme il desiderio e la Legge, l’individuo e la comunità, il limite e la creatività.


Bibliografia per approfondire

  • Jacques Lacan, Seminario XVII. Il rovescio della psicoanalisi
  • Jacques Lacan, Seminario XX. Ancora
  • Jacques Lacan, Scritti
  • Jacques-Alain Miller, Il partner-sintomo
  • Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco
  • Massimo Recalcati, Le nuove melanconie
  • Slavoj Žižek, Meno di niente
  • Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Psicopolitica, La scomparsa dei rituali
  • Michel Foucault, Sorvegliare e punire, La volontà di sapere 

Genealogia della Modernità: antecedenti filosofici


La modernità occidentale si costituisce come un dispositivo storico, simbolico ed economico che ha prodotto una nuova forma di soggettivazione. La filosofia critica del Novecento – da Nietzsche a Weber, da Heidegger a Marx – ha messo in discussione il presunto progresso lineare, rivelando le ambivalenze dell’epoca moderna. In questo contesto, anche la psicoanalisi freudiana e la sua riformulazione lacaniana possono essere comprese come espressioni e insieme strumenti critici della modernità.


1. Soggetto moderno e disincanto

Con Nietzsche, la modernità appare come epoca del “nichilismo”, cioè della crisi dei valori supremi. Dio è morto e l’uomo moderno si trova esposto a un vuoto simbolico. Weber traduce questo in termini sociologici: la razionalizzazione moderna porta al “disincantamento del mondo” (Entzauberung), ossia alla perdita di senso globale, sostituito da sistemi razionali e impersonali. Heidegger, da parte sua, parla di “oblio dell’essere” e riduzione dell’ente a mera risorsa (Bestand).

Lacan, riprendendo il cogito cartesiano, afferma che il soggetto della modernità nasce diviso: “là dove penso non sono, là dove sono non penso”. Il soggetto moderno è quindi effetto del linguaggio e dell’ordine simbolico, e non è padrone di sé.


2. Marx, Lacan e il soggetto espropriato

Marx è centrale per comprendere la modernità come ordine economico fondato sull’alienazione. Nella sua analisi, il capitalismo moderno espropria il lavoratore non solo del prodotto del suo lavoro, ma della sua stessa soggettività. Il soggetto moderno è spogliato della propria forza vitale, trasformato in funzione del profitto. Questa figura dell’alienazione economica anticipa, in chiave materialistica, ciò che Lacan chiamerà l’effetto di scissione strutturale del soggetto.

In particolare, Lacan elabora la nozione di plus-de-jouir (plusgodere) come ripresa del concetto marxiano di plusvalore. Dove Marx descrive l’estrazione del valore in eccesso da parte del capitale, Lacan individua un godimento in eccesso che il soggetto non può integrare, ma da cui è catturato. Il discorso del capitalista, nel Seminario XVII, mostra come il ciclo produzione–consumo aggiri la castrazione simbolica e prometta un godimento pieno, senza mancanza, rendendo però il soggetto ancora più alienato.


3. La psicoanalisi come figlia della modernità

La nascita della psicoanalisi, a cavallo tra XIX e XX secolo, non è casuale: essa è una risposta ai sintomi dell’epoca moderna. Il disagio nella civiltà freudiano (Das Unbehagen in der Kultur) evidenzia la tensione tra pulsione e legame sociale, tra godimento e legge. Freud individua nell’inconscio l’effetto del rimosso, e nella nevrosi la cifra del soggetto moderno. Lacan rilegge questa scoperta nella cornice del linguaggio, mostrando come l’Altro strutturi il desiderio.

In una società in cui la legge tradizionale si è indebolita e le figure simboliche dell’autorità sono evaporate, il soggetto è lasciato solo davanti al proprio godimento. Questo spiega anche l’aumento dei sintomi contemporanei: depressioni, dipendenze, acting-out. La psicoanalisi si offre così come dispositivo di lettura della crisi del soggetto moderno.


4. Tecnica, controllo e capitalismo contemporaneo

L’attuale fase del capitalismo, segnata dalla rivoluzione digitale e dal capitalismo delle piattaforme, intensifica le tendenze già presenti nella modernità. Heidegger aveva colto nella tecnica non un semplice insieme di strumenti, ma una modalità di svelamento del reale: tutto viene ridotto a risorsa disponibile. Il controllo digitale – basti pensare al sistema cinese di credito sociale, che attribuisce punteggi comportamentali ai cittadini, premiando o punendo in base alla conformità – rappresenta una nuova forma di governamentalità.

In questo contesto, la psicoanalisi lacaniana aiuta a comprendere come il soggetto venga interpellato non solo dall’Altro simbolico, ma anche da un Altro algoritmico, che conosce i suoi desideri prima che egli stesso li formuli. Il soggetto diventa così sempre più “trasparente” e, al tempo stesso, più inconsapevole.

5. Conclusione: genealogia critica del soggetto moderno

La genealogia della modernità ci mostra che il soggetto moderno non nasce libero, ma diviso, alienato, espropriato. La libertà promessa dalla modernità è spesso contraddetta dalle sue stesse strutture: razionalizzazione, accumulazione, controllo tecnico, standardizzazione.

Lacan, in dialogo implicito con Marx, Nietzsche, Weber e Heidegger, ci offre una chiave per pensare criticamente il soggetto contemporaneo. Non si tratta di rifiutare la modernità, ma di leggerla nei suoi dispositivi costitutivi e nelle sue aporie, per riaprire lo spazio di un desiderio che non sia ridotto a consumo né a prestazione.


Bibliografia

  • Freud, S. (1930). Il disagio della civiltà. Opere, vol. 10. Bollati Boringhieri.
  • Heidegger, M. (1954). La questione della tecnica. In Saggi e discorsi. Mursia.
  • Lacan, J. (1969–1970). Il Seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1968–1969). Il Seminario. Libro XVI: Da un Altro all’altro. Einaudi.
  • Lacan, J. (1970). Radiophonie. In Autres Écrits. Seuil.
  • Marx, K. (1844). Manoscritti economico-filosofici. Einaudi.
  • Marx, K. (1867). Il Capitale, vol. I. Editori Riuniti.
  • Nietzsche, F. (1887). Genealogia della morale. Adelphi.
  • Weber, M. (1919). La scienza come professione. Laterza.
  • Žižek, S. (1989). Il sublime oggetto dell’ideologia. Laterza.


Vasco Rossi: una voce che dà corpo al sintomo contemporaneo

                               "Eh già, sembrava la fine del mondo / ma sono ancora qua." ( Eh… già , 2011) Vasco Rossi è molt...