lunedì 31 marzo 2025

Il Significante Fallico

 Il Significante Fallico




Il Significante Fallico è un concetto fondamentale nella teoria psicoanalitica di Jacques Lacan. Esso non va confuso con l'organo anatomico, bensì rappresenta il significante del desiderio e della mancanza, nonché il punto attorno a cui si strutturano le identificazioni e le dinamiche simboliche del soggetto (Lacan, 1958/2004). Il fallo, in questa prospettiva, funge da elemento centrale nella regolazione delle relazioni tra il soggetto e l'Altro, sia nella dimensione individuale che sociale.


1. Il Fallo come Significante e non come Organo

Lacan distingue nettamente il fallo come significante da qualsiasi riferimento anatomico al pene. Il fallo significante è ciò che circola nel discorso come segno di potere, prestigio e desiderabilità, ma anche come elemento mai definitivamente posseduto. Nessuno ha il fallo in modo definitivo, ma si può tentare di incarnarlo o di rappresentarlo (Lacan, 1973/2001). Questo lo rende un elemento cardine nella costituzione del soggetto e del desiderio.

Nella società contemporanea, il fallo come significante si manifesta attraverso simboli di potere, ricchezza e successo. L'accesso al fallo, o il tentativo di rappresentarlo, si declina in ambiti come il riconoscimento sociale, il successo professionale o l'autoritarismo politico. In questa prospettiva, il significante fallico non è semplicemente un concetto psicoanalitico astratto, ma una chiave interpretativa per comprendere le dinamiche di potere e desiderio nelle strutture sociali.


2. Il Fallo e l'Ordine Simbolico

Il fallo come significante struttura il rapporto del soggetto con il desiderio dell'Altro. In particolare, nella fase edipica, il bambino si confronta con il fallo come oggetto desiderato dalla madre e, attraverso l'intervento della funzione paterna, viene introdotto nell'ordine simbolico (Lacan, 1957/1998). La "castrazione simbolica" è il processo attraverso il quale il soggetto riconosce di non poter essere l'oggetto unico del desiderio materno e interiorizza la Legge del Padre, che separa il soggetto dal godimento immediato e lo inserisce nel campo del linguaggio e delle relazioni sociali (Miller, 1996).

Nella cultura occidentale, questa dinamica si riflette anche nella costruzione dell'identità di genere e nei ruoli sociali. L'incorporazione del significante fallico regola l'accesso al potere e alle relazioni affettive, contribuendo alla strutturazione dell'inconscio e delle interazioni collettive. L'evoluzione del dibattito sulla crisi della mascolinità e sulle nuove forme di femminilità possono essere lette attraverso la lente del significante fallico e delle sue trasformazioni nel discorso sociale.


3. Maschile e Femminile rispetto al Fallo

Lacan introduce le categorie di avere e essere il fallo per descrivere le diverse posizioni rispetto al desiderio:

Il maschile tende a identificarsi con chi ha il fallo, ma vive nel timore della castrazione, ovvero della perdita del fallo immaginario (Lacan, 1975/2005).

Il femminile è nella posizione di chi può essere il fallo per l'Altro, ossia il suo oggetto di desiderio, ma senza mai possederlo davvero.

Queste posizioni non si riducono a una semplice distinzione tra sessi biologici, ma riguardano le strutture simboliche del desiderio e dell'identificazione (Zizek, 1991). Nel contesto sociale attuale, la ridefinizione delle identità di genere e la decostruzione dei ruoli tradizionali mettono in discussione la rigidità di queste posizioni, aprendo a nuove forme di soggettivazione.


4. Il Fallo e la Castrazione Simbolica

Lacan sottolinea che la castrazione non è una perdita di un organo, bensì l'accettazione della mancanza strutturale. Il soggetto che entra nel simbolico deve rinunciare all'illusione di possedere il fallo per poter desiderare e inserirsi nel linguaggio e nelle relazioni sociali (Lacan, 1957/1998). Il fallo significante diventa quindi il centro della dinamica del desiderio e delle identificazioni, un elemento sempre cercato attraverso gli oggetti del desiderio, ma mai pienamente raggiunto, poiché resta sempre nell'Altro come segno di mancanza e promessa allo stesso tempo (Evans, 1996).


5. Critiche Femministe e Queer

Nonostante la sua centralità nella psicoanalisi, il concetto di significante fallico è stato oggetto di critiche da parte delle teorie femministe e queer.

Critiche femministe: Autrici come Luce Irigaray (1985) e Julia Kristeva (1982) hanno contestato l'idea che il fallo sia il centro del desiderio e del potere simbolico, evidenziando come la psicoanalisi lacaniana riproduca una visione patriarcale del linguaggio e della soggettività. Irigaray, in particolare, sottolinea come la femminilità venga definita in relazione alla mancanza del fallo, anziché come un'entità autonoma.

Critiche queer: Teorici come Judith Butler (1990) hanno messo in discussione il binarismo fallico nella strutturazione del soggetto, sostenendo che il genere non è una posizione fissa rispetto al significante fallico, ma una performatività costruita socialmente. Butler critica la rigidità del sistema simbolico lacaniano e propone un'interpretazione più fluida del desiderio e delle identità sessuali, aprendo a nuove forme di agency e soggettivazione al di fuori della logica fallica.

Queste critiche hanno contribuito a una rilettura del significante fallico in chiave meno gerarchica, proponendo modelli più aperti e inclusivi del desiderio e dell'identità. La psicoanalisi contemporanea si confronta oggi con queste prospettive, cercando di integrare le intuizioni lacaniane con una maggiore sensibilità verso la diversità di genere e le dinamiche di potere nel linguaggio.


Bibliografia

Butler, J. (1990). Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity. Routledge.

Evans, D. (1996). An Introductory Dictionary of Lacanian Psychoanalysis. Routledge.

Irigaray, L. (1985). Speculum of the Other Woman. Cornell University Press.

Kristeva, J. (1982). Powers of Horror: An Essay on Abjection. Columbia University Press.

Lacan, J. (1957/1998). Il seminario, libro V: Le formazioni dell'inconscio. Einaudi.

Lacan, J. (1958/2004). La significazione del fallo. In Scritti. Einaudi.

Lacan, J. (1973/2001). Il seminario, libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.

Zizek, S. (1991). Looking Awry: An Introduction to Jacques Lacan through Popular Culture. MIT Press.





domenica 30 marzo 2025

Godimento Fallico e Godimento Femminile

Godimento Fallico e Godimento Femminile 


Nel Seminario XX - Encore (1972-73), Jacques Lacan introduce una distinzione fondamentale tra godimento fallico e godimento femminile, sottolineando che entrambi non sono rigidamente legati al sesso biologico. Sia uomini che donne possono accedere a entrambi i godimenti, sebbene in modalità differenti.


I. Il godimento fallico

Il godimento fallico (Φ(x)) si organizza attorno alla funzione fallica, regolata dal linguaggio e dalla logica del significante. È il godimento che trova misura e limite nella castrazione simbolica, condizione imprescindibile per l’accesso al desiderio e all’ordine simbolico. Lacan afferma:

> “Il godimento fallico è il solo godimento di cui l’uomo possa parlare” (Encore, p. 9).

Questo godimento è quantificabile e strutturato, inscritto nell’economia del significante e della mancanza. Esso opera secondo un principio di avere/non avere il fallo, che definisce la posizione soggettiva nel rapporto con l’Altro.


II. Il godimento femminile

Lacan introduce il godimento femminile come un godimento che eccede la funzione fallica, senza però negarla. Esso è “un godimento supplementare”, un godimento che va oltre la logica della mancanza e che sfugge alla simbolizzazione completa. Come scrive Lacan:

> “C’è un godimento che è proprio a colei che dice di essere una donna e che è oltre il fallo. Un godimento supplementare. Bisogna crederlo sulla parola di chi lo sperimenta. Non se ne sa nulla” (Encore, p. 69).

Il godimento femminile è associato alla logica del “non-tutto” (pas-tout), che si contrappone alla totalizzazione fallica. Per descriverlo, Lacan fa riferimento all’esperienza mistica, in particolare alla figura di Teresa d’Avila, il cui godimento è descritto come un’esperienza estatica (Encore, p. 71).


III. L’impossibilità del rapporto sessuale: non si può fare 1 di 2 e non si può fare 2 di 1

Questa distinzione tra i godimenti si lega alla doppia impossibilità formulata da Lacan:


1. Non si può fare 1 di 2 → Il rapporto sessuale non si scrive, perché non esiste una proporzione simbolica che articoli il godimento maschile e quello femminile in una relazione di complementarità stabile.


> “Il rapporto sessuale non esiste, poiché non c’è una formula che possa scriverlo” (Encore, p. 92).


2. Non si può fare 2 di 1 → Non si può creare una coppia armonica a partire dall’Uno, perché l’Uno è autosufficiente nel proprio godimento. Lacan sottolinea che l’Uno non ha bisogno dell’Altro per godere. Jean-Claude Milner, in L’Uno tutto solo, approfondisce questa logica, sottolineando come il godimento non trovi una mediazione nell’Altro, ma si configuri come un’esperienza solitaria e non articolabile secondo la logica della complementarità.

Questa doppia impossibilità rompe con l’idea di una complementarità tra i sessi e mostra come il godimento non si articoli in una relazione binaria, ma in una logica che eccede la semplice dualità maschio/femmina. Ogni soggetto si trova così a confrontarsi con il proprio godimento senza garanzie simboliche, inventando singolarmente il proprio modo di rapportarsi all’Altro.


Bibliografia


Lacan, J. (1975). Il Seminario, Libro XX: Encore (1972-1973). Torino: Einaudi.

Soler, C. (2003). Lacan, l’inconscio reinventato. Roma: Borla.

Miller, J.-A., & Di Ciaccia, A. (2012). L’Uno tutto solo. Milano: Raffaello Cortina.

Miller, J.-A. (2000). I paradigmi del godimento. Roma: Astrolabio.




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Complesso di Edipo

 Complesso di Edipo


Il complesso di Edipo secondo Lacan rappresenta una trasformazione fondamentale nella strutturazione del soggetto, in cui la sua identità e desiderio si costituiscono attraverso il passaggio dall’ordine immaginario a quello simbolico. Mentre per Freud il complesso di Edipo è un fenomeno psicologico che riguarda la fase di sviluppo psicosessuale del bambino, Lacan lo ripensa come un processo strutturale che si radica nell’ingresso del soggetto nel linguaggio e nell’ordine simbolico.

1. La Metafora Materna e la Funzione del Desiderio Materno

Lacan introduce il concetto di metafora materna come il primo passaggio nel complesso di Edipo. In questa fase iniziale, il bambino si trova in una relazione simbiotica con la madre, priva di una separazione chiara. Lacan descrive questa condizione come una fase primitiva in cui il soggetto non è ancora separato dal suo oggetto di desiderio, la madre. La relazione con la madre è centrale nel processo di formazione del desiderio, ma questa fusione non può essere mantenuta indefinitamente, poiché la madre rappresenta anche una mancanza che il bambino tenta di colmare. La madre, infatti, diventa simbolicamente il primo “Altro”, ma senza la figura paterna, il bambino rischia di restare prigioniero di un rapporto di simbiosi senza poter sviluppare una propria soggettività.

Lacan parla della madre come dell’oggetto del desiderio, ma questo desiderio è irraggiungibile e non può mai essere pienamente colmato. La madre è, per il bambino, la figura che rappresenta sia il desiderio che la mancanza, ma questa situazione non è sostenibile senza l'intervento simbolico di un terzo elemento, che permetta al bambino di distaccarsi e di entrare nell'ordine del linguaggio (Lacan, Écrits, 1966).

2. L'Intervento del Nome-del-Padre e la Legge della Separazione

L’introduzione della funzione paterna, che Lacan definisce attraverso il concetto di Nome-del-Padre, segna il secondo tempo del complesso di Edipo. Non si tratta del padre come figura concreta, ma come un significante che opera nell'ordine simbolico. Il padre, attraverso la funzione simbolica, rappresenta una Legge che impedisce al bambino di restare intrappolato nel desiderio materno, separandolo dall'oggetto primario e introducendo il principio di castrazione. Lacan definisce questo passaggio come l'ingresso nell'ordine simbolico, dove il bambino deve riconoscere che non può avere accesso completo al desiderio della madre.

Il padre simbolico agisce come un terzo, creando un intervallo tra il bambino e la madre, stabilendo la separazione. Questo atto di separazione non è una privazione fisica, ma un passaggio attraverso il Nome-du-Père, che funge da intervallo tra il bambino e il desiderio materno, creando la struttura del desiderio stesso. Il bambino, quindi, inizia a comprendere che l’oggetto del suo desiderio (la madre) è desiderato da un altro (il padre), e che la sua posizione è quella di un soggetto desiderante, non più un oggetto di desiderio (Lacan, Écrits, 1966).

3. La Castrazione Simbolica e l'Entrata nel Simbolico

Il terzo e ultimo momento del complesso di Edipo riguarda la castrazione simbolica. Questo non è un processo fisico, ma una presa di coscienza da parte del bambino che non può avere accesso illimitato al desiderio della madre. La castrazione simbolica rappresenta la consapevolezza che il desiderio è sempre segnato dalla mancanza. Il soggetto, attraverso questa consapevolezza, entra nel simbolico, un ordine di leggi e significati che regolano il desiderio e la realtà. Lacan definisce questa esperienza come il momento in cui il bambino accetta che il desiderio non possa essere mai completamente soddisfatto e, di conseguenza, si struttura come soggetto desiderante, situato nell’ordine del linguaggio e della cultura.

In questa fase, il soggetto riconosce la propria posizione nella rete simbolica: non è più al centro del desiderio della madre, ma si trova ad essere il soggetto del proprio desiderio. Il complesso di Edipo, quindi, non è semplicemente una questione psicologica di conflitto tra il desiderio di possedere la madre e l'autorità del padre, ma un passaggio cruciale che segna l'accesso del soggetto all'ordine simbolico, attraverso l'accettazione della castrazione come condizione del desiderio e della soggettività. Lacan sottolinea che il soggetto è sempre intrinsecamente segnato dalla mancanza, e il suo desiderio è strutturato proprio da questa assenza (Lacan, Écrits, 1966; Lacan, Le Séminaire, Livre V, 1957-1958).

Conclusioni: Il Complesso di Edipo come Struttura del Desiderio

Il complesso di Edipo, per Lacan, è una condizione fondamentale per la costituzione del soggetto e non si limita a un conflitto familiare, ma rappresenta il passaggio attraverso il quale il soggetto entra nell’ordine simbolico. In questo processo, il desiderio non è qualcosa che può essere completamente soddisfatto, ma è segnato dalla mancanza, che diventa la condizione per l’emergere del soggetto desiderante. Il padre, come significante simbolico, introduce il linguaggio e la Legge, separando il soggetto dalla fusione con la madre e creando la struttura del desiderio che organizza la sua psiche e il suo posto nel mondo sociale.

Bibliografia:

  • Lacan, J. (Écrits: A Selection). 1966.
  • Lacan, J. (Le Séminaire, Livre V: Les Formations de l'inconscient). 1957-1958.
  • Lacan, J. (Écrits). 1966.




Antigone e l’etica del Reale nel Seminario VII di Lacan

 L'Antigone di Sofocle e l’etica del Reale nel Seminario VII di Lacan


Nel Seminario VII – L’etica della psicoanalisi, Lacan affronta il tema dell’etica non nei termini di un codice morale normativo, ma come il rapporto del soggetto con il proprio desiderio. Antigone, figura centrale della tragedia di Sofocle, diventa per Lacan l’emblema del soggetto che non arretra davanti al proprio desiderio, portandolo fino alle estreme conseguenze. La sua vicenda si situa esattamente nel punto in cui il desiderio si scontra con il limite della legge simbolica e con la dimensione del das Ding (la Cosa), concetto chiave del seminario.


Il desiderio assoluto e l’impossibilità della mediazione

Antigone è la figura di chi non si lascia sedurre dai compromessi della legge umana e non cede davanti alla possibilità di salvare la propria vita rinunciando al proprio atto. La sua decisione di dare sepoltura al fratello Polinice, sfidando il decreto di Creonte, non è motivata da un principio etico universale, ma da una fedeltà assoluta al proprio desiderio. Per Lacan, il suo gesto non si colloca nell’ambito del bene, ma piuttosto in quello di una posizione soggettiva estrema che la avvicina al limite del simbolico: "Antigone, nel suo splendore tragico, non rappresenta il bene, ma il desiderio spinto fino al punto di infrangere il limite della legge umana" (Lacan, 1986, p. 325).

Secondo Alenka Zupančič (2000), Antigone incarna l’"etica del reale", ossia la fedeltà a un desiderio che non può essere compromesso né negoziato. Per Zupančič, questa posizione è ciò che rende Antigone una figura paradigmatica dell’etica lacaniana, in contrasto con le concezioni morali tradizionali.


La Cosa e il sublime tragico

Lacan identifica Antigone come un personaggio che incarna il sublime tragico, ossia colui che si avvicina alla Cosa (das Ding), il nucleo di godimento che eccede la regolazione simbolica e che rappresenta il reale impossibile. Il desiderio di Antigone non è soggetto alle leggi della città e non può essere negoziato o attenuato da compromessi. Questa intransigenza è ciò che la rende sublime e allo stesso tempo la conduce inevitabilmente alla morte.

Žižek (2006), in The Parallax View, sviluppa questa lettura lacaniana di Antigone e la collega alla dialettica del potere e della legge, sottolineando come il suo atto riveli una faglia nella struttura dell’ordine simbolico: "Antigone non si oppone semplicemente alla legge dello Stato, ma espone il punto in cui questa legge si rivela inconsistente rispetto al Reale del desiderio" (Žižek, 2006, p. 150).

Joan Copjec (2002) approfondisce questa prospettiva, mostrando come Antigone sia una figura che sfida la concezione patriarcale della legge attraverso la sua posizione di assoluta alterità rispetto al potere sovrano. In Imagine There's No Woman, Copjec analizza il modo in cui la tragedia di Antigone mette in scena un desiderio che eccede le coordinate del simbolico e si avvicina al reale.


L’etica della psicoanalisi e la lezione di Antigone

Lacan propone, attraverso Antigone, un’etica che non è quella della morale kantiana del dovere né quella utilitarista del bene comune, ma un’etica del desiderio. Il problema etico fondamentale per la psicoanalisi è fino a che punto il soggetto è disposto a sostenere il proprio desiderio senza tradirlo. Il desiderio non è semplicemente un impulso da seguire ciecamente, ma una posizione che implica un’assunzione di responsabilità e il confronto con il limite.

Bruce Fink (1995) sottolinea che la posizione di Antigone rivela la tensione tra il soggetto e il simbolico: la sua fedeltà al desiderio la porta a una zona di esclusione che segna il punto di rottura della legge. Secondo Roberto Harari (2001), Antigone non rappresenta solo la ribellione contro la norma, ma l’emergere di un’angoscia fondamentale che deriva dalla sua vicinanza al reale.

Judith Butler e Catherine Malabou (2017) discutono il sublime tragico in Antigone, esplorando come la sua figura possa essere riletta attraverso il prisma della decostruzione e della differenza sessuale. Antigone, in questa prospettiva, non è solo un soggetto etico, ma anche una figura che mette in crisi la stessa nozione di legge simbolica.


Conclusione

Attraverso la lettura di Antigone, Lacan mostra che l’etica della psicoanalisi non è una guida per distinguere il bene dal male, ma una riflessione sulla fedeltà al desiderio. Antigone è la figura che ci insegna che la vera tragedia non è nel destino imposto dall’esterno, ma nella scelta di restare fedeli a ciò che ci definisce come soggetti, anche quando ciò significa sfidare l’ordine stabilito e pagare il prezzo estremo della nostra decisione.


Bibliografia


Butler, J., Malabou, C. (2017). Vous avez dit "sublime"?. Paris: Bayard.

Copjec, J. (2002). Imagine There's No Woman: Ethics and Sublimation. Cambridge, MA: MIT Press.

Fink, B. (1995). The Lacanian Subject: Between Language and Jouissance. Princeton, NJ: Princeton University Press.

Harari, R. (2001). Lacan’s Seminar on Anxiety: An Introduction. New York: Other Press.

Lacan, J. (1986). Il Seminario, Libro VII: L’etica della psicoanalisi (1959-1960). Torino: Einaudi.

Miller, J.-A. (2000), L'Orientation Lacanienne

Recalcati, M. (2013). Il complesso di Telemaco. Milano: Feltrinelli.

Sofocle. (2010). Antigone. Milano: Rizzoli.

Žižek, S. (2006). The Parallax View. Cambridge, MA: MIT Press.

Zupančič, A. (2000). Ethics of the Real: Kant, Lacan. London: Verso.



sabato 29 marzo 2025

Il Ritorno del Nome-del-Padre: Sovranismo, Big Tech e Post-Democrazia nella Crisi della Globalizzazione Neoliberale





Introduzione

Panayotis Kantzas, nelle sue Lezioni Fiorentine (2020), sviluppa un'analisi della crisi contemporanea, evidenziando come il crollo del significante padrone (S1) nel mondo occidentale abbia lasciato un vuoto simbolico che oggi viene riempito da nuove forme di sovranismo, populismo e identitarismo. Questi fenomeni emergono come tentativi di ri-territorializzazione di fronte alla dissoluzione delle strutture politiche e sociali tradizionali sotto l’impatto della globalizzazione neoliberista. Tuttavia, Kantzas sottolinea che questo ritorno del Nome-del-Padre avviene in forme mutate, spesso adattandosi alle nuove condizioni economiche e tecnologiche imposte dal capitalismo digitale.

Il Declino del Nome-del-Padre e la Crisi Occidentale

Lacan (1966) ha individuato nel Nome-del-Padre l'elemento regolatore del campo simbolico e del legame sociale. La sua progressiva dissoluzione ha lasciato spazio a un disordine generalizzato, simile a quello descritto da Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista (1848), in cui il capitalismo dissolve ogni legame preesistente. Kantzas (2020) legge questa dinamica in relazione alla crisi della sovranità, sottolineando come l’indebolimento delle istituzioni nazionali abbia favorito una nuova domanda di ordine, spesso declinata in forme reazionarie.

La crisi dell'Occidente si manifesta nella perdita di riferimenti simbolici unificanti, con conseguenze politiche e sociali di ampia portata. L'erosione della sovranità nazionale e l'affermazione di un'economia globalizzata hanno esacerbato il senso di smarrimento collettivo, portando a una ricerca di nuovi significati. Il populismo e il sovranismo si inseriscono in questa dinamica, proponendo un ritorno a strutture di identificazione forti che possano colmare il vuoto lasciato dalla dissoluzione dell'ordine simbolico tradizionale.

Sovranismo e Identitarismo come Nuove Forme del Nome-del-Padre

Il sovranismo si presenta come un tentativo di ripristinare un principio unificante in un mondo che ha perso i suoi riferimenti tradizionali. Questo processo si intreccia con l’identitarismo, che cerca di rafforzare appartenenze collettive in risposta alla frammentazione sociale. Crouch (2004) ha descritto il fenomeno della post-democrazia come una condizione in cui le strutture democratiche esistono formalmente, ma il potere reale è sempre più concentrato nelle mani di élite economiche e tecnologiche.

Il fenomeno del sovranismo non è solo una risposta alla crisi economica, ma anche un effetto della trasformazione del discorso politico. Trump e altri leader populisti hanno capitalizzato sulla crisi del liberalismo globale, promettendo un ritorno a un ordine più stabile, spesso attraverso la retorica della "grandezza nazionale". Kantzas (2020) osserva che questo processo può essere interpretato come un tentativo di ristabilire il Nome-del-Padre in una forma che, sebbene apparentemente restauratrice, è in realtà profondamente mutata e adattata al nuovo contesto mediatico e tecnologico.

Big Tech e la Logica del Capitalismo Digitale

Le grandi multinazionali tecnologiche incarnano la logica dello sviluppo capitalistico nell’era digitale. Negri e Hardt (2000) hanno evidenziato come il capitalismo contemporaneo si basi su una forma di biopolitica che supera i confini degli stati-nazione. Musk, con le sue visioni transumaniste e di colonizzazione spaziale, e Trump, con il suo populismo digitale, rappresentano due lati della stessa medaglia: il tentativo di ridefinire un nuovo ordine globale attraverso strumenti tecnologici e politiche sovraniste.

La logica dello sviluppo capitalistico ha prodotto un'espansione senza precedenti delle Big Tech, che oggi esercitano un controllo senza precedenti sulle economie globali e sulle dinamiche politiche. Il modello economico delle piattaforme digitali ha trasformato il mercato del lavoro, creando una nuova forma di subordinazione basata su algoritmi e intelligenza artificiale. Kantzas (2020) osserva che le Big Tech stanno assumendo un ruolo sempre più simile a quello delle istituzioni tradizionali, ridefinendo il concetto stesso di sovranità economica e politica.

Automazione, Reddito di Cittadinanza e la Sfida della Nuova Politica Democratica

L’automazione, accelerata dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale, pone interrogativi fondamentali sulla redistribuzione del reddito e sulla sostenibilità dell’attuale modello economico. Harari (2018) e Mazzucato (2018) hanno discusso la necessità di un nuovo contratto sociale basato su misure come il reddito di cittadinanza. Kantzas (2020) suggerisce che l’unica via per evitare un ritorno autoritario del Nome-del-Padre sia una politica democratica capace di integrare le trasformazioni tecnologiche in una logica di cooperazione internazionale.

L’emergere di nuove forme di lavoro e la crescente automazione rendono necessario un ripensamento del sistema di welfare. La politica democratica occidentale deve affrontare la sfida di bilanciare l’innovazione con la protezione sociale, evitando che la disoccupazione tecnologica alimenti ulteriormente il malcontento populista. Il reddito di cittadinanza potrebbe rappresentare una soluzione parziale, ma deve essere accompagnato da una politica di redistribuzione economica più ampia e da una regolamentazione efficace delle Big Tech.

Conclusione

Il mondo multipolare che emerge dalla crisi della globalizzazione neoliberista impone un ripensamento delle strutture politiche e sociali. Se il sovranismo e l’identitarismo rappresentano risposte reazionarie alla crisi del significante padrone, la sfida della politica democratica occidentale consiste nel risignificare le radici culturali dell’Occidente in un’ottica di coordinazione piuttosto che di subordinazione. Come suggerisce Kantzas (2020), la vera alternativa è costruire un nuovo ordine simbolico capace di integrare innovazione tecnologica e giustizia sociale.


Bibliografia

  1. Badiou, A. (2005). La scienza e la verità. Milano: Feltrinelli.
  2. Crouch, C. (2004). Post-Democracy. Cambridge: Polity Press.
  3. Foucault, M. (1976). La volontà di sapere. Torino: Einaudi.
  4. Harari, Y. N. (2018). 21 Lessons for the 21st Century. New York: Spiegel & Grau.
  5. Kantzas, P. (2011-2025). La polis senza Antigone e senza Creonte: Lezioni FiorentineUnifi Facoltà di Scienze Politiche.
  6. Lacan, J. (1966). Écrits: A Selection. Trad. Alan Sheridan. New York: Norton & Company.
  7. Marx, K., & Engels, F. (1848). Manifesto del Partito Comunista.
  8. Mazzucato, M. (2018). The Value of Everything: Making and Taking in the Global Economy. London: Penguin.
  9. Negri, A., & Hardt, M. (2000). Empire. Cambridge, MA: Harvard University Press.
  10. Zizek, S. (2012). The Year of Dreaming Dangerously. London: Verso.


giovedì 27 marzo 2025

La Logica del Fantasma: Struttura, Funzione e Trasformazione





La logica del fantasma in Lacan si colloca al crocevia tra desiderio, godimento e soggettivazione. Non è solo un concetto teorico, ma un dispositivo che organizza l’esperienza del soggetto e regola il suo rapporto con l’Altro e con l’oggetto del desiderio.

1. Struttura del Fantasma: Il Matema di Lacan

Lacan formalizza il fantasma con il matema:

$◇a

Dove:

$ (soggetto barrato): il soggetto dell’inconscio, segnato dalla mancanza strutturale e dall’impossibilità di coincidere con se stesso. È il soggetto che emerge solo nella relazione con il significante.

a (oggetto piccolo a): la causa del desiderio, ciò che il soggetto cerca nel rapporto con l’Altro, ma che rimane sempre sfuggente. L'oggetto a non è l’oggetto del desiderio in senso classico (qualcosa da possedere), bensì la mancanza incarnata, la parte di godimento perduta che il soggetto cerca di recuperare.

$◇a: la relazione tra il soggetto e l’oggetto a, che è sempre una costruzione fantasmaticamente mediata.


Il fantasma è quindi una matrice attraverso cui il soggetto dà forma al proprio desiderio, evitando il confronto diretto con la mancanza dell’Altro. Esso permette di sostenere il desiderio senza sprofondare nell’angoscia della sua radicale impossibilità.

2. Funzione del Fantasma: Sostegno del Desiderio e Regolazione del Godimento

Il fantasma ha una doppia funzione:

1. Fornisce al soggetto una scena in cui situare il proprio desiderio → Il soggetto si identifica con un certo ruolo nel fantasma, che gli permette di mantenere un rapporto operativo con l’Altro e con il proprio godimento.


2. Regola il godimento → Il fantasma stabilisce i limiti del godimento possibile per il soggetto, evitando un eccesso che porterebbe all’angoscia o al disfacimento dell’identità soggettiva.


Il godimento che il fantasma permette non è mai pieno, ma è sempre parziale, dosato, mediato. Il godimento assoluto, infatti, equivarrebbe all'annullamento del soggetto.


3. Il Fantasma e la Realtà: Un Filtro per il Soggetto

Per Lacan, il fantasma non è un’illusione da cui il soggetto può semplicemente liberarsi. È piuttosto una struttura che dà forma alla sua realtà psichica. Infatti, la realtà soggettiva è sempre una realtà fantasmaticamente filtrata.

Lacan distingue tra:

Realtà simbolica → Il mondo regolato dal significante e dalla Legge dell’Altro.

Realtà immaginaria → La costruzione di senso basata sulle identificazioni e sulle immagini.

Reale → Ciò che eccede il simbolico e l'immaginario, l'impossibile, il punto di frattura della realtà.


Il fantasma funge da interfaccia tra il soggetto e il reale, permettendo al soggetto di avere un rapporto vivibile con il mondo. Tuttavia, quando il fantasma si incrina, il soggetto può trovarsi esposto a un’intrusione del reale, con effetti di angoscia o di scompaginamento psichico.

4. La Traversata del Fantasma: Dall’Identificazione alla Caduta

Il percorso analitico lacaniano mira, tra le altre cose, alla traversata del fantasma (traversée du fantasme). Questo significa:

1. Portare il soggetto a riconoscere il fantasma che struttura il suo desiderio → Il soggetto prende coscienza della sceneggiatura inconscia che ripete nella sua vita.


2. Disidentificarsi dal proprio ruolo fantasmatico → Si tratta di smettere di essere prigionieri della scena fantasmagorica, accettando la propria mancanza senza il bisogno di colmarla con un godimento illusorio.


3. Confrontarsi con il reale al di là del fantasma → Questo può avvenire solo quando il soggetto rinuncia alla ricerca di un oggetto che possa definitivamente completarlo.


Il punto cruciale della traversata del fantasma è che il soggetto non si libera dal desiderio, ma piuttosto cambia il suo rapporto con esso. Non è più schiavo di una sceneggiatura inconscia, ma può assumere un rapporto più libero e meno ripetitivo con il proprio desiderio.


5. Applicazioni della Logica del Fantasma

a) Nella Clinica

Nella clinica, il fantasma si manifesta come un copione ripetitivo che il soggetto mette in scena nelle sue relazioni e nei suoi sintomi. Per esempio, nella nevrosi ossessiva il fantasma è spesso costruito attorno a una relazione di dominio e sottomissione, mentre nell'isteria si articola attorno al desiderio insoddisfatto e alla domanda rivolta all’Altro.

b) Nel Sociale e nella Politica

Si può pensare la logica del fantasma anche su scala collettiva: le ideologie politiche e le narrazioni sociali spesso funzionano come fantasmi che organizzano il desiderio collettivo e regolano il godimento sociale. Per esempio:

Il sogno americano è un fantasma che organizza il desiderio di successo e di realizzazione personale.

Le ideologie totalitarie funzionano come fantasmi che promettono una pienezza immaginaria attraverso l’identificazione con il leader o con la causa.

Il neoliberismo si fonda su un fantasma di godimento infinito attraverso il consumo e il successo individuale.


Questi fantasmi regolano il rapporto tra il soggetto e il potere, tra il desiderio e l’ordine sociale.


Conclusione: La Logica del Fantasma tra Sostegno e Limite

La logica del fantasma è centrale nella teoria lacaniana perché mostra come il soggetto non sia mai in un rapporto diretto con la realtà, ma sempre mediato da una costruzione inconscia. Il fantasma è ciò che dà forma al desiderio, ma è anche ciò che lo imprigiona in una ripetizione.

La traversata del fantasma non significa abolire il desiderio, ma renderlo più fluido, meno subordinato a una sceneggiatura inconscia rigida. È in questo processo che si gioca la possibilità di un cambiamento reale per il soggetto, sia a livello individuale che collettivo.


Edipo Re di Sofocle. La lettura di Lacan





Lacan rielabora il mito di Edipo Re di Sofocle all'interno di un quadro teorico che va oltre la lettura freudiana del complesso di Edipo. Per Freud, il complesso di Edipo è il conflitto che si verifica nell’infanzia, quando il bambino desidera la madre e percepisce il padre come un rivale. In questa visione, la risoluzione del complesso consente al bambino di entrare nell’ordine simbolico e di sviluppare il suo desiderio in modo adeguato. Lacan, tuttavia, rilegge il mito di Edipo come un esempio della struttura del soggetto nel linguaggio, enfatizzando come il desiderio umano sia sempre catturato dal simbolico e dalla mancanza strutturale che lo accompagna.


1. Il destino significante e l'anticipazione simbolica

Lacan sottolinea che la tragedia di Edipo non è solo il risultato di un conflitto edipico, ma il simbolo della condizione del soggetto parlante, che è sempre già strutturato da una rete di significanti. Il destino di Edipo, infatti, è scritto ancor prima della sua nascita, attraverso la profezia che lo condanna a uccidere il padre e sposare la madre. Questo segna l’ingresso del soggetto nel simbolico, dove la sua esistenza è determinata dalla presenza di significanti precedenti alla sua volontà.

Il fatto che Edipo tenti di sfuggire al suo destino, allontanandosi da Corinto, non fa che realizzarlo. La sua azione dimostra che il soggetto non è mai padrone del proprio destino, ma è sempre già immerso in una trama significante che lo precede. Lacan esprime questa idea attraverso il concetto di anticipazione simbolica: il significante del destino (la profezia) struttura la vita del soggetto ancor prima che egli possa prendere una decisione. Il soggetto è sempre "parlato" dal significante, e il suo tentativo di sfuggire a questo destino ne segna la realizzazione.


2. Il Nome-del-Padre e la sua funzione simbolica

Nel mito di Edipo, la figura del padre è centrale. Lacan interpreta il Nome-del-Padre come il significante che introduce il soggetto nell'ordine simbolico, regolando il desiderio e limitando l’accesso alla madre. Il Nome-del-Padre è il principio di castrazione, ossia la separazione del desiderio della madre e la sua incanalamento in un ordine simbolico, che impedisce l’"infinità" del desiderio e favorisce la strutturazione del soggetto come "mancante".

Nel caso di Edipo, la funzione del padre è presente, ma è dislocata. Edipo non sa chi è suo padre, e quindi non può riconoscere la funzione paterna in modo simbolico. Questo disallineamento impedisce a Edipo di entrare pienamente nel simbolico e di riconoscere il proprio desiderio. La sua tragedia non è causata dall'assenza del padre, ma dal fatto che il Nome-del-Padre è "velato" o "occluso" da una catena significante che non gli permette di identificarlo come tale fino al momento della rivelazione.


3. La scoperta del desiderio e la castrazione simbolica

Quando Edipo scopre la verità sulla sua origine, si confronta con la propria castrazione simbolica. La castrazione, per Lacan, non è tanto una perdita fisica, ma un momento fondamentale nella strutturazione del soggetto, un momento in cui il soggetto riconosce di non essere "padrone" del proprio desiderio. La scoperta di Edipo di essere il parricida e l'incestuoso segna il momento in cui si scontra con il limite imposto dal Nome-del-Padre, che è la verità sulla sua mancanza.

Il gesto simbolico di Edipo, che si acceca per punirsi, è il riconoscimento della sua verità come soggetto mancante. La cecità non è solo fisica, ma simbolica: Edipo è "cieco" rispetto al proprio desiderio fino a che non si trova di fronte alla verità tragica. Questo è il momento in cui il soggetto si confronta con la mancanza strutturale che lo costituisce, e l’unica risposta che trova è un gesto di annullamento (l’accecamento).


4. Il sapere e la verità del desiderio

Un altro punto chiave della lettura lacaniana riguarda la relazione tra Edipo e il sapere. Quando Edipo risolve l'enigma della Sfinge, crede di essere in possesso del sapere, ma la verità che rivela non è una verità che il soggetto possiede. Lacan introduce il concetto di soggetto supposto sapere: il soggetto non è mai in grado di possedere completamente il sapere, ma è sempre "parlato" dal sapere dell’Altro. In questo caso, la Sfinge pone un enigma che Edipo risolve correttamente, ma che riguarda direttamente lui: la risposta all’enigma è la descrizione della vita umana, di Edipo stesso. Tuttavia, la verità che Edipo scopre è troppo tardi, e ciò che rivela è solo il senso tragico del suo destino.

Questa scoperta segna il confronto con il vuoto significante, il momento in cui il soggetto, cercando la verità del proprio desiderio, si scontra con una mancanza che non può mai essere colmata. La verità di Edipo non è una verità piena e soddisfacente, ma una verità che lo conduce a una condizione di incompletamento e di accecamento simbolico.


5. Edipo come paradigma del soggetto parlante

Il mito di Edipo, nella lettura lacaniana, non è solo la storia di un conflitto edipico, ma un esempio di come il soggetto si struttura nel linguaggio. Edipo rappresenta il soggetto moderno, quello che cerca la verità sul proprio desiderio, ma che scopre solo la mancanza che lo costituisce. Il suo dramma non è solo quello di aver compiuto il parricidio e l'incesto, ma quello di essere un soggetto che si confronta con la propria condizione di mancanza, senza mai poterla colmare.

Lacan, dunque, legge il mito di Edipo come il paradigma del soggetto che cerca di comprendere il proprio desiderio, ma che, nel farlo, si scontra con una struttura simbolica che lo precede, e che lo limita. La tragedia di Edipo non è tanto la realizzazione di un errore, ma l’inevitabilità di un destino che è scritto nel linguaggio e nel simbolico, ben al di là del controllo o della volontà del soggetto.


Conclusione

La lettura lacaniana di Edipo Re trasforma il mito in una riflessione sulla struttura del desiderio e sul destino del soggetto nel linguaggio. Edipo non è solo un soggetto che cerca di risolvere il proprio complesso di Edipo, ma un soggetto che si confronta con l’impossibilità di affermare un significato definitivo. La sua tragedia è quella di un soggetto che, pur attraversando il simbolico, non riesce mai a riconoscere pienamente il proprio posto in esso, trovando solo la verità della propria mancanza.


Bibliografia:

Lacan tratta di Edipo Re in diversi momenti del suo insegnamento, ma i riferimenti più significativi si trovano nei seguenti seminari e scritti:


1. Seminario III - Le psicosi (1955-1956)

Qui Lacan distingue la forclusione del Nome-del-Padre nelle psicosi dalla dinamica edipica, chiarendo che in Edipo Re il problema non è la forclusione del padre, ma la sua mancata identificazione.


2. Seminario V - Le formazioni dell'inconscio (1957-1958)

Approfondisce il ruolo della funzione paterna e dell’effetto di significante nella costruzione del soggetto. Edipo è un esempio della potenza del significante: il suo destino è scritto nella profezia prima ancora che lui possa determinarlo.


3. Seminario VI - Il desiderio e la sua interpretazione (1958-1959)

È uno dei testi più importanti su Edipo Re. Lacan analizza Edipo come soggetto del desiderio e della mancanza. Mostra come la tragedia di Edipo non sia solo legata alla realizzazione dell'incesto e del parricidio, ma al suo confronto con la verità del proprio desiderio.


4. Seminario VII - L’etica della psicoanalisi (1959-1960)

Qui Lacan collega Edipo alla questione della hybris e del rapporto tra sapere e verità. L'enigma della Sfinge è visto come un momento chiave in cui Edipo crede di sapere, ma in realtà ignora la verità fondamentale su se stesso.


5. Scritti - Il mito individuale del nevrotico (1953)

Anche se non interamente dedicato a Edipo Re, in questo testo Lacan esplora come il mito edipico sia un mito strutturale del soggetto nevrotico, mostrando che la nevrosi riproduce la dinamica del desiderio edipico in una forma sintomatica.


6. Seminario XVII - Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970)

Qui Lacan rivede la funzione del Nome-del-Padre e lo rapporta alla logica dei discorsi. Sebbene non si concentri esplicitamente su Edipo, rielabora il modo in cui il potere del padre viene sostituito da nuove forme di organizzazione del desiderio.




lunedì 24 marzo 2025

Pratica Istituzionale della Disabilità Intellettiva in una Prospettiva Lacaniana


 




L’approccio istituzionale alla disabilità intellettiva, quando orientato dalla psicoanalisi lacaniana, si distanzia dai modelli meramente riabilitativi o comportamentali, per situarsi in un'ottica che riconosce il soggetto nel suo rapporto con il desiderio e il godimento. Il lavoro di Antonio Ciaccia, unito a quello di Basaglia, Mannoni, Oury e Recalcati, fornisce strumenti fondamentali per pensare l’istituzione non come luogo di normalizzazione, ma come spazio di soggettivazione.


1. L’istituzione come luogo di ospitalità piuttosto che di adattamento

La psichiatria istituzionale classica e i modelli educativi tradizionali tendono a inscrivere il soggetto con disabilità in un discorso normalizzante, dove l’obiettivo è il massimo adattamento possibile alle norme sociali.

Basaglia, nel suo lavoro di critica alla psichiatria manicomiale, ha mostrato come l’istituzione possa facilmente diventare un dispositivo di segregazione, più che di cura o educazione. La lezione di Basaglia è stata ripresa in ambito educativo da Mannoni, che ha messo in evidenza come il bambino con disabilità intellettiva non debba essere considerato solo in termini di deficit, ma piuttosto rispetto alla sua posizione soggettiva nel legame con l’Altro.

In questa prospettiva, l’istituzione può funzionare secondo due logiche:

  1. Una logica di normalizzazione, che cerca di eliminare le differenze e rendere il soggetto "funzionale".
  2. Una logica di ospitalità basagliana, che accoglie il "resto inassimilabile" del soggetto e ne permette l’emergere.

Seguendo la seconda prospettiva, l’istituzione si configura non come un luogo di addestramento sociale, ma come un contesto in cui il soggetto possa trovare un posto nel legame sociale senza essere ridotto alla sua disabilità.


2. Supplenza simbolica e Nome-del-Padre nella disabilità intellettiva

Nell’esperienza istituzionale, spesso emerge che il soggetto con disabilità intellettiva fatica a situarsi nel registro simbolico. Recalcati, riprendendo Lacan, ha sottolineato come, in alcuni casi, la disabilità intellettiva sia associata a una carente trasmissione del Nome-del-Padre, che lascia il soggetto in una condizione di smarrimento rispetto alla legge simbolica e al desiderio.

L’istituzione può allora operare come supplenza simbolica, fornendo punti di ancoraggio che aiutino il soggetto a strutturarsi. Questo può avvenire attraverso:

  • Rituali e strutture quotidiane, che diano un riferimento simbolico senza irrigidirsi in pratiche disciplinari.
  • Un lavoro di parola e ascolto, che permetta al soggetto di esprimere il proprio rapporto con l’Altro senza costringerlo in schemi prestabiliti.
  • Uno spazio per l’elaborazione del desiderio, in cui il soggetto possa sperimentare forme di espressione personale.

Come sottolineato da Oury, nel lavoro della clinica istituzionale, la funzione dell’istituzione è quella di costruire un ambiente che dia sostegno simbolico, senza per questo imporsi come una struttura gerarchica rigida.


3. Il gruppo come dispositivo terapeutico e pedagogico

Uno degli strumenti più importanti nella pratica istituzionale della disabilità intellettiva è il gruppo, che può essere un luogo di soggettivazione fondamentale.

Ciaccia e Oury hanno entrambi lavorato sull’idea che il gruppo possa funzionare come un dispositivo capace di accogliere il soggetto, permettendo una rielaborazione del suo rapporto con il desiderio e il godimento. Questo avviene perché il gruppo offre:

  • Uno spazio di parola condivisa, che rompe l’isolamento e permette al soggetto di riconoscersi nell’Altro.
  • Un luogo di identificazione e differenziazione, in cui il soggetto può costruire un posto simbolico senza essere ridotto a una categoria diagnostica.
  • Un ambiente che non impone un modello rigido, ma accoglie la singolarità del soggetto nel suo rapporto con la legge simbolica.

Nel lavoro di gruppo, si evita così la logica dell’"inclusione forzata" tipica di certi modelli educativi, dove il soggetto deve adattarsi a schemi predefiniti, e si lascia invece spazio all’elaborazione del desiderio e del godimento.


4. Il rischio della funzionalizzazione e la lezione di Basaglia

Uno dei pericoli della pratica istituzionale è quello di trasformare la disabilità in una questione di efficienza e adattamento. Come sottolineava Basaglia, l’istituzione rischia di operare secondo una logica di controllo sociale, più che di accoglienza del soggetto.

Questo rischio si manifesta in vari modi:

  • L’ossessione per l’autonomia funzionale, che spinge il soggetto a conformarsi a standard di produttività.
  • La riduzione della disabilità a un problema medico, eliminando la dimensione soggettiva.
  • L’imposizione di obiettivi educativi standardizzati, che non tengono conto della singolarità del soggetto.

Invece, una pratica istituzionale orientata dalla psicoanalisi dovrebbe:

  • Accogliere il soggetto nella sua specificità, senza cercare di renderlo "normale".
  • Creare spazi di espressione, in cui il soggetto possa trovare una propria modalità di essere nel legame sociale.
  • Lavorare sulla dimensione del desiderio, senza ridurre l’intervento educativo a un training comportamentale.


5. L’istituzione come dispositivo di soggettivazione

Seguendo la lezione di Basaglia, Mannoni, Oury e Ciaccia, possiamo pensare l’istituzione non come un luogo di addestramento, ma come uno spazio che permette al soggetto di esistere nel desiderio dell’Altro.

Ciò significa:

  • Non imporre un modello di normalizzazione, ma lasciare spazio alla costruzione soggettiva.
  • Riconoscere il valore del godimento e della singolarità, senza ridurli a un problema di gestione.
  • Sostenere il legame sociale, senza forzare l’inclusione in schemi rigidi.

Recalcati, nella sua elaborazione dell’eredità lacaniana in ambito educativo, sottolinea come l’educazione non debba essere un adattamento del soggetto alla norma, ma un incontro con il desiderio.

L’istituzione, dunque, non è solo un luogo di cura o di educazione, ma un dispositivo di soggettivazione in cui il soggetto con disabilità possa trovare un posto nel mondo senza essere ridotto a un oggetto da gestire.


Bibliografia

  • Basaglia, F. (1968). L'istituzione negata. Torino: Einaudi.
  • Di Ciaccia, A. (2015). La pratica dell’istituzione nel lavoro psicoanalitico. Milano: Mimesis.
  • Lacan, J. (1966). Écrits. Paris: Seuil.
  • Mannoni, M. (1973). Il bambino ritardato e la madre. Torino: Einaudi.
  • Oury, J. (2001). Il collettivo terapeutico. Milano: Raffaello Cortina.
  • Recalcati, M. (2014). L'ora di lezione. Torino: Einaudi.
  • Tosquelles, F. (1986). Psichiatria istituzionale e psicoterapia. Roma: Borla.

mercoledì 19 marzo 2025

L'evaporazione del Nome-del-Padre




Lacan descrive l’evaporazione del Nome-del-Padre come il declino della funzione simbolica che per secoli ha ordinato il desiderio e garantito la coesione del legame sociale. Non si tratta di una semplice scomparsa, ma di una trasformazione profonda: il Nome-del-Padre perde il suo carattere unificante, lasciando il soggetto privo di un riferimento stabile. Questo genera disorientamento e apre la strada a nuove modalità di organizzazione del sociale, spesso caratterizzate da segregazione e da un godimento slegato da un ordine comune.

1. La crisi del legame sociale e la segregazione

Lacan individua nella segregazione una delle principali conseguenze di questa crisi. Venendo meno un significante universale capace di tenere insieme le differenze, il sociale si riorganizza in gruppi chiusi basati su appartenenze etniche, religiose o ideologiche. Se da un lato questo risponde al bisogno di identificazione, dall’altro produce rigidità e conflitti, impedendo un legame fondato sulla coordinazione piuttosto che sulla subordinazione.

Parallelamente, il controllo sociale si sposta dalla Legge simbolica a forme più impersonali di regolazione: la burocrazia, la tecnologia e l’economia diventano i nuovi dispositivi che organizzano il vivere collettivo, ma senza offrire un punto di riferimento simbolico capace di orientare il desiderio.

2. Le supplenze al Nome-del-Padre

L’evaporazione del Nome-del-Padre non lascia un vuoto assoluto, ma fa emergere diverse supplenze, che tentano di colmare l’assenza di un principio ordinatore:

  • Identitarie: l’appartenenza a gruppi ideologici, nazionali o religiosi assume una funzione totalizzante, offrendo un punto di riferimento rigido e dogmatico.
  • Tecnocratiche: il sociale viene regolato attraverso il controllo amministrativo e algoritmico, che governa i soggetti come utenti piuttosto che come desideranti.
  • Sintomatiche: il soggetto, privo di un ordine simbolico chiaro, si appoggia su sintomi individuali e collettivi (dipendenze, consumi compulsivi, ossessioni identitarie) per trovare un punto di tenuta.

3. Il discorso analitico come alternativa

Lacan non propone di restaurare il Nome-del-Padre nelle sue forme tradizionali, ma individua nel discorso analitico una possibile via di supplenza:

  • Non impone un nuovo significante padrone universale, ma sostiene l’elaborazione singolare del desiderio.
  • Non si basa sulla segregazione, ma su una logica di coordinazione tra differenze, evitando sia l’omogeneizzazione forzata sia la frammentazione radicale.

Il discorso analitico, quindi, non offre un nuovo Nome-del-Padre nel senso classico, ma permette al soggetto di costruire un rapporto con il desiderio che non dipenda da un’autorità imposta dall’alto.

4. Verso nuovi Nomi-del-Padre?

L’evaporazione del Nome-del-Padre non implica la sua scomparsa definitiva, ma la necessità di ripensarne la funzione. La sfida del presente è trovare nuovi modi per organizzare il legame sociale, senza cadere né nella nostalgia di un’autorità perduta né nella dissoluzione completa del simbolico. Se emergeranno nuovi Nomi-del-Padre, essi dovranno essere capaci di coniugare libertà e appartenenza, creando legami che coordinino le differenze senza ridurle a una logica di esclusione o dominio.

sabato 15 marzo 2025

Il sintomo e i suoi falsi nomi: dalla nominazione alla soggettivazione


Se il sintomo è ciò che nel soggetto resiste all’ordine simbolico dato—qualcosa che non si lascia del tutto assimilare dalle coordinate del discorso—i suoi falsi nomi sono quei tentativi di addomesticarlo, di ridurlo a un significato già pronto. Il sintomo è una scrittura opaca, che il soggetto porta nel corpo e nel linguaggio; i suoi falsi nomi sono i modi in cui il discorso dominante cerca di tradurlo in qualcosa di leggibile, spesso sottraendogli la sua funzione soggettiva.

Ma perché il sintomo viene sempre nominato in modo falso? Perché non si può dargli un nome una volta per tutte? Il punto è che il sintomo non è semplicemente un disturbo, un deficit o un errore: è un modo con cui il soggetto si tiene nel mondo, un modo di fare legame con l’Altro. La questione non è eliminarlo, ma riconoscere in esso una logica, un possibile uso.


1. Il falso nome come riduzione clinica: dal DSM alla neutralizzazione del soggetto

Nella clinica psichiatrica standard, il sintomo è nominato attraverso categorie diagnostiche: depressione, disturbo ossessivo-compulsivo, ADHD, autismo, schizofrenia… Questi nomi non sono falsi nel senso che siano completamente sbagliati, ma lo diventano quando funzionano come etichette che inchiodano il soggetto, senza lasciare spazio alla sua singolarità.

Ad esempio, se un bambino con difficoltà di apprendimento viene nominato “dislessico”, questa nominazione può aprire a strumenti di supporto, ma può anche chiudere un’altra possibilità: quella di interrogare cosa significa per lui quel blocco nel leggere e nello scrivere. È un problema cognitivo o una forma di rifiuto dell’Altro che gli impone il linguaggio? È un deficit o una modalità sintomatica di resistenza?

Il rischio di questa nominazione clinica è che il sintomo venga trattato come un malfunzionamento da correggere, anziché come un elemento con un senso da decifrare.


2. Il falso nome pedagogico: l’adattamento forzato

Nel campo educativo, il sintomo viene spesso rinominato in funzione dell’integrazione sociale: comportamento problematico, iperattività, difficoltà relazionali, bisogno educativo speciale… Questi nomi sono strumenti operativi, ma possono diventare falsi nomi quando mirano solo ad adattare il soggetto alle regole dell’istituzione, ignorando la sua struttura soggettiva.

Un ragazzo che si isola e rifiuta il contatto può essere classificato come “timido” o “con difficoltà sociali”, ma questo non dice nulla sul perché di questo isolamento. È una difesa contro un’angoscia insostenibile? È una forma di protesta contro un ambiente che non lo riconosce?

Nel lavoro con la disabilità, questo tema è ancora più centrale: nominare un comportamento come “non conforme” può portare a forzare l’adattamento, senza considerare il valore del sintomo per il soggetto stesso.


3. Il falso nome politico: la cattura del sintomo nei discorsi sociali

C’è poi un’altra modalità di falsificazione: quella che trasforma il sintomo in un effetto dell’ordine sociale, senza più riconoscere la parte attiva del soggetto nella sua formazione.

Oggi molte sofferenze vengono lette attraverso griglie sociopolitiche:

La depressione diventa “malattia della società della performance”

L’ansia giovanile diventa “effetto della precarietà”

Il disagio psicologico diventa “trauma dovuto alla violenza strutturale”

Anche qui, non si tratta di negare che ci siano fattori sociali reali. Il problema è quando il sintomo viene letto solo come qualcosa di imposto dall’Altro (la società, il capitalismo, il patriarcato, la scuola, la famiglia…), togliendo al soggetto la possibilità di riconoscere la propria posizione in ciò che gli accade. Se il sintomo è solo un effetto, allora il soggetto diventa una pura vittima, senza nessun margine di lavoro su di sé.

Nel lavoro con gli immigrati, per esempio, il discorso vittimario può essere un falso nome che li incastra in un ruolo passivo, mentre la questione soggettiva del loro sintomo resta in ombra. Un giovane immigrato musulmano che rifiuta la scuola può certo avere difficoltà legate al razzismo o alla discriminazione, ma il suo rifiuto può anche avere una dimensione più interna, legata al modo in cui vive il rapporto con l’autorità, con il sapere, con la trasmissione culturale.


4. Il falso nome dell’autogiustificazione

Infine, il soggetto stesso può darsi dei falsi nomi per evitare di confrontarsi con il proprio sintomo.

“Sono fatto così” → Nome che chiude, senza lasciare spazio alla trasformazione

“È il mio carattere” → Nome che lo naturalizza, come se fosse immutabile

“È colpa dei miei genitori” → Nome che lo colloca interamente nell’Altro

Queste nominazioni funzionano come difese: proteggono il soggetto dall’angoscia di interrogarsi su cosa fare del proprio sintomo.

Verso un nome proprio del sintomo

Se il sintomo ha tanti falsi nomi, esiste un vero nome?

Lacan direbbe che non esiste un nome definitivo, ma esiste la possibilità di costruire un uso del sintomo. Il punto non è eliminarlo, né semplicemente capirlo, ma trovare un modo per fargli posto senza esserne schiacciati.

In educazione e nel sociale, questo significa:

Dare spazio alla parola del soggetto, senza imporgli subito una lettura esterna

Considerare la funzione del sintomo, invece di vederlo solo come un errore da correggere

Permettere che il soggetto trovi un suo modo di nominarsi, senza incasellarlo in categorie chiuse




venerdì 14 marzo 2025

Lacan e il Pensiero Orientale

 Lacan e il Pensiero Orientale


Il rapporto tra Lacan e il pensiero orientale è ambivalente: da un lato, troviamo alcuni punti di convergenza tra la sua teoria del desiderio e concetti del buddhismo e del taoismo; dall’altro, Lacan rimane radicato in una concezione del soggetto e dell’inconscio che è specificamente occidentale, legata alla mancanza, al significante e alla struttura simbolica.


1. Il Desiderio in Lacan e nel Pensiero Orientale

Lacan: il desiderio come mancanza

Lacan definisce il desiderio come ciò che nasce dalla mancanza-a-essere (manque-à-être), ovvero dal fatto che il soggetto non è mai pienamente se stesso.

Il desiderio è sempre legato al significante, cioè al linguaggio e alla sua strutturazione dell’inconscio.

Il Nome-del-Padre e la Legge sono elementi fondamentali che regolano il desiderio e lo rendono umano.

Buddhismo: il desiderio come illusione

Il buddhismo, soprattutto nella sua versione mahayana e zen, considera il desiderio come radice della sofferenza (dukkha).

Il Nirvana è la condizione in cui il desiderio cessa, perché il soggetto smette di attaccarsi alle illusioni dell’io e del mondo fenomenico.

Il buddhismo propone quindi una via che mira a superare il desiderio, mentre Lacan lo considera costitutivo dell’essere umano.

Taoismo: il desiderio come armonia

Nel taoismo, il desiderio non è da sopprimere, ma da vivere in accordo con il Tao, la via naturale delle cose.

Il concetto di wu wei (non-agire) suggerisce un modo di vivere il desiderio senza forzature, senza cercare di dominarlo o eliminarlo.

In questo senso, il taoismo sembra più vicino alla posizione di Lacan rispetto al buddhismo, perché non propone una cancellazione del desiderio, ma un suo fluire senza costrizioni.


2. Differenze Fondamentali: Mancanza vs. Pienezza

Uno dei punti di maggiore distanza tra Lacan e il pensiero orientale riguarda la concezione della soggettività:

Lacan → Il soggetto è diviso, manca sempre di qualcosa e il suo desiderio è inestinguibile.

Buddhismo/Taoismo → L’io è un’illusione e il soggetto può raggiungere uno stato di “pienezza” o armonia attraverso il distacco dal desiderio.

Questa differenza è cruciale: Lacan non crede in una possibile realizzazione ultima del desiderio, mentre molte tradizioni orientali cercano una via di liberazione dalla sofferenza legata al desiderio stesso.


3. Possibili Punti di Incontro

Nonostante queste differenze, ci sono alcuni punti in cui Lacan e il pensiero orientale potrebbero dialogare:

L’illusione dell’io → Lacan e il buddhismo concordano sul fatto che l’io è un’illusione, una costruzione immaginaria che il soggetto si racconta.

L’importanza del vuoto → Lacan parla della mancanza strutturale del soggetto, mentre il buddhismo e il taoismo vedono il vuoto (sunyata nel buddhismo, wu nel taoismo) come una condizione essenziale della realtà.

L’ambiguità del godimento (jouissance) → Lacan sottolinea come il godimento possa essere sia fonte di piacere sia di sofferenza; nel buddhismo si trova una visione simile nel concetto di attaccamento (tanha).


4. Verso una Risignificazione Psicoanalitica del Pensiero Orientale?

Se la psicoanalisi lacaniana volesse rileggere il pensiero orientale potrebbe proporre:

Una visione del desiderio non come qualcosa da eliminare, ma da ristrutturare in base alle coordinate culturali locali.

Un’analisi del vuoto non come annullamento del soggetto, ma come condizione del desiderio (un’idea più vicina al taoismo che al buddhismo).

Un approccio alla sofferenza meno legato alla colpa e più alla trasformazione simbolica, come si trova nelle pratiche zen di decostruzione dell’io.

In sintesi, Lacan e il pensiero orientale non sono sovrapponibili, ma possono offrire spunti di dialogo sulla natura del desiderio e sulla condizione del soggetto.



Il Destino (Al Qadar) nella Religione Islamica. Una lettura psicoanalitica

Il Destino (Al Qadar) nella Religione Islamica. Una lettura psicoanalitica 




Dal punto di vista psicoanalitico lacaniano, il concetto di destino (qadar) nell’Islam può essere letto attraverso la dialettica tra il Simbolico, l'Immaginario e il Reale, nonché attraverso la questione del desiderio, del significante padrone (S1) e del soggetto barrato ($).


1. Il Destino come Significante Padrone (S1)

Nell’Islam, il qadar rappresenta una struttura fondativa del senso, un significante che ordina il reale e attribuisce una direzione all’esistenza. In termini lacaniani, possiamo dire che il destino assume la funzione di S1, il significante padrone che struttura il discorso e garantisce una coerenza all'Altro.

  • "Tutto è scritto nel Libro di Allah" può essere letto come un’affermazione che stabilisce un ordine simbolico rassicurante, che previene l'angoscia del soggetto di fronte alla contingenza dell’esistenza.
  • Questo S1 (qadar) permette di leggere gli eventi della vita come parte di un disegno ordinato, limitando il rischio di un incontro troppo traumatico con il Reale.


2. Il Reale e la Contingenza: il Destino come Risposta alla Causalità

Lacan distingue tra necessità, contingenza e impossibile. Il qadar islamico cerca di chiudere l’accesso alla contingenza sostenendo che nulla avviene per caso, ma tutto è parte del piano divino.

  • Il soggetto è così preservato da un vuoto di senso, evitando l’incontro con l’assenza di una causa ultima.
  • Tuttavia, questo stesso ordine può generare un eccesso di senso, un sovraccarico simbolico che rischia di negare l’apertura del soggetto al desiderio.

Qui vediamo un paradosso:

  • Da un lato, l’Islam afferma che l’essere umano è responsabile delle proprie azioni.
  • Dall’altro, tutto è già scritto.

Questa tensione può essere letta come la tensione strutturale tra il soggetto barrato ($), diviso tra il proprio desiderio e il significante dell’Altro, e il fantasma di una totalità simbolica.


3. Il Qadar come Metafora del Nome-del-Padre

Se leggiamo il qadar come un Nome-del-Padre (Nom-du-Père), esso si presenta come una garanzia simbolica che organizza la soggettività.

  • Il Nome-del-Padre introduce la Legge, che nel contesto islamico si manifesta nella shari’a, una struttura che guida il soggetto nella sua relazione con il mondo e con il desiderio.
  • Tuttavia, questo Nome non è mai del tutto stabile: la differenza tra scuole teologiche (Mutaziliti, Ashariti, Maturiditi) mostra che vi è sempre una tensione tra un Nome-del-Padre rigido e determinista e un Nome-del-Padre che lascia spazio al desiderio e alla responsabilità soggettiva.

Dove questa funzione si irrigidisce, si può assistere a una cristallizzazione del soggetto nel Simbolico, con un annullamento della sua posizione desiderante. Dove, invece, il Nome-del-Padre si apre a un certo grado di flessibilità, può emergere un soggetto capace di assumere il proprio desiderio senza annullarlo nella volontà divina.


4. Destino e Godimento: tra Sottomissione e Jouissance

L’Islam significa letteralmente "sottomissione" (a Dio). Questa sottomissione può essere letta in chiave lacaniana come una dialettica con il godimento (jouissance).

  • Se il qadar è l'S1 che struttura l'ordine simbolico, esso può anche funzionare come un limite al godimento, ponendo delle regole che regolano l’accesso al desiderio.
  • Tuttavia, questa regolazione del godimento può assumere due forme:
    1. Una forma simbolica e pacificante → Dove il soggetto assume il proprio rapporto con la Legge senza un eccesso di senso.
    2. Una forma di godimento nell'atto stesso della sottomissione → Dove la sottomissione al destino diventa una forma di godimento paradossale, come nel caso di alcuni discorsi fatalisti o fondamentalisti, dove l'obbedienza assoluta diventa essa stessa un godimento.


5. Il Destino come Fantasma e la Dialettica del Desiderio

Nel discorso del musulmano credente, il qadar può anche funzionare come un fantasma che protegge il soggetto dall'angoscia del desiderio.

  • Il soggetto può dire: "Non sono io a scegliere, è Allah che decide."
  • Questo può essere rassicurante, ma può anche funzionare come una negazione del desiderio soggettivo, spostando la responsabilità dell’azione sull’Altro divino.

Lacan direbbe che questa posizione può essere un modo per evitare il "non c’è Altro dell’Altro", ovvero la mancanza strutturale che caratterizza il grande Altro. Ma se tutto è già scritto, non c’è spazio per la mancanza e quindi nemmeno per il desiderio.

Tuttavia, questa posizione non è assoluta: la teologia islamica mantiene uno spazio di scelta (specialmente nelle correnti mutazilite e maturidite), permettendo al soggetto di abitare il proprio desiderio senza dissolverlo nell’onnipotenza divina.


Conclusione: il Destino tra Simbolico, Reale e Immaginario

Possiamo quindi leggere il qadar come una tensione tra tre registri:

  • Simbolico → Il qadar come significante padrone (S1), che struttura il discorso e fornisce un ordine.
  • Immaginario → L’idea rassicurante di un Dio che guida tutto, che può però diventare un fantasma che soffoca il desiderio.
  • Reale → L’angoscia della contingenza, che il discorso religioso cerca di velare, ma che riemerge sempre nei momenti di crisi.

Il destino islamico, quindi, può essere visto come un modo di trattare il Reale attraverso il Simbolico, ma il suo rapporto con il desiderio rimane ambiguo: può aprire alla responsabilità soggettiva o può funzionare come un fantasma che protegge dall’angoscia della libertà.

Difesa Militare: una Lettura Critica

 

Difesa Militare: una Lettura Critica


La guerra come crisi dell’ordine simbolico

La guerra è il punto di rottura di un ordine simbolico. Quando il significante padrone (S1) che regge un sistema politico, sociale o economico entra in crisi, emergono spinte distruttive che non trovano più una regolazione adeguata. Il conflitto armato non è solo una questione di interessi materiali o di strategie geopolitiche, ma esprime un problema più profondo: l’incapacità di integrare la differenza dell’Altro in un quadro simbolico condiviso. La guerra appare così come il tentativo di risolvere con la violenza ciò che il linguaggio e la politica non riescono più a gestire.

La difesa e la sua ambiguità

In questo contesto, la difesa militare viene spesso giustificata come una necessità inevitabile: ogni Stato ha il diritto di proteggere i propri cittadini e il proprio territorio da minacce esterne. Tuttavia, questa logica presenta un’ambiguità strutturale. La difesa non è mai un concetto neutrale: ciò che uno Stato percepisce come difesa può essere vissuto dall’Altro come una minaccia. La storia è piena di guerre che si sono presentate come “difensive” pur essendo mosse da logiche espansionistiche o da tentativi di consolidare il potere interno. La difesa, dunque, non è solo un fatto militare, ma è sempre una questione politica e simbolica.

Un esempio emblematico è quello della NATO. Nata come alleanza difensiva, ha progressivamente assunto un ruolo di intervento attivo, generando la percezione, in alcuni contesti, di essere essa stessa una minaccia. La Russia ha giustificato la guerra in Ucraina come una risposta alla minaccia rappresentata dall’espansione della NATO, mostrando come il confine tra difesa e aggressione sia spesso una costruzione narrativa. Questo non significa legittimare le guerre di aggressione, ma evidenziare come il discorso sulla sicurezza sia sempre inscritto in una logica politica che determina chi è il nemico e chi è l’alleato.

La guerra e il godimento dell’Altro

La guerra non è solo uno scontro tra eserciti, ma coinvolge anche una dimensione di godimento. Lacan mostra come il rapporto con il godimento dell’Altro sia un elemento centrale nei conflitti: l’Altro è spesso vissuto come un soggetto che gode in un modo inaccessibile o minaccioso. La guerra diventa così il tentativo di eliminare questo godimento percepito come intollerabile.

Pensiamo ai conflitti etnici o religiosi, dove l’identità dell’Altro non è solo diversa, ma viene vista come qualcosa di insopportabile, che deve essere eliminato per ristabilire un ordine simbolico accettabile. La difesa, in questo caso, non è più solo protezione, ma diventa una giustificazione per la distruzione dell’Altro. La Germania nazista, ad esempio, giustificò la sua espansione come una difesa della nazione tedesca minacciata dal bolscevismo e dalla “degenerazione” culturale. Analogamente, molte guerre contemporanee vengono presentate come operazioni per la sicurezza nazionale, mentre in realtà mirano a ridefinire i rapporti di forza globali.

Il rischio della guerra permanente

Se la difesa non vuole diventare un pretesto per la guerra, deve essere pensata in modo diverso. Il modello della deterrenza, basato sulla minaccia di ritorsione, crea un equilibrio instabile: ogni aumento di sicurezza per uno Stato può essere visto come una minaccia dagli altri, generando una spirale di riarmo. Questo è il rischio della politica internazionale contemporanea: il moltiplicarsi delle alleanze militari, delle basi strategiche e delle armi avanzate non elimina il rischio di guerra, ma lo rende più probabile.

Un altro elemento chiave della guerra contemporanea è il ruolo della tecnologia. La guerra moderna tende a ridurre il coinvolgimento diretto del combattente: droni, missili teleguidati e cyber-guerra creano un conflitto in cui la distruzione è sempre più disincarnata. Questo produce una paradossale combinazione tra ipertecnologia e pulsione di morte: si uccide a distanza, senza vedere l’Altro morire, e allo stesso tempo si alimenta una guerra che non ha più confini chiari. L’uccisione diventa un algoritmo, ma il godimento della distruzione resta, anche se rimosso sotto la forma di necessità tecnica.

La guerra come ritorno del rimosso

Freud, in "Perché la guerra?", scriveva a Einstein che il conflitto è il sintomo dell'impossibilità di eliminare la pulsione di morte. Lacan riprende questa idea, mostrando come la guerra sia il ritorno di un reale che il simbolico non riesce più a contenere. Quando un ordine sociale entra in crisi, la guerra si presenta come un tentativo di ristabilire un nuovo significante padrone attraverso la distruzione. In questo senso, ogni guerra è anche una lotta per la ridefinizione del potere simbolico: chi ha il diritto di nominare il mondo? Chi impone il discorso dominante?

Ripensare la difesa: sicurezza e ordine simbolico

Da questa prospettiva, la difesa non può essere pensata solo in termini militari. Se il problema della guerra è una crisi del simbolico, allora la vera sicurezza non si costruisce solo con le armi, ma con la capacità di creare un ordine che renda possibile la coesistenza senza che il conflitto degeneri in violenza. La difesa deve essere accompagnata da una politica di riconoscimento dell’Altro, capace di costruire spazi simbolici in cui le differenze possano essere articolate senza diventare una minaccia assoluta.

Il problema è che il discorso del padrone tende a imporsi attraverso la logica amico/nemico. La difesa diventa così un modo per giustificare il dominio, e la sicurezza si trasforma in una guerra preventiva permanente. Questo è il rischio del mondo contemporaneo: la guerra non è più un evento eccezionale, ma uno stato di tensione continuo, una logica diffusa che permea il discorso politico, i media e le relazioni internazionali.

Conclusione

Una riflessione critica sulla guerra e sulla difesa deve andare oltre la semplice logica della forza. La sicurezza non è solo questione di deterrenza o di capacità militare, ma dipende dalla possibilità di costruire un ordine simbolico che non si basi esclusivamente sulla minaccia dell’Altro. La difesa deve esistere, ma non può diventare il criterio assoluto che governa i rapporti internazionali. Se la guerra è il ritorno del rimosso, la vera sfida è trovare un modo per integrare il conflitto nella struttura simbolica senza che esso esploda nella distruzione.

Solo così si potrà pensare una difesa che protegga senza alimentare nuove guerre, e una politica che non si riduca a un eterno confronto con il nemico.


Bibliografia

Freud, S. (1932). Perché la guerra? Lettera a Einstein. In Opere Complete, Vol. X. Boringhieri.

Freud esplora la pulsione di morte e il carattere inevitabile del conflitto nella psiche umana.

Lacan, J. (1966). Scritti. Einaudi.

In particolare, il concetto di significante padrone (S1) e il godimento dell’Altro sono utili per comprendere la logica simbolica della guerra.

Schmitt, C. (1932). Il concetto di politico. Adelphi.

Analizza la logica della distinzione amico/nemico come fondamento della politica e della guerra.

Arendt, H. (1969). Sulla violenza. Guanda.

Discute la differenza tra violenza e potere, mostrando come la guerra emerga quando il potere politico fallisce.

Foucault, M. (1976). Bisogna difendere la società. Feltrinelli.

Analizza la guerra come un proseguimento della politica attraverso altri mezzi, ribaltando la famosa formula di Clausewitz.

Clausewitz, C. von (1832). Della guerra. Mondadori.

Classico della teoria militare, introduce il concetto di guerra come strumento della politica.

Mbembe, A. (2016). Necropolitica. Ombre Corte.

Approfondisce il modo in cui gli Stati decidono chi può vivere e chi deve morire, legando la guerra alle dinamiche del potere contemporaneo.

Butler, J. (2009). Frames of War: When is Life Grievable? Verso Books.

Analizza il modo in cui la guerra costruisce il nemico attraverso narrazioni che disumanizzano l’Altro.







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