giovedì 12 giugno 2025

Cambiare il mondo senza prendere il potere: Zapatismo, desiderio e soggettivazione politica in chiave psicoanalitica

Cambiare il mondo senza prendere il potere. Zapatismo, desiderio e soggettivazione politica in chiave psicoanalitica


Introduzione

Il movimento zapatista, emerso nel 1994 nel Chiapas, ha rappresentato una rottura simbolica e politica con i paradigmi rivoluzionari tradizionali. Il suo rifiuto esplicito di "prendere il potere" e la pratica del "comandare obbedendo" offrono un'occasione unica per una lettura psicoanalitica della soggettivazione politica, del desiderio collettivo e della funzione dell'Altro. Questa lettura, ispirata alla teoria lacaniana, permette di comprendere il carattere rivoluzionario dello zapatismo non come presa del potere statuale, ma come trasformazione del legame sociale. Tuttavia, questa proposta etico-politica, pur profondamente innovativa, presenta limiti rilevanti quando confrontata con le sfide materiali e simboliche della contemporaneità.


1. Il soggetto politico tra mancanza e desiderio

In psicoanalisi il soggetto non è un'entità compatta ma divisa ($), costitutivamente mancante. Il desiderio non nasce da un bisogno, ma dall'incontro con l'Altro e dal fallimento di ogni soddisfazione piena. Lo zapatismo, nel rifiuto della conquista del potere centrale, sembra assumere questo carattere strutturalmente mancante del desiderio rivoluzionario, spostandolo dal piano del potere sull'altro al piano dell'apertura all'altro. "Camminare domandando" è una forma politica del desiderio: non voler colmare la mancanza con un potere, ma farne il motore del processo collettivo. Tuttavia, come nota Zizek, il rischio di una politica del desiderio priva di mediazione istituzionale è quello di cadere in una forma di impotenza sublimata, dove il desiderio stesso viene feticizzato a scapito dell'efficacia storica.


2. Il potere come significante padrone (S1)

Lacan individua nel significante padrone (S1) il fondamento simbolico del discorso del potere. Le rivoluzioni moderne hanno spesso sostituito un S1 con un altro (il re con il popolo, il capitale con il partito), senza modificare la struttura stessa del discorso. Lo zapatismo, al contrario, rifiuta di incarnare un nuovo S1. La sua struttura politica orizzontale, la pluralità dei soggetti e delle parole, il rifiuto della centralizzazione sono tutti tentativi di evitare la riemersione del discorso del padrone. Tuttavia, Laclau ha evidenziato che ogni articolazione politica richiede un momento di condensazione simbolica, un significante vuoto capace di unificare le domande eterogenee. Il rifiuto dello S1, se radicale, rischia di impedire la costruzione di un'egemonia contro-egemonica.


3. Comandare obbedendo: sovversione dell'Altro

"Comandare obbedendo" è una formula che disinnesca la verticalità del comando. Il capo non è l'Uno che sa, ma colui che risponde. L'autorità è ridotta a funzione simbolica, temporanea, legata al riconoscimento della comunità. Qui il soggetto politico non è rappresentato, ma articolato: si apre uno spazio di enunciazione dove l'autorità diventa funzione dell'ascolto. Questo può essere paragonato al discorso dell'analista, dove il sapere non è imposto ma evocato, emergente. Tuttavia, Badiou ha criticato le forme di democrazia radicale che rinunciano a ogni forma di decisione sovrana, vedendo in esse un rischio di dispersione: senza un Evento che imponga un nuovo ordine simbolico, il rischio è che la politica si dissolva nel sociale.


4. Il noi che include il diverso: identità molteplice

Lo zapatismo parla di un "noi" che non si chiude nell'identità ma che include la differenza. Il "nosotros" zapatista è il luogo simbolico dove il soggetto può esistere senza essere ridotto all'identico. È una politica del soggetto diviso, in cui il legame non è dato dalla somiglianza, ma dall'apertura all'inassimilabile. In termini psicoanalitici, si tratta di un "noi" che assume la castrazione simbolica e non cerca di riempirla con un Uno totalizzante. Pavón-Cuéllar, nella sua lettura critica della psicoanalisi latinoamericana, sottolinea l'importanza di non proiettare su questi "noi" locali un'immagine idealizzata o mitica del soggetto rivoluzionario: il rischio è quello di riprodurre inconsciamente una funzione dell'Altro coloniale, anche se apparentemente decostruita.


5. Il tempo dell'attesa e la soggettivazione come processo

Lo zapatismo non ha fretta di vincere. Rifiuta le logiche dell'accelerazione rivoluzionaria. Il tempo è il tempo dell'altro, del processo, della trasformazione soggettiva. Come in analisi, dove il tempo logico non coincide con il tempo cronologico, anche la rivoluzione zapatista procede per atti simbolici, interruzioni, retroazioni, elaborazioni collettive. Non c'è un fine, ma una direzione: quella dell'emancipazione soggettiva e comunitaria. Tuttavia, questa temporalità rischia di restare impolitica se non viene articolata con una strategia che tenga conto dei dispositivi di potere globali: come sottolinea Zizek, la sospensione dell'atto sovrano può diventare complicità con lo stato delle cose se non attraversa l'ordine simbolico con un taglio.


Conclusione: una rivoluzione etica con limiti strategici

Lo zapatismo rappresenta un esempio vivente di quella che Lacan avrebbe chiamato un'etica del desiderio. Non si tratta di abolire il potere, ma di sottrarsi alla sua cattura immaginaria. Non si tratta di eliminare il significante padrone, ma di ridurne gli effetti, di renderlo reversibile, temporaneo, attraversabile. In questo senso, lo zapatismo è una rivoluzione simbolica: non per prendere il potere, ma per trasformare il legame sociale.

Tuttavia, come notano diversi critici (Zizek, Laclau, Badiou, Pavón-Cuéllar), la rinuncia al potere può tradursi in una rinuncia alla trasformazione reale delle strutture materiali. L’esperienza zapatista mostra i limiti di una politica del desiderio quando non è sostenuta da una riflessione sul simbolico e sul reale della violenza sistemica. Forse la sfida, oggi, è quella di tenere insieme etica del desiderio e costruzione di istituzioni emancipative.


Bibliografia essenziale

  • Jacques Lacan, Il seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi, Einaudi
  • John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, Alegre
  • Subcomandante Marcos, Ya basta!, Feltrinelli
  • Enrique Dussel, 20 tesi di politica, Castelvecchi
  • Cornelius Castoriadis, L’istituzione immaginaria della società, Einaudi
  • Gloria Muñoz Ramírez, EZLN: el fuego y la palabra, Ediciones La Jornada
  • Miguel Benasayag, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli
  • Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi
  • Ian Parker e David Pavón-Cuéllar, Lacan, Discourse, Event: New Psychoanalytic Approaches to the Political, Routledge
  • Slavoj Zizek, Meno di niente, Ponte alle Grazie
  • Ernesto Laclau, La ragione populista, Laterza
  • Alain Badiou, L'ipotesi comunista, Ponte alle Grazie 

giovedì 5 giugno 2025

Il potere di generare: leadership diffusa e soggettività sociale in trasformazione

Potere di generare


📌 Abstract

L’articolo propone una riflessione critica sulla leadership generativa come forma emergente di soggettivazione collettiva nel lavoro contemporaneo, con particolare attenzione al terzo settore e al sindacalismo critico. In un contesto segnato dalla crisi del management tradizionale e dalla trasformazione delle istituzioni del lavoro, emergono pratiche di leadership distribuita che non si fondano sul comando, ma sulla capacità di attivare, sostenere e accompagnare processi generativi di senso e cooperazione. Attraverso una lettura che integra contributi teorici della psicologia sociale, della filosofia politica e della psicoanalisi lacaniana, l’articolo indaga i nodi critici e le potenzialità di queste esperienze, portando esempi tratti dal mondo del lavoro sociale e dei movimenti sindacali di base.

1. Introduzione: una crisi simbolica e organizzativa del lavoro

Nel cuore della crisi del capitalismo cognitivo e dell’economia delle piattaforme, il lavoro appare attraversato da una duplice contraddizione: da un lato la crescente frammentazione dei diritti e dei legami professionali; dall’altro, il riemergere di pratiche comunitarie, collaborative e politicamente consapevoli, che interrogano il modello dominante di leadership come puro esercizio di comando e controllo.

Come osservano Bonomi e Masiero (2020), nella società post-fordista emergono nuove soggettività che non si lasciano più organizzare secondo schemi gerarchici rigidi, ma richiedono forme di riconoscimento e partecipazione che valorizzino l’esperienza e l’iniziativa. La nozione di "leadership generativa" (Magatti, 2022) permette di leggere questi fenomeni in chiave trasformativa, come processi in cui non si trasmette solo potere, ma si produce soggettività, senso, e legami nuovi.

2. Cos’è la leadership generativa

La leadership generativa è un concetto emerso per indicare una forma di guida che non si limita a gestire o motivare, ma che attiva spazi di senso condiviso, di innovazione sociale e di trasformazione reciproca. Magatti (2022) parla di una leadership che "non si impone ma dispone", che ha la capacità di generare contesti e possibilità più che di esercitare controllo.

Questa forma di leadership è spesso situata e diffusa, come notano Pearce & Conger (2003), che la descrivono come "shared leadership", cioè una funzione che può emergere collettivamente e che si sviluppa lungo relazioni orizzontali, non necessariamente vincolata a ruoli o gerarchie formali. È una funzione che può emergere in momenti critici, o in modo rotante, come nei gruppi cooperativi o nei collettivi sindacali.

3. Lacan, il desiderio e la funzione del vuoto nella leadership

Jacques Lacan ha mostrato come ogni struttura del potere sia anche una struttura del desiderio. Il significante-padrone (S1) non è solo comando, ma ciò che organizza il discorso e orienta il desiderio collettivo (Lacan, 1981). Quando il comando manageriale perde legittimità simbolica, la funzione del leader non può più consistere nell’imposizione di norme, ma nel sostenere spazi vuoti in cui possano emergere soggettività.

Come suggerisce il Lacan del Seminario XI (1975), il desiderio si sostiene su un vuoto strutturale, e dunque anche la funzione del leader può essere interpretata come custodia di uno spazio simbolico generativo, e non come occupazione autoritaria. Questo è ciò che accade in molte esperienze del terzo settore e del sindacalismo critico, dove l’autorità si reinventa come ascolto radicale e messa in questione reciproca.

4. Due casi esemplari

4.1. Un collettivo educativo in area metropolitana

In una cooperativa sociale impegnata nell’accoglienza di famiglie migranti, l’équipe educativa ha rifiutato una struttura gerarchica rigida, scegliendo di ruotare la funzione di coordinamento tra i vari educatori. Si è trattato di una leadership "distribuita" e "non delegata" (Pearce & Conger, 2003), dove la capacità di guidare è emersa dall’esperienza e dalle relazioni.

Il risultato è stato un gruppo più coeso, capace di proporre innovazioni anche rischiose, rafforzando il senso di appartenenza e di responsabilità collettiva. È emersa una leadership generativa, che ha attivato soggettività senza fondarsi sul potere formale.

4.2. Un’assemblea sindacale di base nei servizi pubblici

In una grande città del Nord Italia, un gruppo di operatori sociosanitari, educatori e tecnici precari ha dato vita a un’assemblea intersettoriale, ispirata a pratiche mutualistiche. L’assenza di una figura fissa di portavoce ha favorito l’emergere di competenze multiple: comunicazione, lettura normativa, organizzazione dal basso.

Questa modalità ha permesso l’attivazione di nuove soggettività politiche, in linea con quanto afferma Giorgi (2022): "il lavoro che resiste non è solo quello che rivendica, ma quello che produce legami e senso". La leadership, in questi contesti, è funzione relazionale e generativa, più che gerarchica o rappresentativa.

5. Soggettività generativa e sindacalismo critico

Il sindacalismo critico — che comprende esperienze autonome, di base e anche talune trasformazioni interne alla rappresentanza tradizionale — rappresenta un terreno fertile per forme di leadership generativa. Giorgi (2022) parla di una "politica della cooperazione situata" che produce leadership relazionali e temporanee.

In questo contesto, il ruolo del leader non è comandare o rappresentare, ma connettere, tradurre, ascoltare, stimolare. Come affermano Carli e Paniccia (2003), è nell’analisi della domanda collettiva che può emergere una funzione generativa del coordinamento, al servizio di processi partecipativi.

6. Conclusioni

In un’epoca in cui il modello organizzativo tradizionale è sempre più inefficace, la leadership generativa si configura come pratica trasformativa. Nei contesti del terzo settore e nel sindacalismo critico, essa rompe la logica verticale del potere e propone un’altra visione: quella del potere di generare, del potere di sostenere vite e legami, e non solo performance.

Come nota Dejours (2009), "il lavoro contiene una dimensione di verità" che non può essere catturata dalla sola logica dell’efficienza. La leadership generativa custodisce questa verità, promuovendo spazi di parola, ascolto e trasformazione reciproca.


📚 Bibliografia

  • Bonomi, A. & Masiero, M. (2020). La società circolare. DeriveApprodi.
  • Carli, R. & Paniccia, R.M. (2003). Psicologia della partecipazione. FrancoAngeli.
  • Dejours, C. (2009). La banalità dell’ingiustizia sociale. Raffaello Cortina.
  • Giorgi, C. (2022). Il lavoro che resiste. Manifestolibri.
  • Lacan, J. (1975). Il seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1981). Il seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi. Einaudi.
  • Magatti, M. (2022). Generare libertà. Accedere al futuro. Feltrinelli.
  • Mazzoleni, G. (2023). Leadership generativa. Oltre il management tradizionale. Vita e Pensiero.
  • Pearce, C. L. & Conger, J. A. (2003). Shared Leadership: Reframing the Hows and Whys of Leadership. SAGE.
  • Sandri, G. (2018). Fare cooperazione oggi. Edizioni Gruppo Abele.


venerdì 30 maggio 2025

La leadership generativa nel Terzo Settore: dinamiche soggettive e pratiche collettive in un’epoca di trasformazione

 

Social Worker


Introduzione: crisi economica, politica e sfide dell’internet economy

Il contesto economico e politico attuale è caratterizzato da una complessità crescente e da trasformazioni profonde, dovute alla crisi della globalizzazione neoliberale, all’instabilità geopolitica e alla diffusione accelerata delle tecnologie digitali, che modificano radicalmente i modelli di produzione, lavoro e partecipazione sociale. L’economia digitale (internet economy) impone nuove modalità di governance e di organizzazione, che incidono anche sui processi di rappresentanza e sulle forme di leadership.

In tale scenario, il Terzo Settore emerge come spazio cruciale di innovazione sociale, capace di tessere relazioni tra mercato, istituzioni e comunità. La sfida principale riguarda la capacità di sviluppare modelli di leadership che superino i limiti dei tradizionali approcci manageriali, spesso gerarchici e verticali, per adottare forme più fluide, distribuite e generative.


Leadership postmanageriale e generativa: definizioni e riferimenti teorici

La leadership postmanageriale si distingue per un approccio meno autoritario, fondato su pratiche di collaborazione, condivisione del potere e valorizzazione della soggettività collettiva. La leadership generativa, collegata a questa, si concentra sull’emergere di nuove soggettività e sulla costruzione di significati condivisi, attivando processi creativi e trasformativi all’interno delle organizzazioni.

Il contributo della psicoanalisi lacaniana risulta fondamentale per interpretare la leadership come funzione simbolica. Secondo tale prospettiva, la leadership agisce come “significante padrone” che organizza e stabilizza il campo sociale e simbolico, ma che nel modello generativo non si manifesta come imposizione rigida, bensì come apertura a un campo plurale, in cui più soggettività trovano spazio e possibilità di espressione.


La leadership nel Terzo Settore: pratiche distribuite e soggettività generative

Nel Terzo Settore, che include cooperative sociali, associazioni, enti non profit e realtà di economia sociale, la leadership generativa si manifesta in forme situate, distribuite e relazionali. Queste forme si fondano su valori di partecipazione, inclusione e mutualità, distinguendosi da modelli aziendalistici tradizionali.

Gli operatori sociali, educatori professionali, psicologi e figure di coordinamento svolgono funzioni di leadership diffusa, in cui il ruolo formale non coincide con l’esercizio effettivo della funzione simbolica di guida e facilitazione. La leadership qui è lavoro simbolico e relazionale, capace di integrare le diversità e di favorire processi di empowerment.

Esempio 1: un progetto di inclusione sociale in una grande città

In un’organizzazione dedicata all’inclusione sociale di persone in situazione di vulnerabilità, la leadership è distribuita tra educatori, mediatori culturali e coordinatori, che insieme costruiscono spazi di dialogo e decisione condivisa. La pratica di leadership generativa ha permesso di superare rigidità organizzative e di valorizzare le competenze e le esperienze dei singoli, migliorando la qualità degli interventi e la coesione interna.

Esempio 2: una rete territoriale per il sostegno alle famiglie

Una rete di enti del Terzo Settore impegnata nel sostegno alle famiglie ha sviluppato un modello di leadership situata, in cui i leader locali agiscono come facilitatori di processi di co-progettazione e mediazione tra diversi attori sociali. La leadership non è concentrata in un singolo soggetto, ma si distribuisce e si adatta alle diverse situazioni, promuovendo una governance partecipata e inclusiva.


Sindacalismo critico: laboratorio di leadership generativa

Anche nel campo sindacale, in particolare nei sindacati di base, si osserva un’importante evoluzione verso forme di leadership generativa e distribuita. Questi sindacati promuovono pratiche di autorganizzazione, partecipazione diretta e costruzione collettiva di strategie, mettendo in discussione i modelli tradizionali di rappresentanza verticale.

In questo contesto, la leadership si esprime come capacità di attivare soggettività multiple, riconoscere la pluralità delle identità lavorative e mediare i conflitti trasformandoli in momenti di innovazione sociale e culturale.

Esempio 3: rappresentanza dei lavoratori della gig economy

Un sindacato di base ha avviato una campagna di rappresentanza per lavoratori della gig economy, tipicamente frammentati e privi di tutele tradizionali. La leadership collettiva e assembleare ha permesso di costruire reti di solidarietà e di rivendicazione che intrecciano istanze economiche con pratiche culturali, favorendo una nuova soggettività politica dei lavoratori digitali.



Il ruolo di psicologi e educatori nel Terzo Settore

Psicologi, educatori professionali e assistenti sociali sono attori fondamentali della leadership generativa nel Terzo Settore. Non solo svolgono compiti tecnici, ma incarnano funzioni simboliche e relazionali che favoriscono la soggettivazione degli utenti, la mediazione culturale e la costruzione di comunità inclusive.

Gli psicologi, in particolare, contribuiscono come mediatori simbolici, sostenendo la trasformazione dei conflitti in risorse e facilitando processi di empowerment. Gli educatori professionali, con la loro capacità di facilitare dinamiche di gruppo e di relazione, rappresentano spesso nodi centrali nella rete di leadership distribuita.


Conclusioni

La leadership postmanageriale e generativa nel Terzo Settore si configura come una risposta strategica alle sfide poste dalle trasformazioni economiche, sociali e tecnologiche in atto. Essa implica una ridefinizione della leadership stessa, intesa come processo collettivo, distribuito e situato, capace di integrare dimensioni simboliche, relazionali e organizzative.

In questa prospettiva, il Terzo Settore diventa un laboratorio privilegiato per sperimentare forme di leadership che siano creative, inclusivi e politicamente significative, contribuendo a costruire comunità resilienti e capaci di innovazione sociale.


Bibliografia essenziale

  • Argyris, C., & Schön, D. (1978). Organizational Learning: A Theory of Action Perspective. Addison-Wesley.
  • Bennis, W. G. (2003). On Becoming a Leader. Basic Books.
  • Foster, R., & Kaplan, S. (2001). Creative Destruction. Crown Business.
  • Lacan, J. (1972). Le séminaire, Livre VIII: Le transfert. Seuil.
  • Magatti, M. (2019). La società in guerra. Il Mulino.
  • Ricketts, E. (2018). Generative Leadership in Practice. Palgrave Macmillan.
  • Ropo, A., & Salovaara, P. (2017). Leadership-as-Practice. Routledge.
  • Senge, P. M. (1990). The Fifth Discipline. Doubleday.
  • Wheatley, M. J. (2006). Leadership and the New Science. Berrett-Koehler.

sabato 24 maggio 2025

La notte come soglia: lettura lacaniana di “Di notte” di Mariangela Gualtieri

Notte come soglia



“Di notte” di Mariangela Gualtieri

Di notte
le mille faccende riposte
il chiacchierio delle cose
ottuso chiuso a chiave nello scrigno nero
e il tempo davanti pare esteso
e le stelle mandano lo sfolgorio
fin dentro le mie pupille chiuse.

Che notte di neve meravigliosa
dentro, nelle falde del cuore acceso
a tutto motore, che partitura
di silenzio e di luce.

Domani ancora caricheremo il fardello
faremo la fatica delle sporte
dolorose e del peso. Domani
tenteremo di destreggiarci
fra le spine del giorno.
Staremo nel precipizio delle faccende.
E poi di nuovo la notte col suo premio
di sospensione distesa.

La notte
che talmente avvicina l’oltretomba
e tutto il di là della vita
con le creature addormentate nel bosco
e la sua corda tesa di buio.

La notte su metà del pianeta
con mani addormentata sui cuscini
e occhi che si chiudono dentro tutte le case.

E ora da qui, dal nocciolo più interno
della notte, rifletto e accetto
l’alta compitazione, l’investitura
in scrittura terrestre, della sacrosanta vita
attutita, come imbottita e sepolta
nei corpi del genere umano.



Nella poesia “Di notte”, Mariangela Gualtieri ci conduce in uno spazio-tempo sospeso, dove il linguaggio si attenua, le cose tacciono, e si apre una soglia densa di silenzio e interiorità. Da un punto di vista psicoanalitico lacaniano, la notte evocata dalla poetessa può essere letta come il momento privilegiato in cui il soggetto, liberato dalla pressione del discorso dominante del giorno, si confronta con il proprio desiderio, con il Reale, e forse — in forma embrionale — con la possibilità di rilanciare un nuovo significante padrone (S1).

1. La sospensione del Simbolico e l’apertura al Reale

Gualtieri apre la poesia con l’immagine di un mondo che si ritira: “le mille faccende riposte”, “il chiacchierio delle cose ottuso, chiuso a chiave”. È il momento in cui il Simbolico dominante, con i suoi imperativi di efficienza, utilità e produttività, si ritira, lasciando spazio a un vuoto fertile. La notte non è solo assenza di luce, ma assenza di senso obbligato, una partitura di silenzio e di luce che apre la possibilità di un’altra scrittura, di un’altra articolazione soggettiva.

Qui si fa sentire il Reale, non come trauma brutale, ma come presenza viva e notturna, avvertita nel corpo: “il cuore acceso a tutto motore”. Un godimento, forse, che sfugge alla presa del Nome-del-Padre, e che si avvicina al godimento femminile indicato da Lacan nel Seminario XX — un godimento Altro, non tutto simbolizzabile.

2. Il soggetto nella notte: sospeso tra veglia e sogno

La notte descritta da Gualtieri non è semplicemente un tempo del riposo, ma un tempo in cui il soggetto si raccoglie, riflette, e accetta un compito: “dal nocciolo più interno della notte, rifletto e accetto l’alta compitazione”. In termini lacaniani, qui il soggetto non è più parlato dall’Altro, ma si assume come causa del proprio desiderio. La “scrittura terrestre” può allora essere vista come una forma di investitura soggettiva, il rilancio di un nuovo S1, che non domina, ma orienta.

Questo S1 è radicalmente diverso da quello del giorno, fatto di “fardelli”, “sporte dolorose”, “spine del giorno”: tutti segni del discorso del padrone moderno, che aliena il soggetto nella sua funzione sociale. La notte invece offre la possibilità di articolare un S1 singolare, forse poetico, forse etico, che nasce dall’esperienza del Reale e dalla sospensione del già-detto.

3. Il rilancio di un nuovo S1

In questa sospensione, possiamo leggere la notte come tempo propizio per rilanciare un nuovo significante padrone, non imposto dall’Altro, ma emerso dal fondo del soggetto. Questo nuovo S1 non è normativo, ma segnale di un altro possibile discorso, più vicino alla vita, alla fragilità, alla finitudine condivisa. La poesia stessa, nella sua forma, è già esempio di questo altro S1, che non comanda ma chiede ospitalità nel linguaggio.

Possiamo ipotizzare che questo S1 notturno — fragile, terreno, scritto — sia un S1 del legame, non della prestazione; un S1 che nomina la “sacrosanta vita attutita” nei corpi umani, e non la vita performante, visibile, riconosciuta. È, in questo senso, un S1 sottratto all’economia della visibilità, e perciò prossimo all’etica psicoanalitica del desiderio: non ciò che realizza, ma ciò che orienta nella notte.

4. Conclusione: un altro discorso è possibile

La notte di Gualtieri è un invito a sospendere il dominio dell’S1 diurno e a rendere possibile un altro discorso, fondato non sul comando, ma sulla scrittura del desiderio. In essa il soggetto non è annullato, ma trasfigurato dal silenzio e dalla possibilità di nominare altrimenti la propria vita.

In un’epoca segnata dal dominio dei discorsi tecnocratici e prestazionali, la poesia — e la notte che la rende possibile — possono essere lette come spazi di resistenza simbolica. Luoghi dove l’Altro non impone, ma ascolta, e dove il soggetto può rilanciare un S1 proprio, fragile e sacro, capace di dare inizio a un discorso più umano.


giovedì 22 maggio 2025

"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" di Cesare Pavese: una lettura lacaniana


Verrà la morte


Verrà la morte e avrà i tuoi occhi 

– questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese 


"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", scritta da Cesare Pavese tra marzo e giugno del 1950, è forse il testo più nudo, tragico e radicale dell’intera sua opera. Ultimo approdo della sua scrittura poetica e insieme testamento esistenziale, questa poesia rappresenta l’incontro del soggetto con il reale, là dove il simbolico vacilla e il desiderio si confronta con la sua impossibilità.

1. Biografia e bibliografia: un ritorno alla poesia come sinthomo

La poesia appartiene a un piccolo ciclo postumo, pubblicato nel 1951, poco dopo il suicidio di Pavese. Dopo anni dedicati alla narrativa (La casa in collina, Il diavolo sulle colline, La luna e i falò), Pavese ritorna alla forma lirica, ma non più nella modalità epica e narrativa di Lavorare stanca. Qui la poesia è essenziale, concentrata, assoluta. È il suo sinthomo nel senso lacaniano: una forma di legame soggettivo con il reale, che tiene insieme ciò che non può essere simbolizzato — il lutto, la mancanza, il godimento.

In questa fase finale della sua vita, Pavese appare disarmato, incapace di trovare ancora riparo nel mito (come nei Dialoghi con Leucò) o nella cultura. Resta solo il corpo a corpo con la mancanza: una scrittura che si fa confessione, ma anche soglia di sparizione del soggetto.

2. Lo sguardo dell’Altro come oggetto a

Il verso iniziale — "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" — è già tutto un programma di svelamento. In esso, la morte non ha volto proprio, ma assume quello dell’amata. Si affaccia così il reale nel luogo dell’Altro: la Cosa (das Ding) si iscrive nello sguardo dell’amore. Non si tratta di un amore consolante, ma dell’incontro traumatico con il godimento che eccede il senso, con l’oggetto a che abita lo sguardo dell’Altro.

In Lacan, lo sguardo è oggetto pulsionale: non restituisce l'immagine rassicurante dell’Io, ma la buca, la inquieta. Gli occhi dell’amata sono allora il punto in cui il soggetto si smarrisce, non perché tradito, ma perché esposto all’eccesso del godimento, al buco del significante.

3. Morte e desiderio: il fallimento dell’amore simbolico

Lacan insegna che l’amore cerca di colmare la mancanza dell’Altro, ma senza riuscirci: è sempre disallineato, sospeso. Qui, l’amore è totalmente attraversato dal fallimento: non resta parola che tenga, solo un volto che coincide con la morte. L’Altro amato si rivela non come garanzia simbolica, ma come luogo della perdita.

La poesia lacanianamente mostra che non c’è Nome-del-Padre che possa rappresentare il lutto. L’amata è reale, assoluta, non mediabile: rappresenta quella parte dell’Altro che non risponde, che uccide. In questo senso, l’amore non è redenzione, ma catastrofe.

4. Godimento e pulsione di morte

Nel testo si avverte una jouissance che non passa più attraverso il desiderio, ma si coagula in una pulsione di morte, in un abbandono alla fine. L’io poetico è incollato all’oggetto a, senza più possibilità di separazione simbolica. Non c’è sublimazione, né trasfigurazione. Solo l’essenziale: l’incontro tra il soggetto e il reale del godimento, che non può essere detto ma solo subito.

5. Scrivere per scomparire: il soggetto come resto

Se in Lavorare stanca il soggetto si collocava nel mondo, nella storia e nel paesaggio, qui si dissolve. La scrittura non è più gesto di fondazione, ma atto terminale. Pavese scrive la poesia come atto ultimo, non tanto per dire qualcosa, quanto per testimoniare il punto in cui la parola fallisce e resta solo l’oggetto del godimento.

In questo senso, Verrà la morte è anche una poesia sul fallimento del simbolico: non c’è elaborazione, non c’è lutto, solo l’apparizione cruda della fine.


Conclusione

"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" è uno dei testi più potenti della letteratura italiana del Novecento proprio perché è anche uno dei più puri esempi dell’incontro tra poesia e reale. In essa Pavese mostra ciò che nella sua opera era sempre stato latente: il desiderio come mancanza, l’amore come impossibilità, il soggetto come resto.

Letta nell’orientamento lacaniano, la poesia rivela la struttura profonda dell’esperienza soggettiva: il volto dell’amore come luogo della perdita, lo sguardo dell’Altro come oggetto a, la scrittura come sinthomo per tenere insieme ciò che altrimenti crolla.

Una poesia che, come il desiderio stesso, non consola. Ma dice — con precisione vertiginosa — l’impossibile da dire.



mercoledì 21 maggio 2025

L'odio nel transfert e nel controtransfert: una lettura lacaniana, con un confronto con Klein e Winnicott


L’odio, come dimensione soggettiva e relazionale, ha una presenza centrale nella clinica psicoanalitica, soprattutto quando si manifesta nel transfert e nel controtransfert. Nella prospettiva lacaniana, questa affettività primaria assume una valenza strutturale e non meramente accidentale, come invece potrebbe apparire in approcci più adattivi o evolutivi. Non si tratta semplicemente di un ostacolo alla cura, bensì di un momento rivelatore della struttura del soggetto e del suo rapporto con l’Altro.


L'odio nel transfert

Jacques Lacan ha affrontato la questione dell'odio all'interno della relazione transferale, in particolare nella lezione del 20 aprile 1960 del Seminario L’etica della psicoanalisi, dove, rifacendosi ad Aristotele, pone l’odio (misos) come l’affetto che mira all’essere dell’altro, mentre l’amore ne mira il bene. L’odio, in quanto tale, non è secondario rispetto all’amore: è della stessa stoffa. Nella relazione analitica, il soggetto può manifestare un odio tenace e violento verso l’analista, che non va inteso in senso personale ma come effetto del posto simbolico che l’analista occupa, quello di causa del desiderio e luogo dell’Altro.

L’analista, infatti, in quanto sostituto del soggetto supposto sapere (sujet supposé savoir), è chiamato a sostenere proiezioni e investimenti che mettono in gioco nuclei profondi della pulsione, del fantasma e della storia soggettiva. L’odio può emergere quando l’analista tocca o smaschera il godimento inconscio legato alla sofferenza, o quando il soggetto percepisce un’opacità nel suo desiderio. È spesso nel momento in cui l’analista si sottrae, non soddisfa la domanda d’amore, che il soggetto risponde con aggressività e odio.


Il desiderio dell’analista e la posizione etica

Nel Seminario XI (I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi), Lacan insiste sul concetto di "desiderio dell’analista" come ciò che orienta la cura. Questo desiderio non è desiderio personale, ma desiderio puro, spogliato, che non mira a soddisfare, né a rassicurare. È un desiderio che accetta l’odio del paziente, che lo attraversa, che ne sostiene l’elaborazione. L’analista è chiamato a sostenere la posizione di oggetto a, oggetto causa del desiderio, e quindi a tollerare di essere ridotto a cosa, a oggetto di odio, a rifiuto, senza retrocedere.

Il desiderio dell’analista implica una funzione di “buca” nel sapere: si tratta di non voler sapere tutto, di non pretendere di colmare l’Altro, ma di sostenere il vuoto strutturale che abita il soggetto. È proprio questa posizione che permette al transfert di evolvere e di aprirsi al movimento interpretativo e all’atto analitico. Come scrive Lacan nel Seminario XI, “Il desiderio dell'analista non è puro desiderio di guarire. È desiderio che ha incontrato la sua propria castrazione”.


Controtransfert e limite della reattività dell’analista

L’odio non appartiene solo al paziente. Come sottolinea Lacan nel Seminario VIII (Il transfert), l’analista non è immune dalle passioni. Tuttavia, per Lacan, è proprio l’analista che deve lavorare perché le sue passioni non interferiscano. Il concetto di controtransfert, sviluppato in area post-freudiana (es. Heimann, Racker), è ridimensionato da Lacan: l’analista deve rendere la propria posizione quanto più impersonale possibile, non perché si annulla, ma perché la sua soggettività deve diventare funzione.

L’odio dell’analista, quindi, può emergere nella pratica, soprattutto in ambito istituzionale dove i fenomeni di transfert negativo sono amplificati da dinamiche di gruppo, gerarchia e potere. In questi casi, mantenere il desiderio come causa e non come risposta reattiva è ancora più difficile. Il rischio è quello del godimento dell’analista, che si difende attraverso l’identificazione con un sapere o con un ruolo, invece di lasciarsi lavorare dal transfert.


Esempi dalla pratica istituzionale

In contesti educativi o terapeutici con soggetti psicotici o con disabilità, si osserva spesso un transfert negativo massiccio: rifiuto dell’educatore o dell’operatore, insulti, disorganizzazione comportamentale. Un esempio è il caso di un giovane con psicosi che durante il gruppo occupazionale, ad ogni proposta dell’operatore, risponde con l’insulto più feroce e minaccioso. L’operatore, se non è sostenuto da una supervisione e da un’elaborazione simbolica della sua funzione, rischia di rispondere in modo simmetrico: disprezzo, ironia, punizione. È qui che si gioca la possibilità di una funzione analitica o almeno simbolizzante: accettare di essere oggetto dell’odio, e non volerlo colmare con l’amore o con la pedagogia del bene.


Confronto con Melanie Klein e Donald Winnicott

Melanie Klein ha tematizzato a fondo l’aggressività primaria e l’odio nell’ambito della relazione oggettuale. Nella posizione schizo-paranoide, il bambino vive l’oggetto come persecutore, e riversa su di esso odio e distruttività. Solo attraverso l’elaborazione della posizione depressiva è possibile riconoscere l’oggetto buono e cattivo come unificato, e quindi riparare. Da questo punto di vista, l’odio nel transfert è un ritorno di quelle angosce originarie, che l’analista deve contenere e trasformare.

Winnicott, invece, si concentra sul concetto di odio dell’analista, con grande onestà clinica. Nel saggio L’odio nella contropartita terapeutica (1949), afferma che l’analista deve riconoscere e tollerare il proprio odio, soprattutto nel lavoro con pazienti gravi. L’odio che l’analista prova non è necessariamente patologico, ma espressione della realtà della situazione e della frustrazione. La differenza, per Winnicott, sta nel fatto che l’analista non agisce il suo odio, ma lo riconosce, lo sopporta e lo utilizza.

Rispetto a Lacan, sia Klein che Winnicott tendono a concepire l’odio come una fase, un contenuto da trasformare o contenere. Lacan, invece, pone l’odio come strutturale, come parte del desiderio stesso: “l’amore è sempre ricambiato dall’odio”, diceva, indicando che non si dà soggettivazione senza attraversamento del negativo.


Conclusione

Affrontare l’odio nel transfert e nel controtransfert è un passaggio necessario in ogni lavoro clinico e istituzionale che voglia avere un effetto di soggettivazione. Nella prospettiva lacaniana, l’odio non va risolto né rimosso, ma attraversato e letto come segno del reale in gioco. Il desiderio dell’analista, sostenuto dalla propria castrazione e non dal sapere, è ciò che consente di non rispondere alla provocazione, ma di mantenerne aperto il senso.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1959-60). Seminario VII. L’etica della psicoanalisi. Torino: Einaudi, 2008.
  • Lacan, J. (1964). Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi, 2003.
  • Lacan, J. (1960-61). Seminario VIII. Il transfert. Torino: Einaudi, 2021.
  • Klein, M. (1946). Note su alcuni meccanismi schizoidi, in Scritti 1921-1958. Firenze: Martinelli.
  • Klein, M. (1940). Invidia e gratitudine, in Scritti 1921-1958. Firenze: Martinelli.
  • Winnicott, D.W. (1949). L’odio nella contropartita terapeutica, in Sviluppo affettivo e ambiente. Roma: Armando, 1975.
  • Roussillon, R. (1991). Il transfert negativo. Roma: Borla.
  • Mannoni, M. (1969). L’enfant arriéré et la psychanalyse. Paris: Seuil.
  • Recalcati, M. (2010). Il transfert. Milano: Cortina.


lunedì 19 maggio 2025

Soggettività performativa e Crisi del Legame simbolico

Logica Coordinativa


1. Introduzione

La logica coordinativa rappresenta una delle configurazioni dominanti della razionalità contemporanea. Essa si fonda su una modalità di pensiero e di organizzazione sociale che mira a mettere in relazione elementi molteplici senza conflitto, senza gerarchia esplicita, attraverso il principio della connessione funzionale. Tale logica, apparentemente neutra e inclusiva, produce in realtà forme insidiose di desoggettivazione, sottraendo al soggetto la sua possibilità di insistenza, di rottura, di domanda etica radicale. Questa logica attraversa tanto il campo politico quanto quello clinico, sociale e persino educativo, e si manifesta nella governance, nella psicologia adattiva, nella pedagogia prestazionale.


2. Razionalità coordinativa e funzionamento sistemico

Come ha osservato Habermas, la razionalità moderna si è differenziata in due registri: la razionalità strumentale del sistema e la razionalità comunicativa del mondo della vita. Tuttavia, la proposta habermasiana di salvare la sfera comunicativa tramite un'etica del discorso sembra oggi insufficientemente radicale. La logica coordinativa assorbe anche il discorso etico in un regime di gestione, dove il conflitto viene convertito in procedura, e la domanda viene trasformata in problema da risolvere.

In questo senso, si può affermare con Adorno che "non c’è vita vera nella vita falsa" (Minima Moralia, 1951). La logica coordinativa neutralizza la negatività, l’attrito che costituisce la materia della soggettività e dell’etica. Essa si presenta come la forma postmoderna della razionalità funzionalista, in cui tutto si connette, ma nulla resiste.


3. Clinica del soggetto e razionalità coordinativa

Nel campo clinico, tale logica si manifesta nel passaggio dalla psicoanalisi alla psicoterapia evidence-based, dalla domanda all’adattamento, dal sintomo come messaggio al sintomo come disfunzione. La clinica della ragione coordinativa è quella che non vuole sapere del soggetto, ma solo dei suoi comportamenti, dei suoi pattern, dei suoi deficit. Come sottolinea Lacan, la psicoanalisi non è una psicologia dell’Io, ma una pratica del soggetto diviso, strutturato dal linguaggio, irriducibile alla funzione adattiva (Écrits, 1966).

L’inconscio, in questa logica, diventa rumore, il sintomo una distorsione, e la cura una normalizzazione. In tale orizzonte, la clinica si trasforma in governance dell’individuo, in ingegneria della felicità o della resilienza. Come ricorda Byung-Chul Han (La società della stanchezza, 2010), l’individuo contemporaneo si sente libero proprio mentre è completamente inserito in un regime prestazionale che lo rende responsabile del proprio fallimento.


4. Etiche orientali e razionalità funzionale

Il confronto con le etiche orientali può sembrare, a prima vista, offrire un’alternativa alla logica occidentale. Tuttavia, se osservate nella loro ricezione contemporanea, queste etiche – fondate sull’armonia, sull’adattamento all’ordine naturale, sulla dissoluzione dell’ego – si prestano spesso a una riattivazione funzionalista. Come sottolinea Sloterdijk, il buddhismo globale oggi agisce più come tecnica di ottimizzazione dell'umore che come rottura dell’ordine costituito (Devi cambiare la tua vita, 2009).

In molti casi, tali etiche diventano supporti spirituali al neoliberismo, producendo una soggettività flessibile, disponibile, non conflittuale. L’armonia viene così dislocata dalla sfera etico-politica a quella della performance adattiva, e il soggetto si ritrae in una interiorità disattivata, anestetizzata.


5. Politica e desoggettivazione

La logica coordinativa si esprime politicamente nella forma della governance, nella sostituzione della decisione con la mediazione procedurale, del conflitto con il consenso. Sloterdijk ha messo in evidenza come la politica tardo-moderna tenda a trasformarsi in "cura del mondo", perdendo il legame con la passione del politico e con il rischio del dissenso radicale.

Zizek, in questo contesto, denuncia il modo in cui la democrazia liberale sopravvive solo come rituale, svuotata di contenuto sovversivo: "il soggetto politico autentico emerge nel momento in cui l’ordine simbolico vacilla" (Meno di niente, 2012). La logica coordinativa, al contrario, tende a suturare ogni rottura, convertendo l’evento in procedura, la rivolta in riforma, la soggettivazione in gestione.


6. Genealogia della soggettività occidentale

Come ha argomentato Kantzas (La Polis senza Creonte e senza Antigone, 2011–2025), il soggetto occidentale nasce dalla frattura tra legge e desiderio, tra ordine politico e istanza etica. Questa frattura, che la tragedia greca mette in scena attraverso Antigone e Creonte, è l’archetipo del soggetto come scissione. Anche la tradizione giudaico-cristiana, con Abramo, i profeti, e infine il Cristo, pone il soggetto davanti a un Altro che non coincide con l’ordine sociale. La modernità secolarizza questa frattura nella figura del soggetto autonomo, ma diviso: tra ragione e volontà, tra legge morale e felicità.

La logica coordinativa tenta di suturare questa frattura, proponendo un soggetto armonico, prestazionale, pienamente integrato nei dispositivi. Kantzas osserva che la "polis postmoderna" vuole il corpo di Antigone e la ragione di Creonte senza la loro tragedia, producendo così un soggetto impolitico, senza desiderio e senza legge.


7. Conclusione: Critica della ragione coordinativa

La ragione coordinativa, lungi dall’essere una neutralizzazione pacifica del conflitto, si rivela come una strategia per l’eliminazione della soggettività. Essa funziona come una desublimazione repressiva: promette liberazione, ma produce conformismo; promette dialogo, ma riduce il dissenso; promette cura, ma produce normalizzazione.

Contro questa logica, è urgente rilanciare una clinica e una politica del soggetto. Una clinica che non si accontenti di curare, ma che sappia sostenere la verità del sintomo. Una politica che non cerchi il consenso, ma la possibilità di un nuovo inizio. Come afferma Adorno: “L’unica etica che resta è quella che si fa carico dell’impossibilità dell’etica” (Dialettica negativa, 1966).


Bibliografia

  • Adorno, T.W., Minima Moralia, 1951
  • Adorno, T.W., Dialettica negativa, 1966
  • Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, 2010
  • Habermas, J., Teoria dell’agire comunicativo, 1981
  • Kantzas, P., La Polis senza Creonte e senza Antigone. Lezioni Fiorentine, UNIFI ScienPo, 2011–2025
  • Kierkegaard, S., Timore e tremore, 1843
  • Lacan, J., Écrits, 1966
  • Sloterdijk, P., Devi cambiare la tua vita, 2009
  • Zizek, S., Meno di niente, 2012


domenica 18 maggio 2025

Il Dio straniero: Dioniso, il pensiero tragico e l’eredità dell’Occidente

Dioniso


1. Pensiero tragico e dialettica apollineo-dionisiaca

Il pensiero tragico, secondo Nietzsche, nasce dalla tensione dinamica tra due princìpi fondamentali della cultura greca: l’apollineo e il dionisiaco. L’apollineo rappresenta la chiarezza, la forma, l’ordine e la misura, mentre il dionisiaco incarna il caos, l’ebbrezza, la fusione con l’altro e la perdita di sé nel flusso della natura. Nietzsche afferma che “la tragedia è l’arte che nasce dalla lotta e dall’unità di questi due spiriti” (Nietzsche, La nascita della tragedia, §2). Questa dialettica consente di rappresentare la realtà umana non come semplice razionalità, ma come uno scontro continuo tra ragione e impulso, forma e disfacimento.


2. Dioniso: il dio straniero e la forza del sovvertimento

Dioniso si presenta come un dio straniero, un elemento esterno che penetra nel cuore della polis greca e ne mette in crisi l’ordine stabilito. Egli è “il dio che unisce e dissolve, che fa esplodere la realtà nelle sue contraddizioni più profonde” (Vernant, 1972). Nel dramma di Euripide, Le Baccanti, Dioniso manifesta questa duplicità: da una parte è un dio di festa e liberazione, dall’altra un agente di follia e distruzione. Penteo, re di Tebe, rappresenta il potere apollineo, che si oppone alla rivelazione dionisiaca. La tragedia culmina nella morte di Penteo, sbranato dalle baccanti in preda al delirio, simbolo dell’irruzione violenta del dionisiaco nella realtà umana.


3. Lettura psicoanalitica lacaniana: il reale dionisiaco e la divisione del soggetto

Dal punto di vista della psicoanalisi lacaniana, Dioniso può essere interpretato come una manifestazione del “reale” — quel registro dell’esperienza che sfugge alla simbolizzazione e al controllo del linguaggio. Lacan sottolinea come il soggetto sia strutturato attorno a un’assenza originaria, una scissione interna tra il desiderio e la legge simbolica che lo limita. La tragedia diventa allora una rappresentazione della lotta interna del soggetto. Antigone, ad esempio, si oppone alla legge del re, incarnando il desiderio che sfida la norma: “La legge non ha il potere di sottomettere ciò che è giusto nel desiderio” (Lacan, Seminario VII, 1959). La tragedia mette in scena questa impossibilità di risolvere il conflitto tra desiderio e legge, tra individuo e società.

Edipo, a sua volta, simboleggia la ricerca disperata di un senso che si rivela impossibile da raggiungere. Lacan commenta che Edipo scopre “la mancanza nel sapere,” la realtà che il soggetto è sempre segnato da un vuoto che non potrà mai colmare completamente. La tragedia esprime così la condizione umana di soggettività divisa, esposta al dolore e alla contraddizione.


4. Il dionisiaco come eccesso e il ruolo educativo della tragedia

Il dionisiaco rappresenta l’eccesso, la forza che rompe i confini della misura e mette in crisi ogni ordine stabilito. La tragedia, come scrive Jean-Pierre Vernant, “insegna all’uomo a convivere con il caos e la perdita, mostrando la fragilità della condizione umana” (Vernant, 1972). L’esperienza tragica non è solo dolore, ma anche un momento di catarsi e consapevolezza, in cui l’uomo accetta la propria finitezza e la complessità dell’esistenza.

La tragedia greca esercita così un ruolo fondamentale nel permettere alla cultura occidentale di confrontarsi con l’ignoto e il perturbante. Dioniso incarna questa forza destabilizzante, ma anche rigenerativa: la sua presenza richiama l’uomo a non ridursi a mera razionalità o controllo, ma a riconoscere il proprio lato oscuro e irrazionale.


5. L’eredità del pensiero tragico nella cultura occidentale

L’influenza di Dioniso e del pensiero tragico nella cultura occidentale si manifesta in molteplici ambiti, dalla filosofia all’arte, dalla letteratura alla psicoanalisi. Nietzsche stesso sottolinea che la tragedia è “la suprema arte della vita, che afferma la vita nonostante il dolore e la sofferenza” (Nietzsche, La nascita della tragedia, §24).

Nel mondo moderno, dominato da razionalismo e controllo, la forza dionisiaca rimane un richiamo fondamentale alla complessità dell’umano. Lacan afferma che “la psicoanalisi è il tentativo di non cancellare il reale dionisiaco, ma di farlo emergere per riconoscere la verità del soggetto” (L’etica della psicoanalisi). La cultura occidentale, quindi, continua a portare con sé l’eredità del tragico, ossia la capacità di confrontarsi con la divisione, l’ambiguità e l’impossibilità di una totalità definitiva.


6. Conclusioni: il valore eterno del tragico e del dio straniero

Dioniso e il pensiero tragico rappresentano un’apertura fondamentale al mistero e all’inafferrabile dell’esperienza umana. Essi insegnano a vivere con il limite, con il conflitto e con la perdita senza negare la possibilità della bellezza e della trasformazione. In un’epoca in cui la cultura tende spesso a semplificare e controllare, il richiamo dionisiaco resta un monito a non dimenticare la nostra natura complessa, fatta di luce e ombra, ordine e caos.


Bibliografia

  • Nietzsche, F. (1872). La nascita della tragedia.
  • Lacan, J. (1959-1960). Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi.
  • Kantzas P. (2011-2025), La Polis senza Creonte e senza Antigone. UNIFI ScienPo, Firenze.
  • Euripide. Le Baccanti.
  • Sofocle. Antigone, Edipo Re.
  • Vernant, J.-P. (1972). Mito e tragedia nell’antica Grecia. Einaudi.
  • Detienne, M. (1997). Dioniso e la violenza. Laterza.


Fuxi e Nüwa: sinthomo collettivo e mito cinese della soggettivazione tra reale e ordine simbolico

Fuxi e Nuwa


1. Introduzione

Il mito di Fuxi e Nüwa occupa un posto centrale nella mitologia cinese, non solo come narrazione delle origini del mondo umano e dell’ordine cosmico, ma anche come espressione profonda di una forma culturale di soggettivazione. A differenza del mito occidentale del padre edipico e della Legge come interdizione del godimento (Nome-del-Padre), la mitologia cinese fonda l’ordine attraverso atti di riparazione, equilibrio e armonizzazione. Questo contributo propone una lettura del mito alla luce dell’ultimo insegnamento di Jacques Lacan, considerando il ruolo del reale, dei meccanismi difensivi e del sinthomo come risposta al godimento opaco.

2. Il mito di Fuxi e Nüwa: riparazione, scrittura, ordine

Nüwa, dopo il disastro cosmico che rompe l’asse del cielo e squarcia la terra, ripara il mondo con atti simbolici e concreti: salda il cielo, ricuce la terra, ripristina l’armonia. Fuxi, suo fratello e sposo, completa l’opera dando origine alla scrittura, ai rituali, ai codici matrimoniali. Insieme, costituiscono un dispositivo mitico di ordinamento del mondo, che però non passa attraverso l’interdizione o il sacrificio, ma attraverso l’armonizzazione.

Da una prospettiva psicoanalitica, questa operazione può essere intesa come una risposta difensiva al reale del godimento: ciò che si rompe è la coerenza del simbolico, e la risposta non è la fondazione di una Legge padrecentrica, bensì un’opera di ricucitura e funzionalizzazione. Il reale non viene forcluso né del tutto simbolizzato, ma contenuto in un’architettura simbolica stabile.

3. Ultimo Lacan: sinthomo, reale e il limite del Nome-del-Padre

Nell’ultima fase del suo insegnamento (Seminari XX–XXIII), Lacan abbandona la centralità del Nome-del-Padre come significante universale della Legge. Il reale, in quanto eccedenza opaca e traumatica (jouissance), non è domabile dalla sola funzione paterna. Da qui, Lacan introduce il concetto di sinthomo: non più sintomo come messaggio da interpretare, ma come modo singolare di tenere insieme i tre registri RSI (Reale, Simbolico, Immaginario).

Il mito di Fuxi e Nüwa, letto in questa ottica, non fonda una Legge castrativa, ma un modo collettivo e culturale di “tenere insieme” il reale attraverso un sistema di scrittura, numeri, legami familiari, cosmologia. L’ordine non è fondato sul sacrificio o sulla perdita, ma su una sorta di “legame sinthomatico”: una scrittura mitica del godimento.

4. Meccanismi difensivi collettivi e ordine simbolico

Nel mito si può riconoscere l’attivazione di meccanismi difensivi culturali di tipo iscrittivo e ritualizzante. La sublimazione è certamente presente – l’arte del rito e della scrittura come forma culturalizzata del godimento – ma si affianca a una isolamento del reale, che viene arginato attraverso pratiche ordinatrici. Invece della rimozione (come in Occidente), qui agisce una ritualizzazione del godimento, che ne permette la coesistenza con l’ordine sociale.

Questo lascia intravedere anche un possibile lato oscuro: se il godimento non è mai veramente affrontato come mancanza, ma solo come caos da contenere, il soggetto può restare annodato al simbolico senza divisione, senza interrogazione desiderante. In questo senso, il mito mostra anche i limiti di una soggettivazione senza taglio.

5. Confronto con il mito occidentale

La mitologia greco-giudaico-cristiana fonda spesso l’ordine sul sacrificio: Prometeo punito, Edipo accecato, Isacco salvato ma quasi ucciso. In tutti questi casi, l’accesso alla legge passa attraverso una perdita, una castrazione, una dialettica con il desiderio. Il Nome-del-Padre vieta, fonda la Legge, separa il soggetto dal godimento.

Nel mito cinese, invece, non c’è colpa originaria né trasgressione fondamentale. L’ordine nasce non dalla castrazione ma dalla compensazione, non dal divieto ma dalla riparazione. Questa è una differenza strutturale che influenza anche le forme della soggettività, della famiglia, della trasmissione.

6. Conclusione: un sinthomo armonico ma opaco

Il mito di Fuxi e Nüwa mostra come una cultura può rispondere al reale del godimento non attraverso la Legge del Padre, ma attraverso una struttura sinthomatica collettiva, fatta di simboli, riti, ordine cosmico. Questo permette una forma di soggettivazione armonica, ma forse anche chiusa alla mancanza, resistente alla domanda e alla divisione.

Il mito, dunque, offre una soggettivazione possibile ma non universale, e ci invita a pensare i limiti di ogni costruzione simbolica che non includa il reale come buco, come mancanza. È in questo senso che la psicoanalisi lacaniana può incontrare la mitologia cinese: non per giudicare, ma per leggere la pluralità delle risposte al trauma del godimento.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1975). Encore. Il Seminario XX. Einaudi.
  • Lacan, J. (1974). RSI. Il Seminario XXI. Inedito, appunti.
  • Lacan, J. (1975-76). Le sinthome. Il Seminario XXIII. Einaudi.
  • Granet, M. (1922). La pensée chinoise. Albin Michel.
  • Cheng, F. (1997). Vide et plein. Le langage pictural chinois. Seuil.


sabato 17 maggio 2025

Fiabe russe come miti di soggettivazione: Il principe Ivan

Fiabe russe


Le fiabe popolari russe, in particolare quelle raccolte da Afanas’ev nel XIX secolo, possono essere lette non solo come narrazioni mitologiche o pedagogiche, ma come veri e propri miti di soggettivazione, cioè racconti simbolici in cui si articola la costituzione del soggetto nel suo rapporto con il desiderio, con la legge, con l'Altro. In questa prospettiva, la figura del Principe Ivan, protagonista di molte fiabe, diventa emblematica. Egli incarna un percorso iniziatico che mette in scena il passaggio da una posizione infantile, dipendente e ingenua, a una posizione adulta, capace di affrontare la mancanza, il lutto, la responsabilità e l’amore.


1. Struttura simbolica della fiaba

Secondo Vladimir Propp, nella Morfologia della fiaba (1928), la fiaba russa segue una sequenza fissa di funzioni, che rappresentano una struttura rituale arcaica: un evento iniziale rompe l’equilibrio (una perdita, un furto), l’eroe parte per cercare ciò che è stato tolto, incontra aiutanti magici, affronta prove, riceve doni, vince il male e torna trasfigurato. "Tutte le funzioni si susseguono in un ordine invariabile" (Propp, 1966, p. 23). Questa struttura può essere interpretata psicoanaliticamente come il percorso del soggetto alle prese con la perdita originaria, la ricerca dell’oggetto perduto, il confronto con l’Altro e con la Legge.

In particolare, il movimento narrativo è quello che Lacan ha descritto come passaggio dall’immaginario al simbolico, dalla dimensione narcisistica a quella del desiderio strutturato. Come afferma Lacan, "il desiderio è il desiderio dell’Altro" (Seminario XI, 1978, p. 235). Il soggetto-fiabesco parte sempre da una condizione di mancanza: il padre è insoddisfatto, l’oggetto è perduto, il regno è minacciato. Ma è proprio questa mancanza che mette in moto il desiderio e lo obbliga a partire.


2. Il Principe Ivan e l’Uccello di Fuoco: una ricerca dell’objet petit a

Nella fiaba "Il Principe Ivan, l'Uccello di Fuoco e il Lupo Grigio", Ivan si lancia alla ricerca dell’Uccello di Fuoco, dopo aver trovato una piuma brillante e incandescente. Il padre lo manda alla ricerca dell’uccello, ma il Lupo Grigio lo ammonisce: la piuma era già troppo, chiedere di più porterà guai. Ivan non ascolta e prosegue. Questa sequenza mostra un eccesso di desiderio, un rifiuto del limite simbolico.

L’Uccello di Fuoco rappresenta un oggetto seducente, inafferrabile, enigmatico: un perfetto esempio di "objèt petit a", l’oggetto causa del desiderio di cui parla Lacan: "non è ciò che si desidera, ma ciò per cui si desidera" (Seminario XI, 1978, p. 149). Non è un oggetto che soddisfa, ma un oggetto che incarna la mancanza. La sua presenza attiva il desiderio, ma non può essere posseduto senza conseguenze. Ivan lo insegue, ma ogni volta che si avvicina, perde qualcos’altro. L’Uccello sfugge, ma lo spinge avanti, in una catena metonimica del desiderio.


3. L’alleato inconscio: il Lupo Grigio

Il Lupo Grigio, che compare dopo la prima trasgressione di Ivan, è una figura ambivalente. Punisce, ma poi protegge. Porta Ivan sulle sue spalle, gli dona metamorfosi, lo guida. È una rappresentazione dell’inconscio come alleato: non l’Io padrone, ma la dimensione altra, che conosce la via, se ascoltata. Lacan sottolinea che "l'inconscio è strutturato come un linguaggio" e parla se il soggetto sa ascoltarlo (Seminario XI, 1978, p. 25).

Il Lupo si trasforma più volte: in cavallo, in Ivan stesso, in mezzo per entrare nel castello. Questa funzione polimorfa ricorda il gioco delle identificazioni immaginarie, ma soprattutto il ruolo della funzione analitica: il Lupo permette a Ivan di ingannare il potere, di cambiare pelle, di attraversare le prove.


4. La morte simbolica e la rinascita

Quando Ivan viene tradito dai fratelli e ucciso, assistiamo a una morte simbolica. Egli perde tutto: vita, amore, missione. Ma il Lupo, ancora una volta, interviene e lo fa risorgere con l’Acqua della Morte e l’Acqua della Vita. Questo passaggio non è solo narrativo, ma profondamente simbolico: per diventare soggetto, Ivan deve morire come oggetto dell’Altro (il padre, i fratelli, la missione). Solo così può rinascere non come eroe puro, ma come soggetto diviso, consapevole del limite, capace di amare e scegliere. Come nota Bettelheim: "solo attraverso una simbolica morte e rinascita l’eroe può diventare adulto" (Il mondo incantato, 1976, p. 214).


5. Soggetto e Altro nella cultura russa

Le fiabe russe mettono in scena un rapporto particolare con l’Altro: spesso severo, imprevedibile, non completamente inscrivibile nella Legge. Il Padre è figura distante, autoritaria; le forze celesti (animali, spiriti, potenze magiche) sono potenti ma ambigue. Questo contesto culturale offre uno sfondo originale alla soggettivazione: non si tratta di un’adesione docile alla Legge, ma di un confronto drammatico, tragico, spesso mistico con l’Altro.

Ivan è spesso ingenuo, ma non stupido. È l’idiota dostoevskiano: chi non sa, ma si lascia attraversare. La sua vittoria non dipende dalla forza, ma dalla capacità di lasciarsi modificare, di perdere, di fidarsi dell’inconscio. In questo senso, il suo percorso è paradigmatico per la soggettivazione: Ivan non trionfa, ma si trasforma.


Bibliografia essenziale

  • Afanas’ev, A. N. Fiabe russe. Milano: Mondadori, 1997.
  • Bettelheim, B. Il mondo incantato. Milano: Feltrinelli, 1976.
  • Freud, S. Il perturbante. In Opere, Torino: Bollati Boringhieri.
  • Lacan, J. Il Seminario. Libro V: Le formazioni dell’inconscio. Torino: Einaudi, 2004.
  • Lacan, J. Il Seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi, 1978.
  • Meletinskij, E. M. Il racconto fiabesco. Milano: Mondadori, 2001.
  • Propp, V. Morfologia della fiaba. Torino: Einaudi, 1966.
  • Propp, V. Le radici storiche dei racconti di magia. Torino: Einaudi, 1987.
  • Žižek, S. God in Pain: Inversions of Apocalypse. New York: Seven Stories Press, 2012.

🔍L'Analisi in Lacan

Fare un’ analisi secondo Jacques Lacan non è semplicemente parlare dei propri problemi. È un’esperienza trasformativa, in cui il soggetto ...