venerdì 30 maggio 2025

La leadership generativa nel Terzo Settore: dinamiche soggettive e pratiche collettive in un’epoca di trasformazione

 

Social Worker


Introduzione: crisi economica, politica e sfide dell’internet economy

Il contesto economico e politico attuale è caratterizzato da una complessità crescente e da trasformazioni profonde, dovute alla crisi della globalizzazione neoliberale, all’instabilità geopolitica e alla diffusione accelerata delle tecnologie digitali, che modificano radicalmente i modelli di produzione, lavoro e partecipazione sociale. L’economia digitale (internet economy) impone nuove modalità di governance e di organizzazione, che incidono anche sui processi di rappresentanza e sulle forme di leadership.

In tale scenario, il Terzo Settore emerge come spazio cruciale di innovazione sociale, capace di tessere relazioni tra mercato, istituzioni e comunità. La sfida principale riguarda la capacità di sviluppare modelli di leadership che superino i limiti dei tradizionali approcci manageriali, spesso gerarchici e verticali, per adottare forme più fluide, distribuite e generative.


Leadership postmanageriale e generativa: definizioni e riferimenti teorici

La leadership postmanageriale si distingue per un approccio meno autoritario, fondato su pratiche di collaborazione, condivisione del potere e valorizzazione della soggettività collettiva. La leadership generativa, collegata a questa, si concentra sull’emergere di nuove soggettività e sulla costruzione di significati condivisi, attivando processi creativi e trasformativi all’interno delle organizzazioni.

Il contributo della psicoanalisi lacaniana risulta fondamentale per interpretare la leadership come funzione simbolica. Secondo tale prospettiva, la leadership agisce come “significante padrone” che organizza e stabilizza il campo sociale e simbolico, ma che nel modello generativo non si manifesta come imposizione rigida, bensì come apertura a un campo plurale, in cui più soggettività trovano spazio e possibilità di espressione.


La leadership nel Terzo Settore: pratiche distribuite e soggettività generative

Nel Terzo Settore, che include cooperative sociali, associazioni, enti non profit e realtà di economia sociale, la leadership generativa si manifesta in forme situate, distribuite e relazionali. Queste forme si fondano su valori di partecipazione, inclusione e mutualità, distinguendosi da modelli aziendalistici tradizionali.

Gli operatori sociali, educatori professionali, psicologi e figure di coordinamento svolgono funzioni di leadership diffusa, in cui il ruolo formale non coincide con l’esercizio effettivo della funzione simbolica di guida e facilitazione. La leadership qui è lavoro simbolico e relazionale, capace di integrare le diversità e di favorire processi di empowerment.

Esempio 1: un progetto di inclusione sociale in una grande città

In un’organizzazione dedicata all’inclusione sociale di persone in situazione di vulnerabilità, la leadership è distribuita tra educatori, mediatori culturali e coordinatori, che insieme costruiscono spazi di dialogo e decisione condivisa. La pratica di leadership generativa ha permesso di superare rigidità organizzative e di valorizzare le competenze e le esperienze dei singoli, migliorando la qualità degli interventi e la coesione interna.

Esempio 2: una rete territoriale per il sostegno alle famiglie

Una rete di enti del Terzo Settore impegnata nel sostegno alle famiglie ha sviluppato un modello di leadership situata, in cui i leader locali agiscono come facilitatori di processi di co-progettazione e mediazione tra diversi attori sociali. La leadership non è concentrata in un singolo soggetto, ma si distribuisce e si adatta alle diverse situazioni, promuovendo una governance partecipata e inclusiva.


Sindacalismo critico: laboratorio di leadership generativa

Anche nel campo sindacale, in particolare nei sindacati di base, si osserva un’importante evoluzione verso forme di leadership generativa e distribuita. Questi sindacati promuovono pratiche di autorganizzazione, partecipazione diretta e costruzione collettiva di strategie, mettendo in discussione i modelli tradizionali di rappresentanza verticale.

In questo contesto, la leadership si esprime come capacità di attivare soggettività multiple, riconoscere la pluralità delle identità lavorative e mediare i conflitti trasformandoli in momenti di innovazione sociale e culturale.

Esempio 3: rappresentanza dei lavoratori della gig economy

Un sindacato di base ha avviato una campagna di rappresentanza per lavoratori della gig economy, tipicamente frammentati e privi di tutele tradizionali. La leadership collettiva e assembleare ha permesso di costruire reti di solidarietà e di rivendicazione che intrecciano istanze economiche con pratiche culturali, favorendo una nuova soggettività politica dei lavoratori digitali.



Il ruolo di psicologi e educatori nel Terzo Settore

Psicologi, educatori professionali e assistenti sociali sono attori fondamentali della leadership generativa nel Terzo Settore. Non solo svolgono compiti tecnici, ma incarnano funzioni simboliche e relazionali che favoriscono la soggettivazione degli utenti, la mediazione culturale e la costruzione di comunità inclusive.

Gli psicologi, in particolare, contribuiscono come mediatori simbolici, sostenendo la trasformazione dei conflitti in risorse e facilitando processi di empowerment. Gli educatori professionali, con la loro capacità di facilitare dinamiche di gruppo e di relazione, rappresentano spesso nodi centrali nella rete di leadership distribuita.


Conclusioni

La leadership postmanageriale e generativa nel Terzo Settore si configura come una risposta strategica alle sfide poste dalle trasformazioni economiche, sociali e tecnologiche in atto. Essa implica una ridefinizione della leadership stessa, intesa come processo collettivo, distribuito e situato, capace di integrare dimensioni simboliche, relazionali e organizzative.

In questa prospettiva, il Terzo Settore diventa un laboratorio privilegiato per sperimentare forme di leadership che siano creative, inclusivi e politicamente significative, contribuendo a costruire comunità resilienti e capaci di innovazione sociale.


Bibliografia essenziale

  • Argyris, C., & Schön, D. (1978). Organizational Learning: A Theory of Action Perspective. Addison-Wesley.
  • Bennis, W. G. (2003). On Becoming a Leader. Basic Books.
  • Foster, R., & Kaplan, S. (2001). Creative Destruction. Crown Business.
  • Lacan, J. (1972). Le séminaire, Livre VIII: Le transfert. Seuil.
  • Magatti, M. (2019). La società in guerra. Il Mulino.
  • Ricketts, E. (2018). Generative Leadership in Practice. Palgrave Macmillan.
  • Ropo, A., & Salovaara, P. (2017). Leadership-as-Practice. Routledge.
  • Senge, P. M. (1990). The Fifth Discipline. Doubleday.
  • Wheatley, M. J. (2006). Leadership and the New Science. Berrett-Koehler.

sabato 24 maggio 2025

La notte come soglia: lettura lacaniana di “Di notte” di Mariangela Gualtieri

Notte come soglia



“Di notte” di Mariangela Gualtieri

Di notte
le mille faccende riposte
il chiacchierio delle cose
ottuso chiuso a chiave nello scrigno nero
e il tempo davanti pare esteso
e le stelle mandano lo sfolgorio
fin dentro le mie pupille chiuse.

Che notte di neve meravigliosa
dentro, nelle falde del cuore acceso
a tutto motore, che partitura
di silenzio e di luce.

Domani ancora caricheremo il fardello
faremo la fatica delle sporte
dolorose e del peso. Domani
tenteremo di destreggiarci
fra le spine del giorno.
Staremo nel precipizio delle faccende.
E poi di nuovo la notte col suo premio
di sospensione distesa.

La notte
che talmente avvicina l’oltretomba
e tutto il di là della vita
con le creature addormentate nel bosco
e la sua corda tesa di buio.

La notte su metà del pianeta
con mani addormentata sui cuscini
e occhi che si chiudono dentro tutte le case.

E ora da qui, dal nocciolo più interno
della notte, rifletto e accetto
l’alta compitazione, l’investitura
in scrittura terrestre, della sacrosanta vita
attutita, come imbottita e sepolta
nei corpi del genere umano.



Nella poesia “Di notte”, Mariangela Gualtieri ci conduce in uno spazio-tempo sospeso, dove il linguaggio si attenua, le cose tacciono, e si apre una soglia densa di silenzio e interiorità. Da un punto di vista psicoanalitico lacaniano, la notte evocata dalla poetessa può essere letta come il momento privilegiato in cui il soggetto, liberato dalla pressione del discorso dominante del giorno, si confronta con il proprio desiderio, con il Reale, e forse — in forma embrionale — con la possibilità di rilanciare un nuovo significante padrone (S1).

1. La sospensione del Simbolico e l’apertura al Reale

Gualtieri apre la poesia con l’immagine di un mondo che si ritira: “le mille faccende riposte”, “il chiacchierio delle cose ottuso, chiuso a chiave”. È il momento in cui il Simbolico dominante, con i suoi imperativi di efficienza, utilità e produttività, si ritira, lasciando spazio a un vuoto fertile. La notte non è solo assenza di luce, ma assenza di senso obbligato, una partitura di silenzio e di luce che apre la possibilità di un’altra scrittura, di un’altra articolazione soggettiva.

Qui si fa sentire il Reale, non come trauma brutale, ma come presenza viva e notturna, avvertita nel corpo: “il cuore acceso a tutto motore”. Un godimento, forse, che sfugge alla presa del Nome-del-Padre, e che si avvicina al godimento femminile indicato da Lacan nel Seminario XX — un godimento Altro, non tutto simbolizzabile.

2. Il soggetto nella notte: sospeso tra veglia e sogno

La notte descritta da Gualtieri non è semplicemente un tempo del riposo, ma un tempo in cui il soggetto si raccoglie, riflette, e accetta un compito: “dal nocciolo più interno della notte, rifletto e accetto l’alta compitazione”. In termini lacaniani, qui il soggetto non è più parlato dall’Altro, ma si assume come causa del proprio desiderio. La “scrittura terrestre” può allora essere vista come una forma di investitura soggettiva, il rilancio di un nuovo S1, che non domina, ma orienta.

Questo S1 è radicalmente diverso da quello del giorno, fatto di “fardelli”, “sporte dolorose”, “spine del giorno”: tutti segni del discorso del padrone moderno, che aliena il soggetto nella sua funzione sociale. La notte invece offre la possibilità di articolare un S1 singolare, forse poetico, forse etico, che nasce dall’esperienza del Reale e dalla sospensione del già-detto.

3. Il rilancio di un nuovo S1

In questa sospensione, possiamo leggere la notte come tempo propizio per rilanciare un nuovo significante padrone, non imposto dall’Altro, ma emerso dal fondo del soggetto. Questo nuovo S1 non è normativo, ma segnale di un altro possibile discorso, più vicino alla vita, alla fragilità, alla finitudine condivisa. La poesia stessa, nella sua forma, è già esempio di questo altro S1, che non comanda ma chiede ospitalità nel linguaggio.

Possiamo ipotizzare che questo S1 notturno — fragile, terreno, scritto — sia un S1 del legame, non della prestazione; un S1 che nomina la “sacrosanta vita attutita” nei corpi umani, e non la vita performante, visibile, riconosciuta. È, in questo senso, un S1 sottratto all’economia della visibilità, e perciò prossimo all’etica psicoanalitica del desiderio: non ciò che realizza, ma ciò che orienta nella notte.

4. Conclusione: un altro discorso è possibile

La notte di Gualtieri è un invito a sospendere il dominio dell’S1 diurno e a rendere possibile un altro discorso, fondato non sul comando, ma sulla scrittura del desiderio. In essa il soggetto non è annullato, ma trasfigurato dal silenzio e dalla possibilità di nominare altrimenti la propria vita.

In un’epoca segnata dal dominio dei discorsi tecnocratici e prestazionali, la poesia — e la notte che la rende possibile — possono essere lette come spazi di resistenza simbolica. Luoghi dove l’Altro non impone, ma ascolta, e dove il soggetto può rilanciare un S1 proprio, fragile e sacro, capace di dare inizio a un discorso più umano.


giovedì 22 maggio 2025

"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" di Cesare Pavese: una lettura lacaniana


Verrà la morte


Verrà la morte e avrà i tuoi occhi 

– questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese 


"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", scritta da Cesare Pavese tra marzo e giugno del 1950, è forse il testo più nudo, tragico e radicale dell’intera sua opera. Ultimo approdo della sua scrittura poetica e insieme testamento esistenziale, questa poesia rappresenta l’incontro del soggetto con il reale, là dove il simbolico vacilla e il desiderio si confronta con la sua impossibilità.

1. Biografia e bibliografia: un ritorno alla poesia come sinthomo

La poesia appartiene a un piccolo ciclo postumo, pubblicato nel 1951, poco dopo il suicidio di Pavese. Dopo anni dedicati alla narrativa (La casa in collina, Il diavolo sulle colline, La luna e i falò), Pavese ritorna alla forma lirica, ma non più nella modalità epica e narrativa di Lavorare stanca. Qui la poesia è essenziale, concentrata, assoluta. È il suo sinthomo nel senso lacaniano: una forma di legame soggettivo con il reale, che tiene insieme ciò che non può essere simbolizzato — il lutto, la mancanza, il godimento.

In questa fase finale della sua vita, Pavese appare disarmato, incapace di trovare ancora riparo nel mito (come nei Dialoghi con Leucò) o nella cultura. Resta solo il corpo a corpo con la mancanza: una scrittura che si fa confessione, ma anche soglia di sparizione del soggetto.

2. Lo sguardo dell’Altro come oggetto a

Il verso iniziale — "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" — è già tutto un programma di svelamento. In esso, la morte non ha volto proprio, ma assume quello dell’amata. Si affaccia così il reale nel luogo dell’Altro: la Cosa (das Ding) si iscrive nello sguardo dell’amore. Non si tratta di un amore consolante, ma dell’incontro traumatico con il godimento che eccede il senso, con l’oggetto a che abita lo sguardo dell’Altro.

In Lacan, lo sguardo è oggetto pulsionale: non restituisce l'immagine rassicurante dell’Io, ma la buca, la inquieta. Gli occhi dell’amata sono allora il punto in cui il soggetto si smarrisce, non perché tradito, ma perché esposto all’eccesso del godimento, al buco del significante.

3. Morte e desiderio: il fallimento dell’amore simbolico

Lacan insegna che l’amore cerca di colmare la mancanza dell’Altro, ma senza riuscirci: è sempre disallineato, sospeso. Qui, l’amore è totalmente attraversato dal fallimento: non resta parola che tenga, solo un volto che coincide con la morte. L’Altro amato si rivela non come garanzia simbolica, ma come luogo della perdita.

La poesia lacanianamente mostra che non c’è Nome-del-Padre che possa rappresentare il lutto. L’amata è reale, assoluta, non mediabile: rappresenta quella parte dell’Altro che non risponde, che uccide. In questo senso, l’amore non è redenzione, ma catastrofe.

4. Godimento e pulsione di morte

Nel testo si avverte una jouissance che non passa più attraverso il desiderio, ma si coagula in una pulsione di morte, in un abbandono alla fine. L’io poetico è incollato all’oggetto a, senza più possibilità di separazione simbolica. Non c’è sublimazione, né trasfigurazione. Solo l’essenziale: l’incontro tra il soggetto e il reale del godimento, che non può essere detto ma solo subito.

5. Scrivere per scomparire: il soggetto come resto

Se in Lavorare stanca il soggetto si collocava nel mondo, nella storia e nel paesaggio, qui si dissolve. La scrittura non è più gesto di fondazione, ma atto terminale. Pavese scrive la poesia come atto ultimo, non tanto per dire qualcosa, quanto per testimoniare il punto in cui la parola fallisce e resta solo l’oggetto del godimento.

In questo senso, Verrà la morte è anche una poesia sul fallimento del simbolico: non c’è elaborazione, non c’è lutto, solo l’apparizione cruda della fine.


Conclusione

"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" è uno dei testi più potenti della letteratura italiana del Novecento proprio perché è anche uno dei più puri esempi dell’incontro tra poesia e reale. In essa Pavese mostra ciò che nella sua opera era sempre stato latente: il desiderio come mancanza, l’amore come impossibilità, il soggetto come resto.

Letta nell’orientamento lacaniano, la poesia rivela la struttura profonda dell’esperienza soggettiva: il volto dell’amore come luogo della perdita, lo sguardo dell’Altro come oggetto a, la scrittura come sinthomo per tenere insieme ciò che altrimenti crolla.

Una poesia che, come il desiderio stesso, non consola. Ma dice — con precisione vertiginosa — l’impossibile da dire.



mercoledì 21 maggio 2025

L'odio nel transfert e nel controtransfert: una lettura lacaniana, con un confronto con Klein e Winnicott


L’odio, come dimensione soggettiva e relazionale, ha una presenza centrale nella clinica psicoanalitica, soprattutto quando si manifesta nel transfert e nel controtransfert. Nella prospettiva lacaniana, questa affettività primaria assume una valenza strutturale e non meramente accidentale, come invece potrebbe apparire in approcci più adattivi o evolutivi. Non si tratta semplicemente di un ostacolo alla cura, bensì di un momento rivelatore della struttura del soggetto e del suo rapporto con l’Altro.


L'odio nel transfert

Jacques Lacan ha affrontato la questione dell'odio all'interno della relazione transferale, in particolare nella lezione del 20 aprile 1960 del Seminario L’etica della psicoanalisi, dove, rifacendosi ad Aristotele, pone l’odio (misos) come l’affetto che mira all’essere dell’altro, mentre l’amore ne mira il bene. L’odio, in quanto tale, non è secondario rispetto all’amore: è della stessa stoffa. Nella relazione analitica, il soggetto può manifestare un odio tenace e violento verso l’analista, che non va inteso in senso personale ma come effetto del posto simbolico che l’analista occupa, quello di causa del desiderio e luogo dell’Altro.

L’analista, infatti, in quanto sostituto del soggetto supposto sapere (sujet supposé savoir), è chiamato a sostenere proiezioni e investimenti che mettono in gioco nuclei profondi della pulsione, del fantasma e della storia soggettiva. L’odio può emergere quando l’analista tocca o smaschera il godimento inconscio legato alla sofferenza, o quando il soggetto percepisce un’opacità nel suo desiderio. È spesso nel momento in cui l’analista si sottrae, non soddisfa la domanda d’amore, che il soggetto risponde con aggressività e odio.


Il desiderio dell’analista e la posizione etica

Nel Seminario XI (I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi), Lacan insiste sul concetto di "desiderio dell’analista" come ciò che orienta la cura. Questo desiderio non è desiderio personale, ma desiderio puro, spogliato, che non mira a soddisfare, né a rassicurare. È un desiderio che accetta l’odio del paziente, che lo attraversa, che ne sostiene l’elaborazione. L’analista è chiamato a sostenere la posizione di oggetto a, oggetto causa del desiderio, e quindi a tollerare di essere ridotto a cosa, a oggetto di odio, a rifiuto, senza retrocedere.

Il desiderio dell’analista implica una funzione di “buca” nel sapere: si tratta di non voler sapere tutto, di non pretendere di colmare l’Altro, ma di sostenere il vuoto strutturale che abita il soggetto. È proprio questa posizione che permette al transfert di evolvere e di aprirsi al movimento interpretativo e all’atto analitico. Come scrive Lacan nel Seminario XI, “Il desiderio dell'analista non è puro desiderio di guarire. È desiderio che ha incontrato la sua propria castrazione”.


Controtransfert e limite della reattività dell’analista

L’odio non appartiene solo al paziente. Come sottolinea Lacan nel Seminario VIII (Il transfert), l’analista non è immune dalle passioni. Tuttavia, per Lacan, è proprio l’analista che deve lavorare perché le sue passioni non interferiscano. Il concetto di controtransfert, sviluppato in area post-freudiana (es. Heimann, Racker), è ridimensionato da Lacan: l’analista deve rendere la propria posizione quanto più impersonale possibile, non perché si annulla, ma perché la sua soggettività deve diventare funzione.

L’odio dell’analista, quindi, può emergere nella pratica, soprattutto in ambito istituzionale dove i fenomeni di transfert negativo sono amplificati da dinamiche di gruppo, gerarchia e potere. In questi casi, mantenere il desiderio come causa e non come risposta reattiva è ancora più difficile. Il rischio è quello del godimento dell’analista, che si difende attraverso l’identificazione con un sapere o con un ruolo, invece di lasciarsi lavorare dal transfert.


Esempi dalla pratica istituzionale

In contesti educativi o terapeutici con soggetti psicotici o con disabilità, si osserva spesso un transfert negativo massiccio: rifiuto dell’educatore o dell’operatore, insulti, disorganizzazione comportamentale. Un esempio è il caso di un giovane con psicosi che durante il gruppo occupazionale, ad ogni proposta dell’operatore, risponde con l’insulto più feroce e minaccioso. L’operatore, se non è sostenuto da una supervisione e da un’elaborazione simbolica della sua funzione, rischia di rispondere in modo simmetrico: disprezzo, ironia, punizione. È qui che si gioca la possibilità di una funzione analitica o almeno simbolizzante: accettare di essere oggetto dell’odio, e non volerlo colmare con l’amore o con la pedagogia del bene.


Confronto con Melanie Klein e Donald Winnicott

Melanie Klein ha tematizzato a fondo l’aggressività primaria e l’odio nell’ambito della relazione oggettuale. Nella posizione schizo-paranoide, il bambino vive l’oggetto come persecutore, e riversa su di esso odio e distruttività. Solo attraverso l’elaborazione della posizione depressiva è possibile riconoscere l’oggetto buono e cattivo come unificato, e quindi riparare. Da questo punto di vista, l’odio nel transfert è un ritorno di quelle angosce originarie, che l’analista deve contenere e trasformare.

Winnicott, invece, si concentra sul concetto di odio dell’analista, con grande onestà clinica. Nel saggio L’odio nella contropartita terapeutica (1949), afferma che l’analista deve riconoscere e tollerare il proprio odio, soprattutto nel lavoro con pazienti gravi. L’odio che l’analista prova non è necessariamente patologico, ma espressione della realtà della situazione e della frustrazione. La differenza, per Winnicott, sta nel fatto che l’analista non agisce il suo odio, ma lo riconosce, lo sopporta e lo utilizza.

Rispetto a Lacan, sia Klein che Winnicott tendono a concepire l’odio come una fase, un contenuto da trasformare o contenere. Lacan, invece, pone l’odio come strutturale, come parte del desiderio stesso: “l’amore è sempre ricambiato dall’odio”, diceva, indicando che non si dà soggettivazione senza attraversamento del negativo.


Conclusione

Affrontare l’odio nel transfert e nel controtransfert è un passaggio necessario in ogni lavoro clinico e istituzionale che voglia avere un effetto di soggettivazione. Nella prospettiva lacaniana, l’odio non va risolto né rimosso, ma attraversato e letto come segno del reale in gioco. Il desiderio dell’analista, sostenuto dalla propria castrazione e non dal sapere, è ciò che consente di non rispondere alla provocazione, ma di mantenerne aperto il senso.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1959-60). Seminario VII. L’etica della psicoanalisi. Torino: Einaudi, 2008.
  • Lacan, J. (1964). Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi, 2003.
  • Lacan, J. (1960-61). Seminario VIII. Il transfert. Torino: Einaudi, 2021.
  • Klein, M. (1946). Note su alcuni meccanismi schizoidi, in Scritti 1921-1958. Firenze: Martinelli.
  • Klein, M. (1940). Invidia e gratitudine, in Scritti 1921-1958. Firenze: Martinelli.
  • Winnicott, D.W. (1949). L’odio nella contropartita terapeutica, in Sviluppo affettivo e ambiente. Roma: Armando, 1975.
  • Roussillon, R. (1991). Il transfert negativo. Roma: Borla.
  • Mannoni, M. (1969). L’enfant arriéré et la psychanalyse. Paris: Seuil.
  • Recalcati, M. (2010). Il transfert. Milano: Cortina.


lunedì 19 maggio 2025

Soggettività performativa e Crisi del Legame simbolico

Logica Coordinativa


1. Introduzione

La logica coordinativa rappresenta una delle configurazioni dominanti della razionalità contemporanea. Essa si fonda su una modalità di pensiero e di organizzazione sociale che mira a mettere in relazione elementi molteplici senza conflitto, senza gerarchia esplicita, attraverso il principio della connessione funzionale. Tale logica, apparentemente neutra e inclusiva, produce in realtà forme insidiose di desoggettivazione, sottraendo al soggetto la sua possibilità di insistenza, di rottura, di domanda etica radicale. Questa logica attraversa tanto il campo politico quanto quello clinico, sociale e persino educativo, e si manifesta nella governance, nella psicologia adattiva, nella pedagogia prestazionale.


2. Razionalità coordinativa e funzionamento sistemico

Come ha osservato Habermas, la razionalità moderna si è differenziata in due registri: la razionalità strumentale del sistema e la razionalità comunicativa del mondo della vita. Tuttavia, la proposta habermasiana di salvare la sfera comunicativa tramite un'etica del discorso sembra oggi insufficientemente radicale. La logica coordinativa assorbe anche il discorso etico in un regime di gestione, dove il conflitto viene convertito in procedura, e la domanda viene trasformata in problema da risolvere.

In questo senso, si può affermare con Adorno che "non c’è vita vera nella vita falsa" (Minima Moralia, 1951). La logica coordinativa neutralizza la negatività, l’attrito che costituisce la materia della soggettività e dell’etica. Essa si presenta come la forma postmoderna della razionalità funzionalista, in cui tutto si connette, ma nulla resiste.


3. Clinica del soggetto e razionalità coordinativa

Nel campo clinico, tale logica si manifesta nel passaggio dalla psicoanalisi alla psicoterapia evidence-based, dalla domanda all’adattamento, dal sintomo come messaggio al sintomo come disfunzione. La clinica della ragione coordinativa è quella che non vuole sapere del soggetto, ma solo dei suoi comportamenti, dei suoi pattern, dei suoi deficit. Come sottolinea Lacan, la psicoanalisi non è una psicologia dell’Io, ma una pratica del soggetto diviso, strutturato dal linguaggio, irriducibile alla funzione adattiva (Écrits, 1966).

L’inconscio, in questa logica, diventa rumore, il sintomo una distorsione, e la cura una normalizzazione. In tale orizzonte, la clinica si trasforma in governance dell’individuo, in ingegneria della felicità o della resilienza. Come ricorda Byung-Chul Han (La società della stanchezza, 2010), l’individuo contemporaneo si sente libero proprio mentre è completamente inserito in un regime prestazionale che lo rende responsabile del proprio fallimento.


4. Etiche orientali e razionalità funzionale

Il confronto con le etiche orientali può sembrare, a prima vista, offrire un’alternativa alla logica occidentale. Tuttavia, se osservate nella loro ricezione contemporanea, queste etiche – fondate sull’armonia, sull’adattamento all’ordine naturale, sulla dissoluzione dell’ego – si prestano spesso a una riattivazione funzionalista. Come sottolinea Sloterdijk, il buddhismo globale oggi agisce più come tecnica di ottimizzazione dell'umore che come rottura dell’ordine costituito (Devi cambiare la tua vita, 2009).

In molti casi, tali etiche diventano supporti spirituali al neoliberismo, producendo una soggettività flessibile, disponibile, non conflittuale. L’armonia viene così dislocata dalla sfera etico-politica a quella della performance adattiva, e il soggetto si ritrae in una interiorità disattivata, anestetizzata.


5. Politica e desoggettivazione

La logica coordinativa si esprime politicamente nella forma della governance, nella sostituzione della decisione con la mediazione procedurale, del conflitto con il consenso. Sloterdijk ha messo in evidenza come la politica tardo-moderna tenda a trasformarsi in "cura del mondo", perdendo il legame con la passione del politico e con il rischio del dissenso radicale.

Zizek, in questo contesto, denuncia il modo in cui la democrazia liberale sopravvive solo come rituale, svuotata di contenuto sovversivo: "il soggetto politico autentico emerge nel momento in cui l’ordine simbolico vacilla" (Meno di niente, 2012). La logica coordinativa, al contrario, tende a suturare ogni rottura, convertendo l’evento in procedura, la rivolta in riforma, la soggettivazione in gestione.


6. Genealogia della soggettività occidentale

Come ha argomentato Kantzas (La Polis senza Creonte e senza Antigone, 2011–2025), il soggetto occidentale nasce dalla frattura tra legge e desiderio, tra ordine politico e istanza etica. Questa frattura, che la tragedia greca mette in scena attraverso Antigone e Creonte, è l’archetipo del soggetto come scissione. Anche la tradizione giudaico-cristiana, con Abramo, i profeti, e infine il Cristo, pone il soggetto davanti a un Altro che non coincide con l’ordine sociale. La modernità secolarizza questa frattura nella figura del soggetto autonomo, ma diviso: tra ragione e volontà, tra legge morale e felicità.

La logica coordinativa tenta di suturare questa frattura, proponendo un soggetto armonico, prestazionale, pienamente integrato nei dispositivi. Kantzas osserva che la "polis postmoderna" vuole il corpo di Antigone e la ragione di Creonte senza la loro tragedia, producendo così un soggetto impolitico, senza desiderio e senza legge.


7. Conclusione: Critica della ragione coordinativa

La ragione coordinativa, lungi dall’essere una neutralizzazione pacifica del conflitto, si rivela come una strategia per l’eliminazione della soggettività. Essa funziona come una desublimazione repressiva: promette liberazione, ma produce conformismo; promette dialogo, ma riduce il dissenso; promette cura, ma produce normalizzazione.

Contro questa logica, è urgente rilanciare una clinica e una politica del soggetto. Una clinica che non si accontenti di curare, ma che sappia sostenere la verità del sintomo. Una politica che non cerchi il consenso, ma la possibilità di un nuovo inizio. Come afferma Adorno: “L’unica etica che resta è quella che si fa carico dell’impossibilità dell’etica” (Dialettica negativa, 1966).


Bibliografia

  • Adorno, T.W., Minima Moralia, 1951
  • Adorno, T.W., Dialettica negativa, 1966
  • Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, 2010
  • Habermas, J., Teoria dell’agire comunicativo, 1981
  • Kantzas, P., La Polis senza Creonte e senza Antigone. Lezioni Fiorentine, UNIFI ScienPo, 2011–2025
  • Kierkegaard, S., Timore e tremore, 1843
  • Lacan, J., Écrits, 1966
  • Sloterdijk, P., Devi cambiare la tua vita, 2009
  • Zizek, S., Meno di niente, 2012


domenica 18 maggio 2025

Il Dio straniero: Dioniso, il pensiero tragico e l’eredità dell’Occidente

Dioniso


1. Pensiero tragico e dialettica apollineo-dionisiaca

Il pensiero tragico, secondo Nietzsche, nasce dalla tensione dinamica tra due princìpi fondamentali della cultura greca: l’apollineo e il dionisiaco. L’apollineo rappresenta la chiarezza, la forma, l’ordine e la misura, mentre il dionisiaco incarna il caos, l’ebbrezza, la fusione con l’altro e la perdita di sé nel flusso della natura. Nietzsche afferma che “la tragedia è l’arte che nasce dalla lotta e dall’unità di questi due spiriti” (Nietzsche, La nascita della tragedia, §2). Questa dialettica consente di rappresentare la realtà umana non come semplice razionalità, ma come uno scontro continuo tra ragione e impulso, forma e disfacimento.


2. Dioniso: il dio straniero e la forza del sovvertimento

Dioniso si presenta come un dio straniero, un elemento esterno che penetra nel cuore della polis greca e ne mette in crisi l’ordine stabilito. Egli è “il dio che unisce e dissolve, che fa esplodere la realtà nelle sue contraddizioni più profonde” (Vernant, 1972). Nel dramma di Euripide, Le Baccanti, Dioniso manifesta questa duplicità: da una parte è un dio di festa e liberazione, dall’altra un agente di follia e distruzione. Penteo, re di Tebe, rappresenta il potere apollineo, che si oppone alla rivelazione dionisiaca. La tragedia culmina nella morte di Penteo, sbranato dalle baccanti in preda al delirio, simbolo dell’irruzione violenta del dionisiaco nella realtà umana.


3. Lettura psicoanalitica lacaniana: il reale dionisiaco e la divisione del soggetto

Dal punto di vista della psicoanalisi lacaniana, Dioniso può essere interpretato come una manifestazione del “reale” — quel registro dell’esperienza che sfugge alla simbolizzazione e al controllo del linguaggio. Lacan sottolinea come il soggetto sia strutturato attorno a un’assenza originaria, una scissione interna tra il desiderio e la legge simbolica che lo limita. La tragedia diventa allora una rappresentazione della lotta interna del soggetto. Antigone, ad esempio, si oppone alla legge del re, incarnando il desiderio che sfida la norma: “La legge non ha il potere di sottomettere ciò che è giusto nel desiderio” (Lacan, Seminario VII, 1959). La tragedia mette in scena questa impossibilità di risolvere il conflitto tra desiderio e legge, tra individuo e società.

Edipo, a sua volta, simboleggia la ricerca disperata di un senso che si rivela impossibile da raggiungere. Lacan commenta che Edipo scopre “la mancanza nel sapere,” la realtà che il soggetto è sempre segnato da un vuoto che non potrà mai colmare completamente. La tragedia esprime così la condizione umana di soggettività divisa, esposta al dolore e alla contraddizione.


4. Il dionisiaco come eccesso e il ruolo educativo della tragedia

Il dionisiaco rappresenta l’eccesso, la forza che rompe i confini della misura e mette in crisi ogni ordine stabilito. La tragedia, come scrive Jean-Pierre Vernant, “insegna all’uomo a convivere con il caos e la perdita, mostrando la fragilità della condizione umana” (Vernant, 1972). L’esperienza tragica non è solo dolore, ma anche un momento di catarsi e consapevolezza, in cui l’uomo accetta la propria finitezza e la complessità dell’esistenza.

La tragedia greca esercita così un ruolo fondamentale nel permettere alla cultura occidentale di confrontarsi con l’ignoto e il perturbante. Dioniso incarna questa forza destabilizzante, ma anche rigenerativa: la sua presenza richiama l’uomo a non ridursi a mera razionalità o controllo, ma a riconoscere il proprio lato oscuro e irrazionale.


5. L’eredità del pensiero tragico nella cultura occidentale

L’influenza di Dioniso e del pensiero tragico nella cultura occidentale si manifesta in molteplici ambiti, dalla filosofia all’arte, dalla letteratura alla psicoanalisi. Nietzsche stesso sottolinea che la tragedia è “la suprema arte della vita, che afferma la vita nonostante il dolore e la sofferenza” (Nietzsche, La nascita della tragedia, §24).

Nel mondo moderno, dominato da razionalismo e controllo, la forza dionisiaca rimane un richiamo fondamentale alla complessità dell’umano. Lacan afferma che “la psicoanalisi è il tentativo di non cancellare il reale dionisiaco, ma di farlo emergere per riconoscere la verità del soggetto” (L’etica della psicoanalisi). La cultura occidentale, quindi, continua a portare con sé l’eredità del tragico, ossia la capacità di confrontarsi con la divisione, l’ambiguità e l’impossibilità di una totalità definitiva.


6. Conclusioni: il valore eterno del tragico e del dio straniero

Dioniso e il pensiero tragico rappresentano un’apertura fondamentale al mistero e all’inafferrabile dell’esperienza umana. Essi insegnano a vivere con il limite, con il conflitto e con la perdita senza negare la possibilità della bellezza e della trasformazione. In un’epoca in cui la cultura tende spesso a semplificare e controllare, il richiamo dionisiaco resta un monito a non dimenticare la nostra natura complessa, fatta di luce e ombra, ordine e caos.


Bibliografia

  • Nietzsche, F. (1872). La nascita della tragedia.
  • Lacan, J. (1959-1960). Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi.
  • Kantzas P. (2011-2025), La Polis senza Creonte e senza Antigone. UNIFI ScienPo, Firenze.
  • Euripide. Le Baccanti.
  • Sofocle. Antigone, Edipo Re.
  • Vernant, J.-P. (1972). Mito e tragedia nell’antica Grecia. Einaudi.
  • Detienne, M. (1997). Dioniso e la violenza. Laterza.


Fuxi e Nüwa: sinthomo collettivo e mito cinese della soggettivazione tra reale e ordine simbolico

Fuxi e Nuwa


1. Introduzione

Il mito di Fuxi e Nüwa occupa un posto centrale nella mitologia cinese, non solo come narrazione delle origini del mondo umano e dell’ordine cosmico, ma anche come espressione profonda di una forma culturale di soggettivazione. A differenza del mito occidentale del padre edipico e della Legge come interdizione del godimento (Nome-del-Padre), la mitologia cinese fonda l’ordine attraverso atti di riparazione, equilibrio e armonizzazione. Questo contributo propone una lettura del mito alla luce dell’ultimo insegnamento di Jacques Lacan, considerando il ruolo del reale, dei meccanismi difensivi e del sinthomo come risposta al godimento opaco.

2. Il mito di Fuxi e Nüwa: riparazione, scrittura, ordine

Nüwa, dopo il disastro cosmico che rompe l’asse del cielo e squarcia la terra, ripara il mondo con atti simbolici e concreti: salda il cielo, ricuce la terra, ripristina l’armonia. Fuxi, suo fratello e sposo, completa l’opera dando origine alla scrittura, ai rituali, ai codici matrimoniali. Insieme, costituiscono un dispositivo mitico di ordinamento del mondo, che però non passa attraverso l’interdizione o il sacrificio, ma attraverso l’armonizzazione.

Da una prospettiva psicoanalitica, questa operazione può essere intesa come una risposta difensiva al reale del godimento: ciò che si rompe è la coerenza del simbolico, e la risposta non è la fondazione di una Legge padrecentrica, bensì un’opera di ricucitura e funzionalizzazione. Il reale non viene forcluso né del tutto simbolizzato, ma contenuto in un’architettura simbolica stabile.

3. Ultimo Lacan: sinthomo, reale e il limite del Nome-del-Padre

Nell’ultima fase del suo insegnamento (Seminari XX–XXIII), Lacan abbandona la centralità del Nome-del-Padre come significante universale della Legge. Il reale, in quanto eccedenza opaca e traumatica (jouissance), non è domabile dalla sola funzione paterna. Da qui, Lacan introduce il concetto di sinthomo: non più sintomo come messaggio da interpretare, ma come modo singolare di tenere insieme i tre registri RSI (Reale, Simbolico, Immaginario).

Il mito di Fuxi e Nüwa, letto in questa ottica, non fonda una Legge castrativa, ma un modo collettivo e culturale di “tenere insieme” il reale attraverso un sistema di scrittura, numeri, legami familiari, cosmologia. L’ordine non è fondato sul sacrificio o sulla perdita, ma su una sorta di “legame sinthomatico”: una scrittura mitica del godimento.

4. Meccanismi difensivi collettivi e ordine simbolico

Nel mito si può riconoscere l’attivazione di meccanismi difensivi culturali di tipo iscrittivo e ritualizzante. La sublimazione è certamente presente – l’arte del rito e della scrittura come forma culturalizzata del godimento – ma si affianca a una isolamento del reale, che viene arginato attraverso pratiche ordinatrici. Invece della rimozione (come in Occidente), qui agisce una ritualizzazione del godimento, che ne permette la coesistenza con l’ordine sociale.

Questo lascia intravedere anche un possibile lato oscuro: se il godimento non è mai veramente affrontato come mancanza, ma solo come caos da contenere, il soggetto può restare annodato al simbolico senza divisione, senza interrogazione desiderante. In questo senso, il mito mostra anche i limiti di una soggettivazione senza taglio.

5. Confronto con il mito occidentale

La mitologia greco-giudaico-cristiana fonda spesso l’ordine sul sacrificio: Prometeo punito, Edipo accecato, Isacco salvato ma quasi ucciso. In tutti questi casi, l’accesso alla legge passa attraverso una perdita, una castrazione, una dialettica con il desiderio. Il Nome-del-Padre vieta, fonda la Legge, separa il soggetto dal godimento.

Nel mito cinese, invece, non c’è colpa originaria né trasgressione fondamentale. L’ordine nasce non dalla castrazione ma dalla compensazione, non dal divieto ma dalla riparazione. Questa è una differenza strutturale che influenza anche le forme della soggettività, della famiglia, della trasmissione.

6. Conclusione: un sinthomo armonico ma opaco

Il mito di Fuxi e Nüwa mostra come una cultura può rispondere al reale del godimento non attraverso la Legge del Padre, ma attraverso una struttura sinthomatica collettiva, fatta di simboli, riti, ordine cosmico. Questo permette una forma di soggettivazione armonica, ma forse anche chiusa alla mancanza, resistente alla domanda e alla divisione.

Il mito, dunque, offre una soggettivazione possibile ma non universale, e ci invita a pensare i limiti di ogni costruzione simbolica che non includa il reale come buco, come mancanza. È in questo senso che la psicoanalisi lacaniana può incontrare la mitologia cinese: non per giudicare, ma per leggere la pluralità delle risposte al trauma del godimento.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1975). Encore. Il Seminario XX. Einaudi.
  • Lacan, J. (1974). RSI. Il Seminario XXI. Inedito, appunti.
  • Lacan, J. (1975-76). Le sinthome. Il Seminario XXIII. Einaudi.
  • Granet, M. (1922). La pensée chinoise. Albin Michel.
  • Cheng, F. (1997). Vide et plein. Le langage pictural chinois. Seuil.


sabato 17 maggio 2025

Fiabe russe come miti di soggettivazione: Il principe Ivan

Fiabe russe


Le fiabe popolari russe, in particolare quelle raccolte da Afanas’ev nel XIX secolo, possono essere lette non solo come narrazioni mitologiche o pedagogiche, ma come veri e propri miti di soggettivazione, cioè racconti simbolici in cui si articola la costituzione del soggetto nel suo rapporto con il desiderio, con la legge, con l'Altro. In questa prospettiva, la figura del Principe Ivan, protagonista di molte fiabe, diventa emblematica. Egli incarna un percorso iniziatico che mette in scena il passaggio da una posizione infantile, dipendente e ingenua, a una posizione adulta, capace di affrontare la mancanza, il lutto, la responsabilità e l’amore.


1. Struttura simbolica della fiaba

Secondo Vladimir Propp, nella Morfologia della fiaba (1928), la fiaba russa segue una sequenza fissa di funzioni, che rappresentano una struttura rituale arcaica: un evento iniziale rompe l’equilibrio (una perdita, un furto), l’eroe parte per cercare ciò che è stato tolto, incontra aiutanti magici, affronta prove, riceve doni, vince il male e torna trasfigurato. "Tutte le funzioni si susseguono in un ordine invariabile" (Propp, 1966, p. 23). Questa struttura può essere interpretata psicoanaliticamente come il percorso del soggetto alle prese con la perdita originaria, la ricerca dell’oggetto perduto, il confronto con l’Altro e con la Legge.

In particolare, il movimento narrativo è quello che Lacan ha descritto come passaggio dall’immaginario al simbolico, dalla dimensione narcisistica a quella del desiderio strutturato. Come afferma Lacan, "il desiderio è il desiderio dell’Altro" (Seminario XI, 1978, p. 235). Il soggetto-fiabesco parte sempre da una condizione di mancanza: il padre è insoddisfatto, l’oggetto è perduto, il regno è minacciato. Ma è proprio questa mancanza che mette in moto il desiderio e lo obbliga a partire.


2. Il Principe Ivan e l’Uccello di Fuoco: una ricerca dell’objet petit a

Nella fiaba "Il Principe Ivan, l'Uccello di Fuoco e il Lupo Grigio", Ivan si lancia alla ricerca dell’Uccello di Fuoco, dopo aver trovato una piuma brillante e incandescente. Il padre lo manda alla ricerca dell’uccello, ma il Lupo Grigio lo ammonisce: la piuma era già troppo, chiedere di più porterà guai. Ivan non ascolta e prosegue. Questa sequenza mostra un eccesso di desiderio, un rifiuto del limite simbolico.

L’Uccello di Fuoco rappresenta un oggetto seducente, inafferrabile, enigmatico: un perfetto esempio di "objèt petit a", l’oggetto causa del desiderio di cui parla Lacan: "non è ciò che si desidera, ma ciò per cui si desidera" (Seminario XI, 1978, p. 149). Non è un oggetto che soddisfa, ma un oggetto che incarna la mancanza. La sua presenza attiva il desiderio, ma non può essere posseduto senza conseguenze. Ivan lo insegue, ma ogni volta che si avvicina, perde qualcos’altro. L’Uccello sfugge, ma lo spinge avanti, in una catena metonimica del desiderio.


3. L’alleato inconscio: il Lupo Grigio

Il Lupo Grigio, che compare dopo la prima trasgressione di Ivan, è una figura ambivalente. Punisce, ma poi protegge. Porta Ivan sulle sue spalle, gli dona metamorfosi, lo guida. È una rappresentazione dell’inconscio come alleato: non l’Io padrone, ma la dimensione altra, che conosce la via, se ascoltata. Lacan sottolinea che "l'inconscio è strutturato come un linguaggio" e parla se il soggetto sa ascoltarlo (Seminario XI, 1978, p. 25).

Il Lupo si trasforma più volte: in cavallo, in Ivan stesso, in mezzo per entrare nel castello. Questa funzione polimorfa ricorda il gioco delle identificazioni immaginarie, ma soprattutto il ruolo della funzione analitica: il Lupo permette a Ivan di ingannare il potere, di cambiare pelle, di attraversare le prove.


4. La morte simbolica e la rinascita

Quando Ivan viene tradito dai fratelli e ucciso, assistiamo a una morte simbolica. Egli perde tutto: vita, amore, missione. Ma il Lupo, ancora una volta, interviene e lo fa risorgere con l’Acqua della Morte e l’Acqua della Vita. Questo passaggio non è solo narrativo, ma profondamente simbolico: per diventare soggetto, Ivan deve morire come oggetto dell’Altro (il padre, i fratelli, la missione). Solo così può rinascere non come eroe puro, ma come soggetto diviso, consapevole del limite, capace di amare e scegliere. Come nota Bettelheim: "solo attraverso una simbolica morte e rinascita l’eroe può diventare adulto" (Il mondo incantato, 1976, p. 214).


5. Soggetto e Altro nella cultura russa

Le fiabe russe mettono in scena un rapporto particolare con l’Altro: spesso severo, imprevedibile, non completamente inscrivibile nella Legge. Il Padre è figura distante, autoritaria; le forze celesti (animali, spiriti, potenze magiche) sono potenti ma ambigue. Questo contesto culturale offre uno sfondo originale alla soggettivazione: non si tratta di un’adesione docile alla Legge, ma di un confronto drammatico, tragico, spesso mistico con l’Altro.

Ivan è spesso ingenuo, ma non stupido. È l’idiota dostoevskiano: chi non sa, ma si lascia attraversare. La sua vittoria non dipende dalla forza, ma dalla capacità di lasciarsi modificare, di perdere, di fidarsi dell’inconscio. In questo senso, il suo percorso è paradigmatico per la soggettivazione: Ivan non trionfa, ma si trasforma.


Bibliografia essenziale

  • Afanas’ev, A. N. Fiabe russe. Milano: Mondadori, 1997.
  • Bettelheim, B. Il mondo incantato. Milano: Feltrinelli, 1976.
  • Freud, S. Il perturbante. In Opere, Torino: Bollati Boringhieri.
  • Lacan, J. Il Seminario. Libro V: Le formazioni dell’inconscio. Torino: Einaudi, 2004.
  • Lacan, J. Il Seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi, 1978.
  • Meletinskij, E. M. Il racconto fiabesco. Milano: Mondadori, 2001.
  • Propp, V. Morfologia della fiaba. Torino: Einaudi, 1966.
  • Propp, V. Le radici storiche dei racconti di magia. Torino: Einaudi, 1987.
  • Žižek, S. God in Pain: Inversions of Apocalypse. New York: Seven Stories Press, 2012.

venerdì 16 maggio 2025

Genealogia della Modernità: antecedenti filosofici


La modernità occidentale si costituisce come un dispositivo storico, simbolico ed economico che ha prodotto una nuova forma di soggettivazione. La filosofia critica del Novecento – da Nietzsche a Weber, da Heidegger a Marx – ha messo in discussione il presunto progresso lineare, rivelando le ambivalenze dell’epoca moderna. In questo contesto, anche la psicoanalisi freudiana e la sua riformulazione lacaniana possono essere comprese come espressioni e insieme strumenti critici della modernità.


1. Soggetto moderno e disincanto

Con Nietzsche, la modernità appare come epoca del “nichilismo”, cioè della crisi dei valori supremi. Dio è morto e l’uomo moderno si trova esposto a un vuoto simbolico. Weber traduce questo in termini sociologici: la razionalizzazione moderna porta al “disincantamento del mondo” (Entzauberung), ossia alla perdita di senso globale, sostituito da sistemi razionali e impersonali. Heidegger, da parte sua, parla di “oblio dell’essere” e riduzione dell’ente a mera risorsa (Bestand).

Lacan, riprendendo il cogito cartesiano, afferma che il soggetto della modernità nasce diviso: “là dove penso non sono, là dove sono non penso”. Il soggetto moderno è quindi effetto del linguaggio e dell’ordine simbolico, e non è padrone di sé.


2. Marx, Lacan e il soggetto espropriato

Marx è centrale per comprendere la modernità come ordine economico fondato sull’alienazione. Nella sua analisi, il capitalismo moderno espropria il lavoratore non solo del prodotto del suo lavoro, ma della sua stessa soggettività. Il soggetto moderno è spogliato della propria forza vitale, trasformato in funzione del profitto. Questa figura dell’alienazione economica anticipa, in chiave materialistica, ciò che Lacan chiamerà l’effetto di scissione strutturale del soggetto.

In particolare, Lacan elabora la nozione di plus-de-jouir (plusgodere) come ripresa del concetto marxiano di plusvalore. Dove Marx descrive l’estrazione del valore in eccesso da parte del capitale, Lacan individua un godimento in eccesso che il soggetto non può integrare, ma da cui è catturato. Il discorso del capitalista, nel Seminario XVII, mostra come il ciclo produzione–consumo aggiri la castrazione simbolica e prometta un godimento pieno, senza mancanza, rendendo però il soggetto ancora più alienato.


3. La psicoanalisi come figlia della modernità

La nascita della psicoanalisi, a cavallo tra XIX e XX secolo, non è casuale: essa è una risposta ai sintomi dell’epoca moderna. Il disagio nella civiltà freudiano (Das Unbehagen in der Kultur) evidenzia la tensione tra pulsione e legame sociale, tra godimento e legge. Freud individua nell’inconscio l’effetto del rimosso, e nella nevrosi la cifra del soggetto moderno. Lacan rilegge questa scoperta nella cornice del linguaggio, mostrando come l’Altro strutturi il desiderio.

In una società in cui la legge tradizionale si è indebolita e le figure simboliche dell’autorità sono evaporate, il soggetto è lasciato solo davanti al proprio godimento. Questo spiega anche l’aumento dei sintomi contemporanei: depressioni, dipendenze, acting-out. La psicoanalisi si offre così come dispositivo di lettura della crisi del soggetto moderno.


4. Tecnica, controllo e capitalismo contemporaneo

L’attuale fase del capitalismo, segnata dalla rivoluzione digitale e dal capitalismo delle piattaforme, intensifica le tendenze già presenti nella modernità. Heidegger aveva colto nella tecnica non un semplice insieme di strumenti, ma una modalità di svelamento del reale: tutto viene ridotto a risorsa disponibile. Il controllo digitale – basti pensare al sistema cinese di credito sociale, che attribuisce punteggi comportamentali ai cittadini, premiando o punendo in base alla conformità – rappresenta una nuova forma di governamentalità.

In questo contesto, la psicoanalisi lacaniana aiuta a comprendere come il soggetto venga interpellato non solo dall’Altro simbolico, ma anche da un Altro algoritmico, che conosce i suoi desideri prima che egli stesso li formuli. Il soggetto diventa così sempre più “trasparente” e, al tempo stesso, più inconsapevole.

5. Conclusione: genealogia critica del soggetto moderno

La genealogia della modernità ci mostra che il soggetto moderno non nasce libero, ma diviso, alienato, espropriato. La libertà promessa dalla modernità è spesso contraddetta dalle sue stesse strutture: razionalizzazione, accumulazione, controllo tecnico, standardizzazione.

Lacan, in dialogo implicito con Marx, Nietzsche, Weber e Heidegger, ci offre una chiave per pensare criticamente il soggetto contemporaneo. Non si tratta di rifiutare la modernità, ma di leggerla nei suoi dispositivi costitutivi e nelle sue aporie, per riaprire lo spazio di un desiderio che non sia ridotto a consumo né a prestazione.


Bibliografia

  • Freud, S. (1930). Il disagio della civiltà. Opere, vol. 10. Bollati Boringhieri.
  • Heidegger, M. (1954). La questione della tecnica. In Saggi e discorsi. Mursia.
  • Lacan, J. (1969–1970). Il Seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1968–1969). Il Seminario. Libro XVI: Da un Altro all’altro. Einaudi.
  • Lacan, J. (1970). Radiophonie. In Autres Écrits. Seuil.
  • Marx, K. (1844). Manoscritti economico-filosofici. Einaudi.
  • Marx, K. (1867). Il Capitale, vol. I. Editori Riuniti.
  • Nietzsche, F. (1887). Genealogia della morale. Adelphi.
  • Weber, M. (1919). La scienza come professione. Laterza.
  • Žižek, S. (1989). Il sublime oggetto dell’ideologia. Laterza.


giovedì 15 maggio 2025

Modernità: l'Epoca dell’Altro senza garanzia.


Modernità


1. Introduzione

La modernità, più che una semplice epoca storica, è un’esperienza soggettiva complessa, segnata da una trasformazione profonda del legame tra individuo, autorità, desiderio e godimento. Una lettura psicoanalitica della modernità – soprattutto di orientamento lacaniano – consente di cogliere le discontinuità simboliche, le nuove forme del disagio e le mutazioni dell’Altro che la caratterizzano. Il soggetto moderno non è semplicemente “più libero” o “più razionale”, ma è interpellato da un cambiamento strutturale dell’ordine simbolico, che incide sul modo in cui si costituisce il desiderio e si regola il godimento.


2. La decostruzione dell’Altro: crisi dell’ordine simbolico

Jacques Lacan ha posto la questione dell’“evaporazione del Padre” come uno dei tratti distintivi della modernità. Il Padre simbolico – funzione dell’ordine, del divieto e della Legge – si indebolisce sotto la pressione dell’egualitarismo democratico, della tecnoscienza e della disgregazione dei legami tradizionali.

“Non c’è Altro dell’Altro” (Lacan, Séminaire XI, 1964), afferma Lacan: l’ordine simbolico non può più contare su una garanzia ultima, trascendente. Questo provoca uno slittamento dal Nome-del-Padre a un’“iterazione di nomi”, ovvero a un regime simbolico pluralizzato, senza garanzia.

L’evaporazione del significante padrone produce un soggetto “iper-responsabile”, che deve costruire il proprio destino senza riferimenti stabili, e ciò apre lo spazio a nuovi sintomi: iperattività, angoscia, dipendenze, identità fragili.


3. L’ideologia dell’autonomia e il soggetto “sovrano”

La modernità esalta l’autonomia, l’autodeterminazione, l’autenticità. Tuttavia, dal punto di vista psicoanalitico, questa affermazione dell’“Io” è spesso un travestimento dell’ideale dell’Io (Ichideal), una maschera narcisistica dietro cui si cela l’angoscia di fondo di un soggetto non più sostenuto da un Altro consistente.

Come osserva Charles Melman:

“Il soggetto moderno è colui che ha perduto l’inscrizione simbolica del desiderio, ma non per questo rinuncia a godere” (Melman, L’homme sans gravité, 2002).

La psicoanalisi mostra come questa sovranità del soggetto sia spesso attraversata da un godimento senza limiti, che sfocia nell’auto-sfruttamento, nella medicalizzazione del disagio, nella depressione come nuova forma di legame con l’Altro scomparso.

4. Modernità e nuovo legame sociale: il “discorso capitalista”

Lacan, nel suo Séminaire XVII, formalizza il “discorso capitalista” come una mutazione dei legami sociali. In questo discorso, il soggetto viene messo in posizione di consumatore, separato dall’Altro e immerso in un ciclo infinito di godimento.

“Il discorso capitalista è folle, perché è insostenibile” (Lacan, 1969-70). Esso rimuove il limite, promette un godimento illimitato e cancella il punto di impossibilità attorno al quale si costituisce il desiderio.

Nel regime del discorso capitalista, l’oggetto a diventa un oggetto di consumo, il desiderio è trasformato in bisogno, e il soggetto è sempre in difetto rispetto a un godimento promesso ma mai pienamente raggiunto. La clinica odierna – fatta di ansie, dipendenze, depressioni, agiti – riflette questo slittamento strutturale.


5. Modernità e godimento: tra libertà e sintomo

L’accesso moderno a una molteplicità di stili di vita e di scelte non produce automaticamente una maggiore libertà soggettiva. Piuttosto, mette il soggetto davanti alla necessità di “inventare” il proprio legame con il godimento, di scegliere il proprio significante padrone, spesso senza il supporto di una tradizione simbolica condivisa.

“Nel momento in cui l’Altro vacilla, il soggetto è messo davanti alla necessità di fare esistere un legame laddove non ce n’è più uno garantito” (Miller, L’orientation lacanienne, 2005).

La sfida della modernità, dunque, non è tanto il superamento della Legge, ma la possibilità di costruire un nuovo legame, più contingente, ma non per questo privo di etica. Una psicoanalisi all’altezza della modernità non ha nostalgia del Padre, ma accompagna il soggetto nella creazione di un legame singolare con il desiderio.


6. La psicoanalisi come sintomo della modernità

Freud fonda la psicoanalisi nel cuore del passaggio alla modernità avanzata. La Vienna fin-de-siècle è una città attraversata dalle tensioni tra scienza e religione, tra tradizione patriarcale e liberalismo emergente, tra un’autorità in declino e un soggetto borghese che chiede di “parlare”. Non è un caso che la psicoanalisi nasca come scienza della parola e del desiderio, proprio nel momento in cui la Legge simbolica tradizionale – incarnata nella figura paterna borghese, medico, giudice o sacerdote – comincia a vacillare.

La nevrosi, al centro della clinica freudiana, è il sintomo del soggetto moderno che non riesce più a trovare un posto nel discorso sociale. Il disagio nella civiltà (Das Unbehagen in der Kultur, 1930) non è un semplice effetto collaterale, ma una verità strutturale della modernità: quando il godimento viene represso in nome della coesione sociale, si converte in sintomo. La psicoanalisi nasce per far parlare il soggetto dove la Legge non parla più, o parla troppo.

“Dov’era l’Es, sarà l’Io” (Wo Es war, soll Ich werden) – dice Freud (1933): ma questo Io non è padrone, è un luogo vuoto da costruire nel linguaggio.

In questo senso, la psicoanalisi è moderna, ma non modernista: si iscrive nella crisi della tradizione e della Legge, ma non crede alla redenzione del soggetto autonomo e trasparente. Al contrario, mostra la struttura dell’inconscio come condizione strutturale del soggetto parlante, e dunque i limiti della razionalità moderna.

“L’inconscio è la politica” – dirà Lacan (Séminaire XVII), nel senso che ogni soggetto è strutturato da un discorso, e nessuna autonomia può prescindere dalla sua dipendenza da un Altro.

La psicoanalisi è così una forma di pensiero radicalmente moderna perché riconosce il vuoto al centro del soggetto, ma anche una forma di resistenza alla deriva della modernità, quando questa vuol colmare quel vuoto con oggetti, tecnologie o ideologie totalizzanti.


7. Dal Discorso capitalista al Capitalismo digitale.

Nella sua ultima elaborazione, Lacan definisce il discorso capitalista come un discorso senza barriera, dove il soggetto è spinto a godere (jouir) senza passare per la mediazione simbolica del desiderio. Questo modello si è radicalizzato nel XXI secolo con il capitalismo digitale, in cui l’algoritmo prende il posto dell’Altro, prescrivendo desideri, preferenze e comportamenti.

“Il godimento è diventato un imperativo sociale: godi subito, mostra il tuo sé, ottimizza te stesso” – osserva Byung-Chul Han (La société de la transparence, 2012).

In questo quadro, la Legge è sostituita da un controllo invisibile, performativo, autoindotto. La psicoanalisi, con il suo invito a sostenere il desiderio nella sua opacità, può diventare un punto di resistenza contro l’omologazione del soggetto al modello di consumatore efficiente e performante.

“La psicoanalisi è contro il coaching, contro il management dell’anima, contro l’ottimizzazione del soggetto” – scrive Jacques-Alain Miller (L’orientation lacanienne, 2011).

Il soggetto moderno, così come analizzato da Freud e Lacan, è un soggetto diviso, attraversato da una mancanza che non può essere colmata dal consumo. In questo senso, la psicoanalisi è contemporanea alla modernità, ma non ne è una semplice espressione: è la sua interrogazione critica.

9. Conclusione

La modernità, nella lettura psicoanalitica, è la scena di una trasformazione radicale del legame simbolico. L’indebolimento dell’Altro, la crisi del significante padrone e l’invadenza del godimento ridefiniscono la posizione del soggetto e del suo sintomo. Lacan non offre una critica della modernità in senso reazionario, ma una diagnosi delle sue tensioni strutturali. La psicoanalisi si pone così non come difesa dell’ordine perduto, ma come spazio per l’elaborazione soggettiva del vuoto lasciato dall’Altro, in vista di un’etica del desiderio rinnovata.


10. Bibliografia estesa e citazioni aggiuntive

  • Freud, S. (1930). Das Unbehagen in der Kultur (Il disagio della civiltà).
  • Freud, S. (1933). Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse.
  • Ehrenberg, A. (1998). La fatigue d’être soi. Odile Jacob.
  • Lacan, J. (1969–70). Séminaire XVII: L’envers de la psychanalyse. Seuil.
  • Lacan, J. (1972–73). Séminaire XX: Encore. Seuil.
  • Miller, J.-A. (2011). L’orientation lacanienne – La fuite du sens. Cours inédit.
  • Han, B.-C. (2010). La société de la fatigue. L’Arachnéen.
  • Han, B.-C. (2012). La société de la transparence. L’Arachnéen.
  • Melman, C. (2002). L’homme sans gravité: Jouir à tout prix. Denoël.
  • Žižek, S. (1999). The Superego and the Act. In: The Ticklish Subject. Verso.
  • Foucault, M. (1976). Histoire de la sexualité I: La volonté de savoir. Gallimard.
  • Castel, R. (1995). Les métamorphoses de la question sociale. Gallimard.
  • Harari, Y. N. (2017). Homo Deus. Harvill Secker.
  • Stiegler, B. (2010). Ce qui fait que la vie vaut la peine d’être vécue. Flammarion.

mercoledì 14 maggio 2025

Islam e modernità: movimenti di flessibilizzazione della legge simbolica

 


Introduzione Il confronto tra Islam e modernità è uno dei terreni più controversi e culturalmente densi dell'epoca contemporanea. Una lettura psicoanalitica di tipo lacaniano non si propone di giudicare o classificare l'Islam, ma di analizzare il rapporto del soggetto musulmano con la Legge simbolica, il significante padrone (S1), il godimento (jouissance) e il discorso dell'Altro. Laddove la modernità occidentale è segnata dalla crisi del Nome-del-Padre e dalla pluralizzazione dei discorsi, alcune forme dell'Islam sembrano mantenere un rapporto più stabile e normativo con l'S1. Tuttavia, esistono contesti e dinamiche in cui tale rapporto si flessibilizza, aprendo spazi inediti per una soggettivazione più libera, persino per forme di Islam laico.

1. Il Nome-del-Padre e la Legge simbolica nell'Islam In Lacan, la funzione del Nome-del-Padre è quella di inscrivere il soggetto nel campo dell'Altro, ordinando il desiderio tramite l'interdizione. Nell'Islam tradizionale, il significante di Dio è radicalmente Uno, non rappresentabile, e il Corano è considerato la Parola stessa di Dio, non interpretazione umana. Il rapporto con la Legge è dunque diretto, senza mediazione ecclesiastica. Ciò implica una forma molto forte di legame tra S1 e l'Altro, che può strutturarsi in un discorso del padrone stabile ma poco aperto alla rotazione dei discorsi (Lacan, "Seminario XVII").

La Legge, in questo contesto, non è solo un dispositivo giuridico o morale, ma un elemento strutturante dell'identità soggettiva. Questo porta ad una forma di godimento che si lega fortemente al simbolico, impedendo la deriva verso un godimento fuori-legge, come invece accade in molte configurazioni postmoderne. Tuttavia, questa stabilità simbolica può anche irrigidirsi, generando strutture soggettive fondate sulla sottomissione letterale più che sul desiderio.

2. Modernità e crisi del Padre La modernità occidentale, secondo Lacan, è marcata dall'evaporazione del Padre, dalla decostruzione dell'Altro come garante assoluto, e dalla proliferazione del godimento fuori legge. Laddove l'Islam tende a mantenere il legame tra Legge e senso, la modernità introduce una scissione tra godimento e simbolico, che spesso si manifesta come crisi soggettiva o come fondamentalismo reattivo. In questo senso, il fondamentalismo può essere letto come un ritorno iperbolico del significante padrone in risposta al vuoto dell'Altro (Recalcati, 2007).

La reazione fondamentalista è, da un punto di vista lacaniano, una risposta alla deregolazione del godimento. Essa cerca di restaurare un S1 forte, unificante, capace di rimettere ordine nel caos pulsionale. Ma ciò avviene spesso a prezzo della soggettività, che viene sacrificata in nome di una comunità immaginaria assoluta. Il rischio è quello di un ritorno del Padre in forma feroce, come significante di morte piuttosto che di vita simbolica.

3. Luoghi di flessibilizzazione del rapporto con la Legge simbolica

3.1. Turchia post-kemalista La secolarizzazione forzata operata da Atatürk ha prodotto una separazione tra S1 religioso e S1 statale. Nelle generazioni successive, alcuni intellettuali hanno cercato una sintesi tra fede e laicità, come nel caso di Ahmet Insel, che parla di "religiosità senza religione istituzionale". Questa tensione produce aperture nella struttura discorsiva dominante.

Allo stesso tempo, la Turchia contemporanea mostra un panorama sfaccettato, dove giovani musulmani reinterpretano la propria identità religiosa in relazione a valori democratici e pluralisti. In questo senso, il discorso dell'università e della scienza entra in competizione con il discorso religioso tradizionale, producendo effetti di soggettivazione e nuove forme di godimento.

3.2. Iran sciita e riformismo teologico All'interno dello sciismo iraniano, autori come Abdolkarim Soroush propongono una distinzione tra religione in sé (divina) e conoscenza religiosa (umana, fallibile). È una mossa che de-totalizza il significante religioso, aprendo uno spazio di interrogazione soggettiva: "La religione è sacra, ma la nostra comprensione della religione non lo è" (Soroush, 2000).

Questa distinzione introduce una dimensione ermeneutica che implica il riconoscimento del desiderio del soggetto come parte integrante del processo religioso. Il sapere religioso non è più una verità monolitica, ma un campo di interpretazione. Il Nome-del-Padre non scompare, ma si decentra, lasciando emergere il soggetto diviso.

3.3. Femminismi islamici Intellettuali come Fatima Mernissi e Amina Wadud hanno decostruito la lettura patriarcale della Shari‘a, proponendo una rilettura del Corano alla luce dell’uguaglianza di genere. Ciò comporta uno scollamento tra S1 religioso e sua funzione normativa assoluta: un tentativo di soggettivazione simbolica dell'esperienza religiosa.

Nel femminismo islamico, la questione del corpo femminile e del desiderio viene riportata al centro del discorso. Il godimento non è più esclusivamente maschile o paterno, ma si apre alla pluralità. Questo implica un lavoro di traduzione simbolica che decostruisce l'immaginario patriarcale e apre spazi per nuove configurazioni discorsive e affettive.

3.4. Diaspora musulmana in Europa Nei contesti migratori, l'incontro con la modernità europea produce una tensione soggettiva tra identificazioni familiari e discorsi sociali nuovi. In alcuni giovani musulmani emergono elaborazioni ibride, dove l'Islam non è più un S1 dominante, ma un punto di risonanza simbolica, una lingua intima del desiderio.

Molti di questi soggetti si muovono tra differenti registri simbolici, creando forme originali di appartenenza. Il velo, ad esempio, può essere vissuto non come imposizione, ma come scelta simbolica. La diaspora, in quanto condizione di sradicamento e ridefinizione, genera un terreno favorevole alla flessibilizzazione del rapporto con la Legge.

3.5. Sufismo e godimento simbolico Il sufismo, con la sua enfasi sul rapporto amoroso con Dio, decostruisce l'immagine del Dio legislatore assoluto a favore di un Dio amante. Questo sposta il godimento fuori dal dominio del padre, verso una dimensione simbolico-poetica che ricorda l'elaborazione mistica del godimento (Nasr, 1972).

Nel sufismo, il desiderio non è represso, ma sublimato attraverso la danza, la musica, la poesia. Il corpo trova una sua lingua nel simbolico. Ciò rappresenta un contro-discorso rispetto al fondamentalismo, capace di articolare un Altro non totalizzante, un Dio che si dona nella mancanza e non nella legge rigida.

Conclusione La flessibilizzazione del rapporto con la Legge simbolica nell’Islam non è un processo lineare, ma si manifesta in pieghe soggettive, culturali e politiche. Una lettura lacaniana consente di riconoscere in questi movimenti non una perdita di identità, ma una possibilità di simbolizzazione nuova, dove l’S1 non è più un dogma, ma una soglia di interrogazione.

In questo senso, un Islam laico è possibile là dove si separa l’ordine del simbolico dalla presa totalizzante dell’Altro. Ciò non implica un rifiuto dell’Islam, ma una sua reinvenzione come spazio aperto al desiderio, alla differenza e alla molteplicità. Una soggettività musulmana può emergere come soggettività simbolica, non ridotta alla legge, ma capace di riscriverla nel proprio incontro con l’Altro.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1991). Il Seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1975). Il Seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.
  • Recalcati, M. (2007). Cosa resta del padre? La paternità nell'epoca ipermoderna. Cortina.
  • Soroush, A. (2000). Reason, Freedom, and Democracy in Islam. Oxford University Press.
  • Mernissi, F. (1991). Il harem politico. Giunti.
  • Wadud, A. (1999). Qur'an and Woman. Oxford University Press.
  • Nasr, S.H. (1972). Sufi Essays. SUNY Press.
  • Arkoun, M. (2002). The Unthought in Contemporary Islamic Thought. Saqi Books.
  • Insel, A. (2003). Laicité, liberté de conscience et pluralisme religieux. In Revue des mondes musulmans et de la Méditerranée.
  • Ramadan, T. (2004). Western Muslims and the Future of Islam. Oxford University Press.


Woke e Cancel Culture

 


1. Introduzione: il ritorno della Legge come sintomo Viviamo in un'epoca in cui la crisi del significante padrone tradizionale lascia spazio a nuove formazioni discorsive che tentano di riorganizzare il campo simbolico. Tra queste, il fenomeno woke e la cancel culture si impongono come dispositivi sociali e culturali che, pur proponendosi come emancipatori, sembrano talvolta generare nuove forme di esclusione, angoscia e irrigidimento del legame sociale.

La psicoanalisi lacaniana, con la sua attenzione al rapporto tra soggetto, linguaggio e Legge, offre una chiave di lettura originale e critica di questi fenomeni. Lungi dal liquidarli come semplici mode culturali, si tratta di coglierne la struttura desiderante e le impasse soggettive che li accompagnano.

2. Il Woke come nuovo Super-Io Nato da una spinta legittima contro le discriminazioni razziali, di genere e sociali, il discorso woke si costituisce come un nuovo regime simbolico che tende a ridefinire i codici linguistici e comportamentali. Tuttavia, questa nuova etica del linguaggio si trasforma spesso in un imperativo assoluto: "parla bene, pensa giusto, non offendere mai". Qui Lacan ci aiuta a riconoscere la struttura del Super-Io, che, lungi dall'essere la semplice interiorizzazione della legge, si manifesta come comando paradossale: "godrai nel tuo essere giusto, ma non abbastanza".

Alcuni esempi concreti possono aiutare a chiarire questo meccanismo. In molte università americane e britanniche, vengono adottate liste di parole "consigliate" e "sconsigliate" per evitare di urtare la sensibilità di gruppi minoritari: ad esempio, sostituire "slave" con "enslaved person" nei manuali di storia o evitare il termine "crazy" anche in contesti colloquiali. Simili pratiche si sono estese anche alla revisione di classici letterari, come nel caso di alcune edizioni di Roald Dahl e Agatha Christie, dove editori hanno modificato termini ritenuti oggi offensivi.

Lungi dall'essere una liberazione, questa nuova moralità produce un soggetto colpevole per struttura, sempre in difetto rispetto alla norma etica. Si tratta di un godimento colpevole, che sostituisce il desiderio con il dovere, e il transfert con la sorveglianza.

3. Cancel Culture e la forclusione del sintomo La cancel culture si inserisce come pratica di espulsione simbolica del soggetto "colpevole". Non si tratta più di criticare, interpretare, elaborare il senso di un'opera o di una dichiarazione, ma di rimuoverla, annullarla, eliminarla dalla memoria collettiva. Questo meccanismo ha tratti profondamente rituali: è un sacrificio simbolico che mira a restaurare un ordine infranto.

Esempi noti includono la rimozione di statue di figure storiche come Cristoforo Colombo o Winston Churchill, accusati di colonialismo o razzismo; o ancora, l'esclusione pubblica e professionale di artisti, scrittori o professori universitari per affermazioni ritenute offensive, anche se contestualizzate o datate. Il caso di J.K. Rowling, accusata di transfobia per alcuni suoi tweet, è emblematico della tensione tra libertà d’espressione e sensibilità collettiva.

In termini lacaniani, potremmo parlare di una forclusione del sintomo: il soggetto che manifesta una contraddizione, un resto non integrabile, viene espulso dal discorso invece che accolto nel lavoro del desiderio. In tal modo, la cancel culture tenta di costruire un Altro senza mancanza, un ordine simbolico perfetto, senza remainder.

4. Il rifiuto della castrazione e le nuove forme di angoscia Sia il woke che la cancel culture condividono una difficoltà strutturale: l'incapacità di sostenere la castrazione simbolica, ovvero l'assunzione del limite come fondamento del desiderio. Laddove si pretende un linguaggio puro, un'identità non contraddetta, una giustizia senza resto, si produce inevitabilmente angoscia.

Il desiderio, secondo Lacan, nasce dalla mancanza nell'Altro. Laddove l'Altro viene saturato di senso e di legge, il soggetto non può che provare colpa o silenziarsi. La parola, invece di essere luogo di apertura, diventa spazio di pericolo. È qui che si manifesta la sofferenza soggettiva contemporanea: non solo la censura, ma l'autocensura; non solo l'espulsione, ma la vergogna di esistere in quanto desideranti.

5. Woke e Cancel Culture: sintomi di un disagio nel legame sociale Questi fenomeni possono essere letti come tentativi di ricostruzione di un legame sociale perduto, ma lo fanno attraverso una via perversa: la negazione del conflitto, dell'ambiguità, della differenza come strutturale. Non è un caso che nella cancel culture manchi lo spazio del transfert, cioè della relazione dialettica con l'Altro come luogo del senso in costruzione.

La psicoanalisi, invece, invita a una pratica del discorso che faccia posto al sintomo, al non-sapere, alla domanda. Ciò che oggi viene rapidamente silenziato, potrebbe invece divenire occasione di parola, di elaborazione, di costruzione soggettiva. Anziché cancellare il soggetto, si potrebbe sostenere il suo dire.

6. Conclusione: per una politica del desiderio Una lettura lacaniana del fenomeno woke e della cancel culture non propone un ritorno nostalgico al Padre o all'ordine simbolico tradizionale. Piuttosto, suggerisce la necessità di una politica del desiderio: una pratica sociale e culturale che non cerchi identità pure o linguaggi perfetti, ma che faccia posto alla mancanza, al conflitto, all'inconscio.

Solo in questa prospettiva è possibile ricostruire un legame sociale non fondato sulla colpa o sull'espulsione, ma sul riconoscimento della divisione soggettiva come condizione di ogni parola autentica.


🔍L'Analisi in Lacan

Fare un’ analisi secondo Jacques Lacan non è semplicemente parlare dei propri problemi. È un’esperienza trasformativa, in cui il soggetto ...