mercoledì 30 aprile 2025

Lo scontro di civiltà e l’emergere di un’etica della responsabilità condivisa


Abstract

L’articolo esplora la relazione tra le principali civiltà contemporanee, come delineato da Samuel Huntington, e le strutture simboliche che le sostengono, mettendo in dialogo questa analisi con la teoria lacaniana della soggettività e del legame. In particolare, si indaga come, in un mondo multipolare attraversato da crisi e disgregazioni, possa emergere un’etica della responsabilità reciproca. Attraverso il confronto tra civiltà occidentale, islamica, sinica e altri poli culturali, si delinea il tentativo di superare sia la chiusura identitaria che l'universale astratto, aprendo la possibilità di un riconoscimento fondato sulla mancanza condivisa, sulla vulnerabilità e sul desiderio dell’Altro.


1. Introduzione: oltre lo scontro di civiltà

Samuel Huntington, nella sua celebre opera The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order (1996), ha sostenuto che il conflitto del XXI secolo sarebbe stato caratterizzato dal confronto tra diverse "civiltà", ognuna definita da radici culturali e religiose distinte. L'Occidente, l'Islam, la Cina e altre civiltà sarebbero emerse come poli di potere e valori contrapposti. Sebbene la tesi di Huntington abbia suscitato ampie critiche per il suo determinismo e la sua rigidità, il suo concetto di "scontro culturale" è rimasto una chiave di lettura delle dinamiche geopolitiche contemporanee.

Tuttavia, in un mondo sempre più interconnesso, i confini tra le civiltà non sono così netti, e le frizioni culturali si mescolano nei contesti globalizzati, nelle città cosmopolite e nei flussi migratori. La domanda centrale che emerge da questa dinamica è: può esistere una forma di etica condivisa tra civiltà, fondata sul riconoscimento reciproco e sulla responsabilità?


2. Le strutture simboliche delle civiltà: una lettura lacaniana

Lacan, nel suo seminario Il rovescio della psicoanalisi (1969-70), ha indicato che ogni civiltà si fonda su una struttura simbolica che organizza il desiderio e i legami. Le civiltà contemporanee, quindi, non sono solo unità politiche o culturali, ma strutture simboliche che plasmano la soggettività degli individui.

  • L’Occidente post-cristiano, in particolare, ha attraversato un processo di svuotamento simbolico, in cui il "Nome-del-Padre" (la figura autoritaria e simbolica che organizza la vita sociale) ha perso il suo ruolo centrale. Questo ha dato origine a una soggettività che Lacan descrive come il "discorso del capitalista", un ordine simbolico che, come nota Žižek, "è centrato sul godimento senza mancanza", in cui l’individuo è spinto a competere e a consumare in modo perenne, senza mai trovare soddisfazione.

  • Il mondo islamico, al contrario, continua a mantenere un S1 (Significante padrone) solido, rappresentato dalla legge religiosa e dall’autorità spirituale. Tuttavia, questa struttura simbolica è sotto pressione, in particolare con le tensioni tra sunnismo e sciismo, e con il conflitto tra la tradizione religiosa e le sfide della modernità. Lacan, nella sua teoria del S1, ci ricorda che l’ordine simbolico di una civiltà non è mai statico, ma in continua trasformazione.

  • La civiltà sinica, infine, fonda la sua organizzazione simbolica sulla coordinazione armonica dello Stato e della famiglia, come delineato nel pensiero confuciano. Qui, il legame sociale è il risultato di una visione integrata del soggetto all'interno della comunità, e il riconoscimento reciproco è spesso mediato dal rispetto per l'autorità statale.

In queste diverse strutture, il riconoscimento e la responsabilità sono giocati a livelli distinti, ma il loro impatto sulle relazioni tra le civiltà è fondamentale. Come sottolineato da Axel Honneth (1992), il riconoscimento reciproco è alla base di ogni giustizia sociale, e il conflitto tra diverse forme di riconoscimento è una delle chiavi per comprendere le disuguaglianze globali.


3. Il ritorno del soggetto responsabile

Lacan ci insegna che il soggetto non nasce dall’identità, ma dalla mancanza e dalla divisione. Ogni soggetto è costituito dal desiderio di riconoscimento, ma anche dalla sua fragilità. L’etica del riconoscimento non si fonda su un universale astratto, ma sulla responsabilità verso la mancanza dell’altro. Come sostiene Paul Ricoeur (1990) nel suo concetto di "etica della responsabilità", l’essere umano è chiamato a rispondere non solo agli altri, ma anche a ciò che è vulnerabile e irriducibile.

In una situazione globale multipolare, la responsabilità non può più essere solo un atto di individualismo, ma deve riconoscere la relazione interdipendente tra i popoli e le civiltà. Judith Butler (2004) sottolinea che la vulnerabilità è ciò che ci lega come esseri umani, e che ogni forma di giustizia deve essere costruita sulla base di questo riconoscimento della nostra condizione fragile e interconnessa.


4. Verso un’etica inter-civiltà: né relativismo né imposizione

In un mondo plurale, non possiamo accontentarci di un relativismo che nasconda le disuguaglianze, né di un’imposizione universale che neghi le differenze culturali. Come argomentato da Charles Taylor (2007), un’etica inter-civiltà deve essere in grado di riconoscere le diverse strutture simboliche, ma anche di trovare spazi condivisi per il dialogo e il riconoscimento reciproco.

Un’etica della responsabilità non può imporsi dall'alto, ma deve costruirsi attraverso la comunicazione simbolica e il riconoscimento delle differenze. Derrida (1997) ha parlato di "ospitalità" come la modalità fondamentale di relazione con l’altro, dove accogliere l’estraneo senza pretese di dominio è il primo passo per una responsabilità reciproca.


5. Conclusione: un mondo comune da costruire

La crisi dell’Occidente e l’emergere di altre potenze globali non devono essere visti solo come rischi, ma come opportunità di rinnovare la nostra visione del legame sociale. Un’etica della responsabilità reciproca non implica una uniformità culturale, ma una consapevolezza della fragilità condivisa e della necessità di riconoscere l’altro come parte integrante della nostra umanità.

Questo processo, come sostiene Giorgio Agamben (2003), non passa attraverso la conquista del potere, ma attraverso l’abitare le crepe del potere stesso, attraverso pratiche quotidiane di cura, accoglienza e dialogo. È nella responsabilità condivisa che possiamo iniziare a costruire un nuovo spazio comune, fondato non su identità chiuse, ma sul riconoscimento della nostra vulnerabilità collettiva.


Bibliografia

  • Agamben, G. (2003). L’amico.
  • Butler, J. (2004). Precarious Life: The Powers of Mourning and Violence.
  • Derrida, J. (1997). De l’hospitalité.
  • Honneth, A. (1992). Kampf um Anerkennung: Zur moralischen Grammatik sozialer Konflikte.
  • Huntington, S. (1996). The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order.
  • Lacan, J. (1969-70). Il seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi.
  • Ricoeur, P. (1990). Soi-même comme un autre.
  • Taylor, C. (2007). A Secular Age.


martedì 29 aprile 2025

Il soggetto eccedente: Arendt, Lacan e la superfluità dell’umano"

Ritorno all'agora' Hopper



Nel cuore della modernità, dominata dal progresso tecnologico e dalla crescente centralità del capitale, emerge una contraddizione significativa: le capacità tecniche si moltiplicano, ma il riconoscimento della soggettività politica e sociale dell'umano sembra progressivamente indebolirsi. Hannah Arendt e Jacques Lacan offrono strumenti filosofici e psicoanalitici cruciali per comprendere la marginalizzazione della soggettività in un mondo sempre più automatizzato e tecnicizzato. La loro riflessione ci permette di esplorare le radici di questa esclusione e la sua concreta manifestazione nel nostro vivere quotidiano.

Hannah Arendt, nelle sue "Origini del totalitarismo" (1951), individua un fenomeno preoccupante: l'emergere di “esseri umani superflui” che, espulsi dallo spazio pubblico e dal riconoscimento sociale, non sono più in grado di rivendicare i loro diritti. Arendt lega questa condizione alla perdita di un agire autentico, alla scomparsa dell'azione politica in favore di una vita dedita esclusivamente alla gestione e al consumo. In "La vita activa" (1958), la filosofa distingue tra il lavoro, il lavoro manuale, e l’azione, concependo quest'ultima come la pratica della libertà che prende forma nel discorso e nell’interazione pubblica. Con il predominio della logica economico-tecnica, lo spazio per l'azione viene progressivamente ridotto, e la politica diventa amministrazione e gestione.

In parallelo, Lacan ci offre una visione complementare ma distinta del soggetto. Secondo Lacan, il soggetto non è un’entità preesistente, ma emerge come effetto del linguaggio e delle strutture simboliche che lo determinano. In "Écrits" (1966), Lacan introduce il concetto di soggetto barrato, un soggetto intrinsecamente incompleto e sempre in conflitto con l'altro, che non può mai essere ridotto alla sua dimensione biologica o individuale. La crisi del Nome-del-Padre, inteso come figura simbolica della legge e della legge del desiderio, non rappresenta solo la fine dell’autorità patriarcale tradizionale, ma segna una crisi profonda del legame sociale. L’individuo, in un contesto di dominio capitalista e tecnologico, tende a essere ridotto a funzione o macchina, privo di spazio per l’espressione autentica della propria soggettività.

Tuttavia, Lacan ci ricorda che qualcosa di irriducibile sfugge alla logica dell’integrazione e della razionalizzazione: un resto, una eccedenza che non può essere catturata dalla norma sociale o economica. In questo senso, la condizione di "superfluità" di cui parla Arendt non deve essere intesa solo come una condizione subita, ma come un’opportunità per ripensare la politica: l’eccedenza è anche ciò che consente al soggetto di interpellare, di interrompere il dato, di iniziare qualcosa di nuovo. Il soggetto, quindi, non è semplicemente un oggetto passivo della storia, ma porta in sé la possibilità di agire e di rispondere alla realtà in modo creativo.

In sintesi, la superfluità descritta da Arendt non è solo una condizione di passività sociale, ma rappresenta il punto di partenza per una riflessione sul politico come inizio. Come scrive Lacan, è solo nell'incontro con la mancanza che il soggetto può prendere parola, e dunque compiere un atto di soggettivazione. La politica per Arendt è sempre una politica di iniziativa e di azione condivisa, che non teme la pluralità e l’incertezza. Entrambi, Arendt e Lacan, ci invitano a riconoscere che ogni soggetto, pur nelle condizioni più marginali, porta in sé la capacità di rispondere, di trasformare, e di ridefinire la propria posizione nel mondo. 


Bibliografia:

  • Arendt, H. (1951). Le origini del totalitarismo. Einaudi.
  • Arendt, H. (1958). La vita activa: La condizione umana. Einaudi.
  • Kantzas, P. (2011-2025), La Polis senza Antigone e senza Creonte. Seminario permanente. ScienPo Unifi
  • Lacan, J. (1966). Écrits. Seuil.
  • Lacan, J. (1973). Il Seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.


lunedì 28 aprile 2025

Il reale del corpo nell’arte di Tracey Emin

 

Tracey Emin 1


L’arte di Tracey Emin in mostra a Palazzo Strozzi, Firenze (marzo-luglio 2025), dal titolo Sex and Solitude si distingue per un’esposizione diretta e senza mediazioni della dimensione più vulnerabile dell’esistenza.
Attraverso il corpo, Emin esplora il Reale: ciò che resiste al linguaggio, che si manifesta come trauma, mancanza, memoria incisa nella carne.

Non si tratta di raccontare il corpo idealizzato o celebrato, ma il corpo segnato dall’esperienza, capace di testimoniare ciò che sfugge alle rappresentazioni comuni.

1. Gli anni ’90: il trauma come materia artistica

Negli anni ’90, Emin porta sulla scena artistica temi personali e dolorosi, senza alcuna preoccupazione per il pudore o la convenzione.
Opere come Everyone I Have Ever Slept With (1995), Why I Never Became a Dancer (1995) e My Bed (1998) presentano il corpo come spazio reale del trauma e della disgregazione.

La confessione, il disordine, l’esposizione delle ferite non sono teatralizzazioni, ma presenze che infrangono ogni distanza estetica.
Qui il Reale si impone nella sua forma più cruda, al di là di ogni tentativo di sublimazione.

2. Gli anni 2000: la memoria come traccia del Reale

Nel decennio successivo, il linguaggio di Emin si fa più essenziale.
Nei disegni, nei dipinti e nelle installazioni più mature, il corpo si racconta attraverso segni minimi, frammenti di memoria che emergono quasi in punta di piedi.

In opere come Self-Portrait: Bath (2005) e The Last Great Adventure is You (2014), la dimensione traumatica non scompare, ma si trasforma in traccia, in presenza silenziosa.
Il Reale non viene rimosso, ma accolto nei suoi resti, nelle sue iscrizioni più sottili.

3. Gli anni recenti: l’esperienza della perdita

Negli anni più recenti, Emin affronta il tema della perdita in modo ancora più essenziale.
The Mother (2017-2022) e I Want My Time With You (2018) testimoniano un rapporto con il corpo che non cerca più di reagire o di esporsi, ma piuttosto di abitare la mancanza.

La maternità mancata, il tempo che passa, le separazioni: tutto si condensa in opere che non gridano, ma che lasciano emergere una presenza fragile e persistente.

Il Reale qui non è più l’urgenza del trauma: è l’accettazione della mancanza come parte inevitabile dell’esperienza umana.

Il corpo come luogo del Reale

Il percorso di Tracey Emin mostra come l’arte possa essere uno spazio per attraversare il Reale senza negarlo.
Dal trauma alla memoria, dalla ferita alla perdita, il corpo resta il luogo privilegiato in cui ciò che resiste al linguaggio può manifestarsi.

La sua opera invita a riconoscere che la fragilità, lungi dall’essere un limite, è una delle forme più autentiche di presenza nel mondo.


domenica 27 aprile 2025

Il non-rapporto sessuale e l’amore come supplenza simbolica: articolazioni nella logica del godimento



L'affermazione lacaniana secondo cui “il rapporto sessuale non esiste” (Seminario XX, Encore) indica l’impossibilità di una scrittura che formalizzi una complementarità tra i sessi. Il sessuale non trova corrispondenza in alcun sapere simbolico: la sessualità è originariamente frammentaria e segnata dalla disgiunzione tra i significanti del soggetto.
Il soggetto dell'inconscio, effetto del significante, è costitutivamente separato da un'eventuale armonia naturale. Il linguaggio introduce una mancanza strutturale che impedisce l’instaurarsi di un rapporto fondato su una reciprocità piena.

In questa prospettiva, il desiderio si istituisce come desiderio dell'Altro, secondo l'insegnamento del Seminario XI. Non vi è un oggetto predato naturalmente, ma piuttosto il vuoto di una domanda mai pienamente saturabile.
Il godimento (jouissance), dal canto suo, si presenta come eccedenza rispetto alla catena significante: un impossibile che non si lascia articolare simbolicamente. Lacan lo definisce come “godimento proibito all’essere che parla” (SXX), manifestandosi come una spinta pulsionale sorda alle mediazioni del linguaggio.

In tale configurazione, l’amore si presenta come supplenza. Non sopprime la mancanza del rapporto sessuale, ma tenta di rimediare simbolicamente a questa assenza. L’amore istituisce uno spazio di riconoscimento tra i soggetti, pur sapendo che l’Altro è strutturalmente mancante.
Come recita Lacan:

“Amare è dare ciò che non si ha a qualcuno che non lo vuole” (Seminario VIII).

L’amore, pertanto, è fondato sulla donazione della mancanza stessa, e si inscrive nella logica dell’impossibile.

Un passaggio essenziale, sviluppato nel Seminario XX, precisa che:

“È solo nell’amore che il godimento accondiscende al desiderio.”

Il godimento, generalmente impermeabile al registro simbolico, può — nell’amore — piegarsi alla trama del desiderio, accettando la mediazione della domanda d'amore. Tale “accondiscendenza” non significa eliminazione del godimento, bensì apertura di uno spazio in cui l’eccesso godente si lascia filtrare dal desiderio. L’amore, quindi, istituisce un compromesso simbolico tra l’immediatezza pulsionale del godimento e l’articolazione linguistica del desiderio.

La differenziazione lacaniana tra godimento maschile e femminile rende ulteriormente complessa la questione.
Il godimento maschile, inscritto nella funzione fallica, si struttura come limitato: il soggetto maschile è subordinato alla legge della castrazione, sotto l'egida del Nome-del-Padre, e il suo godimento è circoscritto entro il regime del significante.
Il godimento femminile, al contrario, introduce una dimensione supplementare. Lacan lo designa come un godimento “oltre il fallo”, non tutto riconducibile alla funzione fallica, un godimento senza nome e senza misura, che eccede le possibilità della simbolizzazione. Si tratta di un godimento "Altro", affine all’esperienza mistica.

In entrambi i casi, tuttavia, l’amore funge da operatore simbolico che tenta di articolare l’inarticolabile.
Nella posizione maschile, l’amore può limitare l’eccesso della pulsione fallica; nella posizione femminile, può offrire una rappresentazione simbolica parziale di un godimento altrimenti indicibile.

In conclusione, il non-rapporto sessuale enunciato da Lacan non costituisce un difetto accidentale, ma è la struttura stessa della sessuazione nel campo dell’essere parlante. L’amore si pone come supplenza a questa impossibilità: tenta di mediare tra il desiderio e il godimento, costruendo un legame che non colma la mancanza, ma ne istituisce simbolicamente l'accettazione.

Bibliografia essenziale

  • Lacan, Jacques, Il Seminario. Libro VIII. Il trasferimento (1960-61), Einaudi.
  • Lacan, Jacques, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi.
  • Lacan, Jacques, Il Seminario. Libro XX. Ancora (1972-73), Einaudi.
  • Lacan, Jacques, Scritti (1966), Einaudi.

Per un commento introduttivo:

  • Miller, Jacques-Alain, Logiche della vita amorosa (1997), Astrolabio, Roma

L'Atto Analitico: Intervento Simbolico e Trasformazione del Soggetto nella Psicoanalisi Lacaniana


L'atto analitico è un concetto centrale nell'opera di Jacques Lacan e rappresenta una delle chiavi per comprendere il processo di trasformazione che avviene durante il trattamento psicoanalitico. Questo intervento non si limita all'interpretazione dei contenuti inconsci, ma si estende a un'azione simbolica profonda che induce un cambiamento radicale nella relazione del soggetto con il proprio inconscio e con il proprio desiderio. L'atto analitico è un "taglio" simbolico che fa emergere un punto di frattura, consentendo al soggetto di rivedere e risignificare il proprio rapporto con l'inconscio e con il desiderio. Esso è inseparabile dal concetto di interpretazione e dal "taglio" che la psicoanalisi lacaniana implica nel processo terapeutico.

1. Il Significato dell'Atto Analitico

L'atto analitico, per Lacan, non è un atto qualunque, ma una "rottura" simbolica che agisce come una frattura nel mondo simbolico del soggetto. Esso interrompe l'ordine stabilito dei significati inconsci e rende possibile la risignificazione del desiderio. Come afferma Lacan, l'atto analitico è "quello che fa il soggetto, in cui il soggetto si trova costretto a confrontarsi con la sua verità" (Lacan, 1966). In questo contesto, l'atto analitico non è solo un'interpretazione dei contenuti inconsci, ma una sorta di "taglio" che scardina il mondo simbolico del soggetto, spingendolo ad affrontare il desiderio autentico, nascosto nelle pieghe dell'inconscio.

2. Interpretazione e Taglio: Un'Interazione Complessa

L'interpretazione, nella psicoanalisi lacaniana, non è un atto semplice di "traduzione" del significato, ma un intervento simbolico che si collega all'atto analitico. Lacan afferma che l'interpretazione deve "interrompere" il corso del pensiero del soggetto, impedendo che il soggetto si rifugi nel senso comune o in risposte automatiche, portandolo invece a confrontarsi con l'inconscio. In altre parole, l'interpretazione è un "taglio" che interrompe il flusso di significato che il soggetto costruisce e lo costringe a confrontarsi con una realtà simbolica diversa, una realtà che rivela la divisione intrinseca del soggetto rispetto al suo desiderio.

L'interpretazione, quindi, deve essere intesa come un atto che spinge il soggetto oltre il suo consueto modo di pensare, generando una frattura che apre uno spazio per una nuova possibilità di pensiero. Il "taglio" che l'interpretazione impone ha un valore simbolico fondamentale, in quanto destabilizza la posizione del soggetto nei confronti dei propri significanti e lo costringe a confrontarsi con la verità inconscia. Questo "taglio" permette di liberare il soggetto dalle strutture simboliche opprimenti che limitano la sua libertà e di avviare una ristrutturazione del suo rapporto con il linguaggio e il desiderio.

3. L'Interpretazione come Atto di Rottura

L'interpretazione, in Lacan, è quindi un atto che va oltre la semplice spiegazione di un sintomo o di un contenuto inconscio. Non è un'azione che fornisce risposte definitive, ma un intervento che spinge il soggetto a confrontarsi con l'irriducibilità del proprio inconscio. L'interpretazione lacaniana non si limita a decodificare, ma taglia attraverso il discorso del soggetto, creando uno spazio per l'emergere di una nuova forma di consapevolezza. In questo senso, l'interpretazione lacaniana ha una funzione di "scossa", un'energia che rompe il ritmo consueto del pensiero del soggetto e lo orienta verso la scoperta di nuove possibilità simboliche.

La frattura simbolica prodotta dall'interpretazione non è finalizzata a "risolvere" il conflitto o a "curare" il soggetto nel senso tradizionale del termine, ma a far emergere una nuova organizzazione del desiderio. Come sottolinea Miller, "l'interpretazione non è un atto di cura, ma una rottura che porta il soggetto a risignificare il proprio rapporto con il desiderio" (Miller, 1998). In altre parole, l'interpretazione lacaniana serve a disarticolare le certezze del soggetto e a permettergli di riscoprire il proprio desiderio in modo più autentico.

4. Il Ruolo dell'Analista nell'Atto Analitico

Il ruolo dell'analista è centrale nell'atto analitico. L'analista non è una figura che impone soluzioni o risposte al paziente, ma un interlocutore che facilita l'emergere della verità inconscia attraverso l'interpretazione e l'intervento simbolico. La funzione dell'analista non è quella di "guidare" il soggetto verso un obiettivo specifico, ma di creare le condizioni in cui il soggetto possa confrontarsi con la propria verità, senza il riflesso rassicurante delle risposte preconfezionate. Lacan sottolinea che "l'analista non deve essere la risposta, ma l'interlocutore che sollecita la domanda" (Lacan, 1977). L'analista, in questo senso, agisce come un facilitatore che stimola il soggetto a risignificare il proprio rapporto con il desiderio e con l'inconscio, senza mai fornirgli risposte predefinite.

Un aspetto cruciale della funzione dell'analista è il "silenzio", che può essere considerato una modalità di intervento altrettanto significativa quanto le interpretazioni verbali. Il silenzio dell'analista non è un'assenza di intervento, ma una forma di "presenza" che costringe il soggetto a confrontarsi con le proprie angosce e con la propria verità inconscia. Come afferma Miller, "Il silenzio dell'analista è un atto simbolico che obbliga il soggetto a entrare in contatto con ciò che è nascosto nel suo inconscio" (Miller, 1998).

5. Il Taglio e la Trasformazione del Soggetto

Il "taglio" simbolico rappresenta un aspetto essenziale dell'atto analitico. Questo taglio non è solo una separazione dal passato, ma un cambiamento profondo nel modo in cui il soggetto si relaziona a se stesso e al proprio desiderio. Lacan sostiene che l'analisi deve "tagliare" con le strutture simboliche opprimenti che impediscono al soggetto di rispondere autenticamente al proprio desiderio. Questo taglio segna un passaggio decisivo nella psicoanalisi, in quanto consente al soggetto di separarsi dalle catene di significati che lo limitano e di riappropriarsi della propria libertà simbolica.

Il taglio simbolico apre anche la possibilità di un nuovo inizio per il soggetto, un inizio che non è una "cura" nel senso tradizionale, ma una trasformazione profonda del suo rapporto con il desiderio. Lacan enfatizza che "l'analisi non guarisce, ma trasforma" (Lacan, 1966), suggerendo che l'obiettivo dell'analisi non è la fine del conflitto, ma la creazione di uno spazio in cui il soggetto può confrontarsi con la sua divisione interiore e risignificare il proprio desiderio.

Conclusioni

L'atto analitico è un intervento simbolico fondamentale nella psicoanalisi lacaniana. Esso non si limita a una semplice interpretazione dei contenuti inconsci, ma rappresenta un "taglio" simbolico che trasforma radicalmente la relazione del soggetto con il proprio desiderio e con l'inconscio. Il soggetto, attraverso l'atto analitico, affronta una frattura che lo costringe a risignificare il proprio rapporto con il significante e con il desiderio. L'interpretazione e il "taglio" sono le due facce di un processo che libera il soggetto dalla rigidità delle strutture simboliche che lo imprigionano, aprendo la strada a una nuova comprensione di sé e del proprio inconscio. In questo processo, l'analista agisce come un facilitatore che stimola il soggetto a confrontarsi con la propria verità inconscia, creando uno spazio per la trasformazione simbolica e il risveglio del desiderio autentico.


Bibliografia:

  • Lacan, J. (1966). Écrits: A Selection. New York: W.W. Norton & Company.
  • Lacan, J. (1977). The Four Fundamental Concepts of Psychoanalysis. New York: W.W. Norton & Company.
  • Miller, J.-A. (2012). Introduzione alla clinica lacaniana, Roma: Astrolabio

giovedì 24 aprile 2025

Clinica lacaniana dell’isolamento sociale


Una lettura attraverso le strutture soggettive nei contesti istituzionali

L’isolamento sociale, spesso trattato come sintomo da correggere, può in una prospettiva lacaniana essere letto come una posizione soggettiva, un modo in cui il soggetto si rapporta all’Altro, alla legge, al linguaggio. Lungi dall’essere un deficit generalizzato, può essere una difesa, una modalità di regolazione del proprio legame con l’ambiente e con il desiderio.
Nelle istituzioni educative e socio-sanitarie, dove il rapporto con l’Altro è quotidiano e strutturato, tale posizione si manifesta con tratti differenti a seconda della struttura psichica del soggetto.


Nevrosi: l’isolamento come difesa dal desiderio dell’Altro

Nel caso della nevrosi ossessiva, l’isolamento può diventare una fortezza mentale. Un adolescente in un centro educativo rifiuta le attività di gruppo e si ritira ogni volta che gli viene chiesto di partecipare a giochi o discussioni. Dietro il ritiro non c’è indifferenza, ma un’intensa attività mentale: teme il giudizio, teme di dire qualcosa di sbagliato, teme di perdere il controllo sul proprio pensiero.
Il suo isolamento è una difesa dal desiderio dell’Altro, vissuto come eccessivo o invasivo.

Nell’isteria, al contrario, si può vedere un isolamento più intermittente: una ragazza con disabilità lieve partecipa agli incontri, ma a tratti si ritrae bruscamente, spesso in risposta a situazioni in cui non si sente riconosciuta o compresa. Il ritiro è una mossa soggettiva, una “sottrazione” che interroga l’Altro: “mi vedi? ti manco?”

In entrambi i casi, l’approccio istituzionale non deve essere forzante ma deve accogliere il ritiro come significante, lavorando sulla possibilità di parola, anche se mediata da attività o spazi protetti.


Psicosi: l’isolamento come protezione dalla frammentazione

Un giovane adulto in un servizio diurno psichiatrico passa ore a guardare fuori dalla finestra. Rifiuta il gruppo, non interagisce, ma si mostra agitato se qualcuno entra nel suo spazio. Diagnosi: psicosi paranoide.
In questo caso, l’isolamento è un baluardo contro l’invasione dell’Altro, che può assumere connotati persecutori. Il soggetto ha costruito un fragile equilibrio simbolico e l’ingresso dell’Altro lo minaccia. Un altro paziente psicotico, in una residenza protetta, accetta di partecipare alle attività solo se gli viene garantito di poter stare “in un angolo” e di uscire quando vuole. Questa condizione, apparentemente minima, è in realtà fondamentale per la sua stabilità.

Nelle istituzioni, è essenziale creare ritualità, prevedibilità e spazi di parola non invasivi, che offrano contenimento simbolico ma non forzino la relazione. L’equipe diventa allora “presenza silenziosa”, Altro affidabile ma non invadente.


Perversione: l’isolamento come dominio sull’Altro

In un laboratorio occupazionale, un educatore nota che un giovane adulto tende a isolarsi non per ritirarsi, ma per controllare la relazione. Partecipa solo quando può dettare le regole, manipolare gli altri o decidere i turni. Quando questo non è possibile, si ritira, con atteggiamenti sfidanti o provocatori.
Questo comportamento può essere letto in chiave perversa: l’isolamento è usato come minaccia o strumento per negare la mancanza dell’Altro, tentando di mantenerlo sotto controllo.

Qui il compito dell’équipe non è sanzionare il comportamento, ma costruire una funzione terza, un luogo simbolico che consenta di porre limiti senza umiliare, e di introdurre il desiderio come elemento regolatore, non come strumento di potere.


Autismo: l’isolamento come forma di relazione alternativa

Un bambino autistico in una scuola inclusiva non interagisce verbalmente e si isola in un angolo della classe con un oggetto che manipola per ore. Ma se l’educatore si avvicina senza parole, semplicemente toccando l’oggetto o imitando i suoi movimenti, il bambino permette la presenza. L’isolamento qui non è assenza di relazione, ma forma specifica di relazione, che richiede una lettura attenta dei segni non verbali, dei ritmi, dei passaggi sensoriali.

Nel lavoro educativo e sanitario con soggetti autistici, è necessario rispettare la logica soggettiva, costruendo dispositivi che permettano un passaggio simbolico attraverso il corpo, l’oggetto, la ripetizione. Forzare l’inclusione può generare angoscia; accompagnare nella solitudine può aprire spazi di incontro.


Conclusione: verso una clinica dell’accoglienza differenziale

La clinica lacaniana dell’isolamento sociale invita le istituzioni a spostare lo sguardo: non si tratta di “rompere l’isolamento”, ma di comprenderne la funzione soggettiva. Ogni struttura ha il proprio modo di regolare la presenza dell’Altro. L’educatore, il terapeuta, l’assistente devono posizionarsi in modo da non invadere né abbandonare, ma rendere possibile una presenza simbolica.

Il lavoro clinico nei contesti istituzionali richiede allora una sensibilità strutturale, capace di leggere ogni isolamento non come sintomo da eliminare, ma come tentativo di regolazione del desiderio, del godimento e del legame.


mercoledì 23 aprile 2025

Il Simposio di Platone nel Seminario VIII di Lacan: transfert, clinica e lavoro educativo di gruppo



Nel Seminario VIII, Il transfert, Jacques Lacan propone una rilettura radicale del Simposio di Platone come chiave di lettura strutturale del transfert analitico. L’amore platonico, lungi dall’essere una sublimazione ingenua, diventa per Lacan una struttura di desiderio, che permette di comprendere il transfert non come attaccamento, ma come posizione soggettiva nel discorso.


1. Il transfert in analisi: Eros tra mancanza e sapere

Nel racconto di Diotima, Eros nasce da Penía (mancanza) e Póros (risorsa) ed è "filosofo", perché “desidera ciò che non ha”. Lacan ne fa il modello del soggetto desiderante, e del transfert come messa in gioco di tale mancanza:

“Eros non è il Bene, ma ciò che spinge verso di esso” (Seminario VIII, Lezione VI).

Il transfert, nella clinica, è questo stesso movimento:

“Il transfert non è un sentimento: è l’apparizione dell’inconscio nel campo del sapere supposto” (Seminario VIII, Lezione I).

L’amore per l’analista nasce non dalla persona, ma dalla posizione simbolica che egli occupa: quella di colui che “è supposto sapere qualcosa del mio desiderio”.


2. Socrate come modello dell’analista: desiderato ma non desiderante

Socrate incarna una posizione enigmatica. Come dice Alcibiade nel Simposio:

“Ho tentato di sedurlo… ma egli non cedeva” (Pl., Simposio, 219c).

Lacan legge questo come il rifiuto da parte dell’analista di occupare il posto dell’ideale, mantenendo invece quello dell’oggetto a, causa del desiderio.

“Il transfert non si produce se non a condizione che il soggetto trovi l’analista come oggetto del suo amore, ma al contempo come quello che non risponde” (Seminario VIII, Lezione XII).

L’analista, come Socrate, non insegna, ma interroga il desiderio, mantenendo vuoto il suo posto.


Dal transfert analitico all’atto educativo

Questa struttura del transfert non si esaurisce nella clinica, ma può trovare una declinazione nell’ambito educativo, soprattutto nel lavoro di gruppo, con soggetti fragili o marginalizzati. Ciò richiede però una postura etica, non una trasposizione tecnica.


3. Il gruppo come luogo metaxu: tra sapere e desiderio

Come Eros è metaxu, anche il gruppo può costituirsi come spazio di passaggio:

  • tra sapere e mancanza,
  • tra identità e soggettivazione,
  • tra isolamento e parola.

L’educatore, se non occupa il posto del maestro-sapiente, può sostenere il gruppo come luogo di emergenza del desiderio.

“L’analista non deve sapere, deve essere il luogo dove il soggetto parla” (Seminario VIII, Lezione IX).

Trasposto all’educazione: l’educatore non deve saturare il sapere, ma mantenere aperto il campo dell’invenzione.


4. Saper non sapere: il sapere supposto e l’ospitalità del vuoto

Nel transfert educativo, come in quello analitico, il soggetto suppone all’altro un sapere. Il rischio è che l’educatore lo confermi, diventando un piccolo padrone (S1). Ma se resiste a questo, può favorire una simbolizzazione soggettiva:

“È nel posto del non-sapere che si produce il sapere analitico” (Seminario VIII, Lezione XI).

Così, anche nel gruppo educativo:

  • si genera sapere, ma non si trasmette come dottrina;
  • si accoglie la parola senza volerla spiegare tutta.


Conclusione: una clinica del desiderio oltre la cura

L’amore, dice Diotima, “non è bello né buono, ma desidera il bello e il buono” (Simposio, 202b).
Lacan lo interpreta come metafora del soggetto stesso: mai coincidente con sé, mosso dalla mancanza, aperto alla creazione.

Nel gruppo, come nell’analisi, la domanda è:
Come creare uno spazio che non chiuda il desiderio, ma lo ospiti?
Come educatori, possiamo sostenere non il sapere, ma il desiderio di sapere. E, come Socrate, restare nel vuoto che lo genera.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. (1991). Il Seminario. Libro VIII. Il transfert. Torino: Einaudi.
  • Platone. Simposio. In: Opere, vol. III, Laterza.
  • Miller, J.-A. (2012). Introduzione alla clinica lacaniana. Roma: Astrolabio.
  • Recalcati, M. (2007). L’inconscio teologico di Platone. In Cosa resta del padre?. Milano: Cortina.
  • Rinaldi, R. (2004). Il sapere supposto sapere e il transfert. In Psicopatologia del legame sociale. Milano: FrancoAngeli.


martedì 22 aprile 2025

L’interpretazione in Lacan: taglio, non-senso e desiderio


1. Introduzione: la svolta lacaniana

L’interpretazione, nel pensiero di Lacan, non è una traduzione del sintomo in verità preesistenti né un’ermeneutica della rimozione. Lacan non rifiuta la nozione freudiana d’inconscio come luogo in cui una verità si esprime cifrata, ma la riformula radicalmente: l’inconscio è strutturato come un linguaggio, ed è effetto del significante.

La svolta consiste nel collocare l’interpretazione non più nel campo del senso, ma in quello della funzione del significante e del godimento. L’interpretazione lacaniana non mira alla comprensione, ma all’effetto, all’atto. Non dice “ecco cosa sei”, ma piuttosto toglie il soggetto da ciò con cui si identifica, producendo un vuoto, un’interruzione, uno scarto.

“Il senso è resistenza. L’interpretazione deve colpire altrove, dove il soggetto non sa di essere toccato”
(Seminario XI, 1964)


2. L’interpretazione come atto: dal senso al reale

Freud ci ha consegnato l’idea che i sintomi sono compromessi tra desiderio e difesa, e che l’interpretazione consente una simbolizzazione del rimosso. Lacan, a partire dal secondo periodo del suo insegnamento, mette l’accento sul fatto che non tutto si simbolizza, che c’è un resto, un reale del godimento che resiste al discorso. Proprio su questo reale può agire l’interpretazione: non per nominarlo, ma per isolarlo.

Per Lacan, il significato si costruisce nella catena significante. Ma l’inconscio emerge là dove questa catena si inceppa, si fora. L’interpretazione non serve a spiegare, ma a forare, a introdurre una mancanza di senso, un buco nel discorso del soggetto.

“L’interpretazione non deve mai essere completamente significativa. È efficace solo se comporta una certa opacità”
(J.-A. Miller, Gli usi del lapsus, 2008)


3. Il soggetto come effetto del significante

Il soggetto, nella teoria lacaniana, non è un’entità sostanziale, ma un posto vuoto, un effetto della catena significante. Dire che il soggetto è “rappresentato da un significante per un altro significante” significa che esso non coincide mai con sé, ma si costituisce nella differenza e nello spostamento. Interpretare è, allora, disfare un’identificazione, produrre uno scarto tra l’io e il soggetto dell’inconscio.

Nel Seminario XX Lacan afferma che l’interpretazione punge, tocca il corpo parlante, non attraverso il senso, ma attraverso un non-senso che fa effetto, una scansione che taglia la ripetizione.


4. Esempio clinico: la voce trattenuta

Una giovane insegnante, appassionata del suo lavoro, soffre di afonia ricorrente alla vigilia di presentazioni pubbliche. Il medico non trova cause organiche. In analisi, descrive il rapporto con il padre, anch’egli insegnante carismatico, spesso citato da lei con ammirazione, ma anche con un certo timore.

Una interpretazione classica avrebbe cercato il trauma infantile, o una rimozione legata all’autorità. L’intervento lacaniano, invece, arriva in forma di taglio:

“Forse non è la tua voce che perdi, ma quella che non puoi permetterti di avere.”

Non è una spiegazione, ma un detto che sorprende, che la separa dal fantasma del padre e apre una possibilità di soggettivazione del proprio desiderio. Da lì in poi, non si tratta più solo di “guarire la voce”, ma di articolare una posizione soggettiva singolare nel suo ruolo, nel suo corpo, nella sua enunciazione.


5. Esempio sociale: un migrante e il significante perduto

Un giovane nordafricano inserito in un programma educativo abbandona più volte il percorso formativo, pur dimostrando capacità. Alla domanda “perché?”, risponde:

“Qui sono uno qualunque. Là ero il figlio del sarto, tutti lo conoscevano.”

Si tratta di un soggetto che si è strutturato attorno a un significante padrone (S1) legato al nome e al riconoscimento familiare. La perdita di quel S1, nella migrazione, genera una caduta dell’identità, ma anche una possibilità.

L’educatore potrebbe essere tentato di rassicurare, proporre nuovi S1: cittadinanza, integrazione, lavoro. Ma una posizione lacaniana suggerisce un’altra via:

“E se qui potessi essere qualcosa che là non avresti mai potuto diventare?”

È una punta d’interpretazione, non una promessa. Un dire che sposta la soggettività dal luogo del riconoscimento all’apertura del desiderio, che introduce un tempo di sospensione e rielaborazione. Il soggetto può allora, forse, iniziare a scrivere qualcosa di proprio nel nuovo contesto, senza più inseguire l’ideale perduto.


6. Conclusione: interpretare è toccare il reale

L’interpretazione in Lacan non è una tecnica, ma un atto singolare, irripetibile, che opera nel tempo e nel corpo. Essa non chiude, ma apre; non spiega, ma punge.

“Non è il senso che libera, è il taglio.”
(Seminario XI)

In questo senso, anche nel lavoro educativo e sociale, ispirarsi alla posizione lacaniana non significa usare concetti psicoanalitici in modo adattato, ma assumere una funzione di taglio simbolico, capace di far emergere il soggetto là dove sembrava dissolto nell’identificazione o nell’esclusione.


Bibliografia

  • Lacan, J. (1964). Il Seminario, Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi.
  • Lacan, J. (1972-73). Il Seminario, Libro XX: Ancora. Torino: Einaudi.
  • Lacan, J. (1966). Scritti. Torino: Einaudi.
  • Miller, J.-A. (2005). Introduzione al reale del seminario, in La Psicoanalisi, n. 38, Roma: Astrolabio.
  • Miller, J.-A. (2008). Gli usi del lapsus, in La Psicoanalisi, n. 43, Roma: Astrolabio.
  • Freud, S. (1900). L’interpretazione dei sogni. OSF, vol. 3, Torino: Bollati Boringhieri.
  • Freud, S. (1915). L’inconscio. OSF, vol. 8, Torino: Bollati Boringhieri.


domenica 20 aprile 2025

L’entrata in analisi in Freud e Lacan: dalla soglia del transfert al reale del sinthomo


Una soglia clinica: quando comincia davvero un’analisi

In psicoanalisi, non ogni trattamento è un’analisi. Freud lo accennava già nei suoi consigli al medico: l’analisi inizia quando il paziente accetta di seguire la “regola fondamentale”, ma ancor più quando entra in gioco il transfert. Lacan estremizza questa visione: l’analisi inizia solo quando si struttura il transfert come supposta di un sapere inconscio. L’ingresso in analisi è dunque un atto soggettivo, un “passaggio soggettivo” più che una fase cronologica. È quando il soggetto sposta il suo rapporto con il sintomo, non più come qualcosa da sopprimere, ma da interrogare, che si apre lo spazio dell’analisi.

Come sottolinea Colette Soler, “non si entra in analisi perché si soffre, ma perché si pone la domanda di sapere da dove viene ciò che ci fa soffrire” (Soler, 2004, L’entrée dans l’analyse). L’analisi inizia con l’atto di voler sapere sul proprio desiderio, non con la domanda di guarire.


Freud: transfert come condizione e come materiale clinico

Freud individua nel transfert il motore e il rischio della cura. È il campo in cui riemergono le rappresentazioni inconsce: il paziente rivive con l’analista ciò che ha vissuto con le figure d’amore originarie. Ma è proprio grazie a questa ripetizione che si può lavorare sull’inconscio (Freud, 1912, “La dinamica del transfert”). L’analisi comincia quindi nel momento in cui il transfert diventa utilizzabile come materiale clinico, e non resta solo come ostacolo.

Jean Laplanche insisterà, da parte sua, sul transfert come effetto di un messaggio enigmatico dell’Altro: ciò che nell’analista si presenta come resto enigma attiva il desiderio del soggetto di sapere (Laplanche, 1992, Nuovi fondamenti per la psicoanalisi). Anche per lui, l’entrata in analisi si gioca sull’incontro con un’alterità che smuove.


Il primo Lacan: parola piena, soggetto supposto sapere, funzione del desiderio

Nel primo insegnamento di Lacan, l’analisi è un discorso particolare: un luogo dove il soggetto parla non per essere compreso, ma per sorprendersi di ciò che dice. L’inconscio è strutturato come un linguaggio, e il sintomo è una catena significante da decifrare (Lacan, Scritti, “La cosa freudiana”). Il transfert si struttura come supposta di un sapere che non è dell’analista, ma del soggetto stesso: sapere inconscio.

Nel Seminario XI, Lacan afferma che “è la supposizione di un sapere che definisce il transfert” (Lacan, 1964). Questo passaggio segna l’entrata in analisi: il paziente non chiede solo sollievo, ma attribuisce all’analista la capacità di decifrare ciò che in lui stesso è più enigmatico. La posizione dell’analista si definisce allora come oggetto a, funzione che sostiene il desiderio del soggetto, senza rispondervi.

Jacques-Alain Miller, curatore dei Seminari di Lacan, ha insistito molto su questo punto: l’entrata in analisi è “una soggettivazione del transfert”, in cui il soggetto comincia a trattare il proprio sintomo come un prodotto del desiderio, non come un disturbo dell’Io (Miller, 1998, Introduzione al Seminario XI).


L’ultimo Lacan: sinthomo, reale, sapere-fare-con

Nella seconda parte del suo insegnamento, Lacan mette in discussione l’idea di inconscio interpretabile. A partire dal Seminario XX (“Encore”) e ancor più nel Seminario XXIII (“Il sinthomo”), l’inconscio viene pensato come reale, opaco, non decifrabile. Il sinthomo non è un messaggio da svelare, ma una formazione stabile che tiene insieme il soggetto e il suo godimento. L’analisi non mira più alla verità, ma a un sapere-fare con il proprio sinthomo.

L’entrata in analisi, in questa nuova clinica, è il momento in cui il soggetto comincia ad assumere il proprio sintomo non come segnale da rimuovere, ma come cifra del proprio modo di godere. Questo passaggio è clinicamente molto sottile, come afferma anche Éric Laurent: “Non si entra in analisi perché si parla; si entra quando qualcosa si scrive nel corpo del soggetto” (Laurent, 2008, La clinica del sinthomo).


La funzione dell’analista: da supporto del sapere a punto di reale

Parallelamente, la posizione dell’analista cambia. Se inizialmente l’analista è colui che viene supposto sapere, nella clinica del reale diventa sempre più ciò che buca il sapere. L’analista è non-sapente, non per ignoranza ma per permettere l’emergere dell’inconscio come creazione singolare. Come sottolinea Miller, l’analista deve essere “sempre meno identificato, e sempre più causa” (Miller, 2004, Un effort de poésie). L’entrata in analisi avviene quando il soggetto si confronta non con un sapere già dato, ma con un sapere da costruire nel proprio dire.


Conclusione: clinica dell’entrata come evento soggettivo del desiderio

L’entrata in analisi è, in definitiva, un evento clinico che segna il momento in cui il soggetto accetta di confrontarsi con la verità del proprio desiderio, prima, e con la particolarità del proprio godimento, poi. Dai fondamenti freudiani al sinthomo lacaniano, l’analisi non è mai un processo lineare, ma una soglia da attraversare più volte. L’analista, in quanto oggetto causa e funzione di mancanza, non accompagna verso una soluzione adattiva, ma verso la possibilità di un’esistenza meno alienata.


Bibliografia

  • Freud, S. (1904). Il metodo della psicoanalisi. OSF, vol. IV.
  • Freud, S. (1912). La dinamica del transfert. OSF, vol. VII.
  • Lacan, J. (1957). La cosa freudiana, in Scritti.
  • Lacan, J. (1964). Il Seminario XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi.
  • Lacan, J. (1972-73). Il Seminario XX: Encore.
  • Lacan, J. (1975-76). Il Seminario XXIII: Il sinthomo.
  • Laplanche, J. (1992). Nuovi fondamenti per la psicoanalisi.
  • Miller, J.-A. (1998). Introduzione al Seminario XI.
  • Miller, J.-A. (2004). Un effort de poésie.
  • Soler, C. (2004). L’entrée dans l’analyse.
  • Laurent, É. (2008). La clinica del sinthomo.


Fine Analisi in Freud e Lacan

 


1. La fine dell'analisi in Freud

Sigmund Freud, fondatore della psicoanalisi, ha sviluppato una concezione della fine dell'analisi che si lega intimamente alla sua visione del processo terapeutico e alla nozione di "cura" o "guarigione". Per Freud, l'analisi ha come obiettivo il superamento delle nevrosi, che viene raggiunto attraverso la rivelazione e l'elaborazione dei conflitti inconsci. In questo senso, la fine dell'analisi si colloca nel momento in cui i sintomi che derivano da tali conflitti vengono ridotti o eliminati, migliorando così la capacità del soggetto di gestire i propri conflitti interiori. Tuttavia, è importante sottolineare che per Freud la fine dell'analisi non implica una "guarigione totale", ma rappresenta piuttosto il raggiungimento di una condizione in cui il soggetto è in grado di vivere una vita psichica meno conflittuale.

La concezione freudiana della fine dell'analisi è, quindi, legata al concetto di catarsi, intesa come il processo attraverso il quale il soggetto prende consapevolezza dei propri conflitti inconsci e delle proprie pulsioni rimosse. La rimozione dei sintomi, tuttavia, non equivale a una risoluzione definitiva di tutti i conflitti psichici. La guarigione, per Freud, non è l'eliminazione del conflitto ma la riduzione della sofferenza psichica e la capacità del soggetto di adattarsi ai propri desideri e impulsi in modo più consapevole. In altre parole, Freud riteneva che l'analisi non potesse eliminare ogni conflitto, ma fosse in grado di rendere il soggetto più libero rispetto ai determinismi inconsci che governano la sua vita psichica. La fine dell'analisi, per Freud, quindi, non è un obiettivo assoluto ma un miglioramento continuo delle condizioni psicologiche del soggetto.

La rielaborazione del transfert, che è una delle dinamiche centrali nel processo analitico, gioca un ruolo fondamentale nella fine dell'analisi in Freud. Durante l'analisi, il transfert è il processo attraverso cui il paziente trasferisce sullo psicoanalista emozioni e desideri che originano nelle sue esperienze passate, in particolare nella relazione con le figure parentali. La fine dell'analisi, in questo caso, si verifica quando il soggetto è in grado di riconoscere questi meccanismi transferali e di distaccarsene. Tuttavia, Freud non considerava il transfert come un elemento da eliminare completamente, ma piuttosto come uno strumento utile per comprendere le dinamiche inconsce del paziente.

2. La "parola vera" e l'uscita dall'Edipo in Lacan

La concezione della fine dell'analisi in Lacan subisce una trasformazione profonda rispetto a quella freudiana, a partire dalla sua rielaborazione del concetto di inconscio e dal suo interesse per la linguistica e la strutturalismo. Lacan, infatti, riprende e sviluppa la teoria freudiana in modo tale da spostare l'enfasi dalla cura del sintomo alla trasformazione del soggetto attraverso il linguaggio e la strutturazione del desiderio.

Negli anni '50, Lacan concepisce la fine dell'analisi come il momento in cui il soggetto raggiunge una "parola vera", un punto in cui il soggetto riesce a articolare il proprio desiderio in un modo che va oltre il complesso edipico, superando le strutture familiari e simboliche che lo hanno definito. In questa fase, l'analisi non ha più come obiettivo la rimozione dei sintomi ma la trasformazione del soggetto rispetto al suo desiderio, affinché il soggetto possa vivere con la propria mancanza senza cercare un completamento illusorio. La "parola vera", in questo senso, rappresenta una ristrutturazione della propria storia e una presa di consapevolezza rispetto a come il proprio desiderio è stato strutturato dall'incontro con i significanti padroni (S1), che sono i punti di riferimento simbolici che organizzano la psiche del soggetto.

Lacan sottolinea che l'analisi deve condurre il soggetto verso un nuovo posto rispetto alla verità del proprio discorso, che non è mai completamente accessibile. La fine dell'analisi, quindi, non è mai un punto di arrivo definitivo ma un "momento di apertura" verso una continua rielaborazione del desiderio, che non può mai essere completamente colmato. In questo contesto, Lacan afferma che "la verità ha struttura di finzione" (Lacan, 1956/1998), evidenziando come la verità stessa sia sempre una costruzione, una narrazione, che il soggetto è chiamato ad accogliere nella sua dimensione soggettiva, pur nella consapevolezza della sua incompletezza.


3. Angoscia e attraversamento del fantasma in Lacan

Nei suoi sviluppi teorici successivi, Lacan introduce il concetto di angoscia come segnale fondamentale del desiderio. L'angoscia, per Lacan, non è priva di oggetto; piuttosto, essa è il segno della mancanza e della dimensione desiderante che definisce il soggetto. La fine dell'analisi, quindi, si configura come il momento in cui il soggetto attraversa il proprio fantasma fondamentale. Il fantasma, nella teoria lacaniana, è un meccanismo difensivo che organizza il desiderio del soggetto, ma che lo imprigiona anche in un circolo di ripetizione.

L'attraversamento del fantasma non implica l'eliminazione del desiderio o la sua repressione, ma piuttosto un cambiamento radicale nella posizione soggettiva del paziente. Il soggetto, anziché essere dominato inconsciamente dal proprio fantasma, ne prende consapevolezza e lo riconosce come una costruzione che non può essere superata, ma che deve essere accettata come parte integrante della propria storia. La fine dell'analisi, in questo caso, non implica una "soluzione" al conflitto, ma una sua ristrutturazione, dove il soggetto non cerca più di sfuggire alla propria mancanza, ma la accoglie come un dato fondamentale dell'esistenza.


4. Il sinthome e la ristrutturazione del soggetto in Lacan

Verso la fine del suo insegnamento, Lacan sviluppa il concetto di sinthome, che rappresenta un nodo psichico in cui si intrecciano le dimensioni del simbolico, dell'immaginario e del reale. Il sinthome, secondo Lacan, è ciò che tiene insieme il soggetto e la sua psiche, permettendo al soggetto di vivere con la propria mancanza e di sostenerla nel quotidiano.

Nella concezione del sinthome, la fine dell'analisi non è più vista come la "guarigione" del soggetto ma come una ristrutturazione del legame del soggetto con il proprio sintomo. Il soggetto non elimina il sintomo, ma lo integra in una nuova modalità di essere, che gli consente di vivere con il desiderio senza subire la sua oppressione. Il sinthome, quindi, rappresenta un nuovo modo di relazionarsi con il proprio sintomo, una nuova forma di sostegno che non è più vissuta come una patologia, ma come una risorsa che consente al soggetto di esistere.

5. Il transfert e la posizione dell'analista

Un aspetto fondamentale della fine dell'analisi riguarda la trasformazione del trasfert. Se all'inizio dell'analisi il soggetto proietta sull'analista un sapere che rappresenta una forma di completamento o di salvezza, alla fine dell'analisi il transfert si dissolve e il soggetto si trova a confrontarsi con la propria mancanza, senza più cercare un Altro che possa riempirla. La fine dell'analisi, quindi, segna un passaggio decisivo: il soggetto non è più legato a una figura di autorità o a un "savoir" che lo guidi, ma si trova a confrontarsi con il proprio desiderio, riconoscendo la propria mancanza come una condizione costitutiva del soggetto.

L'analista, quindi, non è più visto come una figura che detiene la verità sul soggetto, ma come un altro che permette al soggetto di scoprire la propria posizione rispetto al desiderio. La fine dell'analisi, in questo senso, è il momento in cui il soggetto assume una nuova responsabilità rispetto al proprio desiderio, senza più ricercare un completamento esterno.


6. Conclusione: la fine dell'analisi come apertura

La fine dell'analisi, per Lacan, non è mai una "guarigione" in senso tradizionale, ma un momento di apertura in cui il soggetto si confronta con la propria mancanza, senza illusioni di compimento o di risoluzione definitiva. Lacan sottolinea che la fine dell'analisi è un punto di partenza, un inizio di una nuova responsabilità del soggetto nei confronti del proprio desiderio, senza la speranza che quest'ultimo possa mai essere completamente soddisfatto. Come scrive Miller (2023), la fine dell'analisi rappresenta "l'inizio di una nuova forma di responsabilità verso il proprio desiderio".


Bibliografia

  • Lacan, J. (1953/1975). Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi. In Scritti (Vol. I). Einaudi.
  • Lacan, J. (1956/1998). Il seminario, Libro III: Le psicosi. Einaudi.
  • Lacan, J. (1962-63/2004). Il seminario, Libro X: L'angoscia. Einaudi.
  • Lacan, J. (1967/2001). Propos sur l'hystérie. Seuil.
  • Lacan, J. (1973/2011). Il seminario, Libro XXI: Les non-dupes errent. Seuil.
  • Lacan, J. (1975-76/2005). Il seminario, Libro XXIII: Il sinthomo. Einaudi.
  • Miller, J.-A. (2023). Come finiscono le analisi. Paradossi della passe. Astrolabio Ubaldini.




sabato 19 aprile 2025

Lo sguardo nella clinica contemporanea: tra inflazione dell'immaginario e pratica di detotalizzazione

 


 


 

 

 




1. Introduzione: l'occhio assoluto

Viviamo in un'epoca dominata dall'"occhio assoluto" (Wajcman), in cui la visibilità pervasiva e la sorveglianza reciproca si coniugano con un'esposizione narcisistica crescente, in particolare nei giovani. Lo sguardo, lungi dall'essere solo percezione, è un punto strutturale della clinica lacaniana: luogo del desiderio, ma anche del godimento e dell'angoscia. La sua trasformazione nel mondo digitale comporta effetti soggettivi inediti e nuove forme di sofferenza psichica. 



2. Dallo sguardo all'occhio: godimento voyeurista ed esibizionismo

Nella clinica contemporanea, il godimento si declina spesso tra l'eccesso del vedere e l'essere visti. Il cellulare, in particolare, si configura come un prolungamento dell'occhio e come significante del sapere universale. I social media diventano scena dell'esibizione e dello sguardo dell'Altro, instaurando dinamiche di godimento esibizionistico e voyeuristico. La risposta soggettiva può essere narcisistica (pancia piatta come segno visibile di valore), compulsiva (scrolling continuo, selfie seriali), oppure depressiva (ritiro e senso di non-esistere se non visto).

In queste risposte, possiamo leggere la tensione tra l'essere oggetto dello sguardo e il tentativo di dominarlo. L'immagine corporea diventa spesso campo di battaglia per questa dialettica: la ricerca del corpo perfetto, dell'estetica conforme, rappresenta il tentativo di darsi un valore nella scena dell'Altro. Ma tale scena è per definizione instabile, insaziabile, mutevole.


3. Clinica dell'adolescenza e occhio assoluto

Nei giovani assistiamo a una crescente identificazione all'immagine e alla ricerca di un riconoscimento totalizzante. La clinica dell'anoressia mostra il corpo come campo di battaglia tra visibilità e controllo. Lacan legge l'anoressica come colei che dice "no" all'Altro, ma che nel rifiuto del cibo mira anche a farsi oggetto assoluto dello sguardo. Il desiderio insoddisfatto si rovescia in godimento mortifero. Qui lo sguardo è trappola e padronanza insieme.

Il corpo dell'anoressica diventa il luogo in cui si nega il godimento dell'Altro e allo stesso tempo si afferma una forma assoluta di padronanza sul desiderio. La funzione dell'immagine è qui centrale, ma è una funzione che si svuota di simbolico, lasciando il soggetto preda di un godimento senza limite.


4. Delocalizzazione, cellulare e godimento non-tutto

Il cellulare introduce una delocalizzazione radicale del sapere, del desiderio e del godimento. Là dove prima vi era una struttura simbolica con dei limiti (il Nome-del-Padre, la Legge, il tempo dell'attesa), ora domina un accesso continuo e immediato, che toglie spazio alla mancanza e quindi al desiderio. Il "non tutto" lacaniano, che è apertura e limite al godimento, viene cancellato dalla pretesa di tutto accessibile, tutto visibile, tutto subito.

Lo smartphone, in quanto oggetto feticcio contemporaneo, si offre come "oggetto causa del desiderio" (a), ma in una forma che tende a saturare, a chiudere, a colmare. Non è più causa nel senso di spinta verso un Altro enigmatico, ma è causa come chiusura del circuito pulsionale su sé stesso. Il sapere non è più mancante, ma è diventato onnipresente, iperdisponibile.


5. Detotalizzazione come effetto e pratica terapeutica

La detotalizzazione è un effetto della funzione paterna e simbolica: essa separa il soggetto dall'Altro e introduce la mancanza, condizione del desiderio. Ma nella clinica contemporanea deve diventare anche una strategia attiva: interrompere la coerenza immaginaria, spezzare il godimento continuo, aprire un vuoto dove possa emergere un dire soggettivo. Detotalizzare vuol dire restituire il limite, non come norma, ma come occasione di differenza e creazione.

La funzione paterna, lungi dall'essere semplice imposizione della legge, è la possibilità di non essere tutto. È apertura al desiderio dell'Altro, ma anche limite alla sua invasività. In un'epoca segnata dalla sua evaporazione, il lavoro analitico è chiamato a reinventarne la funzione: non restaurazione dell'ordine, ma rilancio della mancanza.


6. La clinica della detotalizzazione

In questa prospettiva, la clinica diventa luogo di "detotalizzazione guidata": si tratta di favorire il passaggio dall'immagine fissa al dire singolare, dal godimento chiuso alla domanda. Gli interventi possibili vanno dalla decostruzione dei dispositivi immaginari (rifiuto del setting totalizzante), al rilancio della parola singolare, fino alla costruzione di un nuovo rapporto con lo sguardo, che non sia più padronanza o angoscia, ma spazio vuoto, attraversabile.

Nell'anoressia, ad esempio, si tratta non di restituire l'appetito o la normatività, ma di interrogare la funzione dello sguardo e dell'immagine, restituendo al soggetto la facoltà di dire no senza annientarsi. Nella dipendenza da cellulare, il lavoro non è contro l'uso, ma sulla funzione: qual è il godimento in gioco? Quale sapere si cerca di saturare? Quale mancanza si teme?


7. Conclusione: la clinica del presente

Una clinica del presente è una clinica della sottrazione, dell'interruzione e dell'ascolto del "non tutto". Si tratta di sostenere un lavoro che, partendo dallo sguardo come punto critico, restituisca al soggetto la propria opacità, il proprio enigma, il proprio desiderio. In un mondo che chiede di tutto mostrare, il gesto clinico può consistere nel non guardare tutto, e soprattutto nel non essere tutto visto. Solo così si può riaprire lo spazio del desiderio e del soggetto parlante.

Il compito dell'analista è oggi più che mai quello di aprire una breccia nell'evidenza dell'immagine, nell'immediatezza della visione, nel godimento continuo. Lo sguardo, in quanto scarto rispetto all'occhio, può ancora essere il luogo in cui si produce un desiderio singolare. Ma questo richiede una clinica che non ceda al tutto, che non ceda al senso, che non ceda alla visibilità assoluta. Una clinica del limite, del taglio, e della parola che resiste alla saturazione.



Bibliografia:

  1. Lacan, J. (1964). Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi.
  2. Lacan, J. (1972). Il Seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi.
  3. Waisman, D. (2003). L’Œil Absolu.
  4. Miller, J.-A. (2012). Introduzione alla clinica lacaniana, Roma: Astrolabio 


mercoledì 16 aprile 2025

Crisi della logica subordinativa e destino dell’Europa

Abbazia di Montecassino


La crisi che attraversa l'Europa non si limita solo a questioni economiche o geopolitiche, ma affonda le radici in una crisi profonda della struttura simbolica che ha caratterizzato la tradizione occidentale. La riflessione di Panayotis Kantzas, psicoanalista lacaniano, e Francesca Ditifeci, linguista e analista del linguaggio politico, si concentra sulla transizione tra la logica subordinativa, che ha a lungo retto le società occidentali, e l'emergere di una logica coordinativa che potrebbe segnare il futuro del continente europeo. Se la crisi della logica subordinativa ha causato l'indebolimento del legame simbolico tra i cittadini e le istituzioni, la risposta potrebbe trovarsi in un recupero delle radici culturali e storiche dell'Europa, un cammino che deve però essere rinnovato e reinterpretato alla luce delle sfide contemporanee.


1. La crisi della logica subordinativa

La logica subordinativa è stata a lungo il fondamento del pensiero europeo, ed è proprio su di essa che si è costruito il modello di cittadinanza e di partecipazione politica. Kantzas, e Ditifeci, analizzano questa logica come quella che ha governato la relazione tra le parti in un sistema gerarchico, in cui le singole entità trovano il loro posto in un ordine che si sviluppa attraverso una catena di cause e effetti. La subordinazione, in tal senso, non è solo una relazione grammaticale, ma riflette un principio metafisico che regola la società.

Kantzas, nell'affermare che «la logica subordinativa ha segnato un tempo di unità politica e simbolica» (Kantzas, 2025), descrive come questa struttura gerarchica fosse alla base di un senso condiviso di comunità e di identità politica. In questo sistema, il "Nome-del-Padre", come lo definisce Lacan, agiva come principio di autorità simbolica, permettendo di mantenere l'ordine sociale attraverso il riconoscimento di un'autorità centrale (Lacan, 1975).

Tuttavia, il pensiero contemporaneo è segnato dall'erosione di questa struttura. La crescente incertezza economica, sociale e politica ha visto il progressivo indebolirsi di questo ordine subordinato, con un ritorno a forme di pensiero più orizzontali e meno vincolate a una visione gerarchica della società. Come sottolineano Kantzas e Ditifeci, la crisi della logica subordinativa ha avuto come risultato il disfacimento della legittimazione simbolica che aveva finora permesso il mantenimento della coesione sociale (Ditifeci, 2023).


2. L'emergere della logica coordinativa

La logica coordinativa e funzionalista che emerge in seguito alla crisi della subordinazione non è soltanto una semplice alternativa, ma rappresenta un nuovo modo di concepire il pensiero e la società. Mentre la logica subordinativa si fondava su un principio di causa-effetto e di legame gerarchico, la logica coordinativa si basa sulla relazione orizzontale, in cui le parti sono collegate tra loro senza una gerarchia dominante.

Questo nuovo paradigma si manifesta con forza nella digitalizzazione e nei sistemi algoritmici che governano il nostro mondo contemporaneo. Ditifeci sottolinea come «il predominio dei connettivi paratattici nel discorso politico contemporaneo esprima la tendenza a una comunicazione più immediata, ma anche a una semplificazione del significato» (Ditifeci, 2023). In effetti, la paratassi, ossia la giustapposizione di enunciati senza un legame gerarchico esplicito, è diventata la struttura dominante nel linguaggio politico e nei media digitali.

Questo tipo di linguaggio semplificato e immediato rispecchia una realtà sociale sempre più frammentata e priva di una visione unitaria e profonda. La paratassi, infatti, riduce la complessità delle relazioni e dei significati, rendendo più difficile la costruzione di un pensiero critico e di una vera partecipazione politica. Come osserva Lacan, il linguaggio è il veicolo attraverso cui il soggetto si riconosce nella società, ma in un mondo dominato dalla paratassi, il rischio è quello di una perdita di consapevolezza del legame simbolico che unisce gli individui alla comunità (Lacan, 1975).


3. La logica orientale coordinativa

La logica coordinativa non è un fenomeno esclusivamente occidentale. Kantzas e Ditifeci fanno riferimento alle tradizioni filosofiche orientali, in particolare a quelle cinesi e giapponesi, dove la logica coordinativa è radicata da secoli. Le filosofie orientali, come il taoismo e il confucianesimo, hanno storicamente privilegiato l'armonia e l'interdipendenza tra gli elementi, piuttosto che una visione gerarchica. La concezione di yin e yang, che rappresenta l'idea di opposizioni complementari e di equilibrio dinamico, può essere vista come un esempio di logica coordinativa che non impone una gerarchia, ma costruisce un ordine attraverso la cooperazione e la complementarietà.

Questa visione della realtà come un insieme di parti che interagiscono senza una subordinazione rigida è una risorsa utile per la riflessione sul futuro dell'Europa. La logica orientale offre un'alternativa a quella gerarchica che ha caratterizzato la storia europea, proponendo invece una struttura che esalta la cooperazione e il dialogo tra le differenze. Sebbene non si tratti di un modello immediatamente applicabile alla politica europea, esso suggerisce possibili vie per costruire un ordine globale che superi il dominio delle potenze imperialistiche e si concentri sulla cooperazione tra le diverse tradizioni culturali e politiche.


4. Il rischio della perdita delle radici

Il passaggio dalla logica subordinativa a quella coordinativa, pur portando con sé nuove opportunità di interconnessione, comporta anche il rischio di una perdita delle radici culturali che hanno dato forma all'Europa. Come osservano Hannah Arendt e Simone Weil, Edith Stein il legame con le radici storiche e culturali non è solo un fattore di identità, ma è essenziale per mantenere una comunità vivibile e per dare senso all'esistenza collettiva ( Cfr. Kantza', 2012). Le radici dell'Europa, come ricordano Kantzas e Ditifeci,  sono radici greco-romano-giudaico-cristiane. (esemplificate dalle città di Atene, Roma e Gerusalemme) Da queste radici si è sviluppato l'albero che nei suoi rami ha la democrazia, i diritti umani, il costituzionalismo, il pensiero critico.

Per Arendt, il concetto di "natalità" è centrale nel suo pensiero. La capacità di rinnovare continuamente la politica e di agire in un mondo condiviso dipende dalla capacità di costruire una nuova comunità, non ancorata a una tradizione rigida, ma capace di reimmaginare costantemente il legame politico (Arendt, 1958). La natalità è il motore di una vita politica che può essere di nuovo significativa, anche se continua a essere in tensione con le crisi e le fratture che caratterizzano il mondo contemporaneo.

Nel contesto della crisi del legame politico, Édith Stein offre una prospettiva significativa sulla persona come centro relazionale e spirituale. In Essere finito ed Essere eterno (1936), afferma che la persona è “spirito incarnato”, e come tale è portatrice di responsabilità e senso nella comunità. 

Simone Weil, d'altra parte, pone l'accento sull'importanza delle "radici" per la sopravvivenza umana. Per Weil, la perdita delle radici culturali non è solo un fenomeno superficiale, ma una ferita profonda che intacca l'esistenza stessa. «La radice è ciò che ci consente di stare in piedi», scrive Weil, ed è ciò che permette all'individuo di non essere sopraffatto dall'anomia e dalla disintegrazione sociale (Weil, 1952).


5. Recupero delle radici e futuro dell'Europa

Il recupero delle radici culturali europee, per Kantzas e Ditifeci, non è un invito a tornare indietro, ma a rinnovare quelle radici in un contesto contemporaneo. L'Europa, per ritrovare la sua vocazione storica, deve rielaborare i principi che hanno fondato la sua civiltà, senza restare prigioniera della nostalgia o della conservazione, ma rinnovando il proprio legame simbolico e culturale. Come scrive Kantzas, «l'Europa ha bisogno di una sintesi che superi la frattura tra le tradizioni e il moderno» (Kantzas, 2025).

Questa sintesi non può essere raggiunta attraverso l'antica metafisica subordinativa che ha dato vita alla storia dell'Europa, ma richiede una riflessione sul futuro che sappia fare tesoro delle lezioni del passato e delle potenzialità della logica coordinativa. In questo processo, la capacità di ritrovare una comunità simbolica solida diventa cruciale, proprio come Arendt e Weil ci insegnano: «La libertà politica si fonda sulla pluralità e sull'azione» (Arendt, 1958), e le radici, anche se devono essere reinterpretate, sono essenziali per dare un senso alla comunità e al futuro europeo.



Bibliografia 

Ditifeci, F. (2023). Logica Subordinativa e costruzione della Cittadinanza Europea, in AA.VV., Una Unione di Cittadini, Torino: Giappichelli.

Kantzas, P. (2011-2025). La Polis senza Antigone e senza Creonte. Lezioni Fiorentine, Unifi Facoltà di Scienze Politiche.

Kantza' G. (2012). Tre donne, una domanda: H. Arendt, S. Weil, E. Stein, Ed. Ares.

Lacan, J. (1975). Il Seminario. Libro XX. Ancora. Torino: Einaudi, 1985.

Arendt, H. (1958). La condizione umana. Milano: Feltrinelli.

Weil, S. (1952). La persona e il sacro. Milano: Adelphi.

Stein  E. (1936). Essere finito ed Essere eterno

Extimité. Il cuore estraneo del soggetto

Extimité. Il cuore estraneo del soggetto


Bottiglia di Klein


Il termine extimité, coniato da Jacques Lacan, rappresenta una delle sue più potenti invenzioni concettuali e linguistiche. Apparentemente paradossale, extimité fonde due poli che sembrano inconciliabili: l’“intimo” e l’“esterno”. Non si tratta di un semplice gioco linguistico: Lacan intendeva con questo termine indicare qualcosa che sovverte radicalmente il modo in cui siamo abituati a concepire il soggetto. Ciò che vi è di più intimo in noi – la nostra verità, il nostro desiderio, il nostro godimento – è anche ciò che ci risulta radicalmente estraneo.

L’inconscio, per Lacan, non è il “profondo” da esplorare in una discesa archeologica nell’interiorità, come in molta psicoanalisi classica. Non c’è un fondo da scavare, ma una struttura da annodare, un bordo da percorrere. L’inconscio è il discorso dell’Altro, e il soggetto non è altro che un effetto, una piega, una torsione di questo discorso. In questo senso, l’extimité è ciò che ci abita al cuore, ma non ci appartiene. È la presenza perturbante dell’Altro nel nostro stesso intimo.

Topologia del soggetto: il dentro che si rovescia nel fuori

Per rendere pensabile l’extimité, Lacan si appoggia a strumenti topologici. Oggetti come il nastro di Möbius o il toro permettono di concepire spazi in cui non esiste una separazione netta tra interno ed esterno. Come nel nastro di Möbius, dove percorrendo la superficie ci si ritrova dall’altro lato senza mai “uscire”, così nella struttura soggettiva il “fuori” dell’Altro si trova al cuore stesso del soggetto. Questo rovesciamento è essenziale per comprendere l’angoscia: non è solo la paura dell’Altro, ma la vertigine di riconoscere che l’Altro è dentro di noi.

L’extimité è dunque la manifestazione del Reale, di ciò che non si lascia addomesticare dal linguaggio. È l’enigma del godimento, quella jouissance che eccede il principio di piacere e sfugge alla simbolizzazione. È l’incontro con il proprio sintomo come nucleo opaco, non interpretabile fino in fondo. Lì, nel punto in cui il soggetto si sente più esposto, più vulnerabile, più incomprensibile anche a sé stesso, si rivela l’extimité.

Clinica dell’extimité: abitare l’estraneo

Dal punto di vista clinico, l’extimité impone una riformulazione radicale del compito analitico. L’analisi non è volta a ricostruire un passato rimosso, né a raggiungere una verità interiore nascosta. L’analisi è, piuttosto, un percorso che conduce il soggetto a prendere posizione rispetto all’estraneità che lo costituisce.

Il compito dell’analista non è quello di interpretare per dare un senso all’angoscia o al sintomo, ma di funzionare come supporto del vuoto, come presenza discreta che consente l'emergere del soggetto nella sua singolarità. Il soggetto, nel corso dell’analisi, non viene “liberato” da un peso interno, ma guidato a riconoscere e abitare ciò che di più irriducibile lo costituisce.

Il rischio, naturalmente, è che il soggetto tenti di colmare l’extimité con identificazioni immaginarie rigide, oppure che ne venga travolto, come può avvenire nella psicosi. Per questo, Lacan sviluppa negli ultimi seminari l’idea del nodo borromeo: tenere insieme i tre registri (Reale, Simbolico, Immaginario) è la condizione per sostenere il soggetto nella sua divisione senza crollare. Non si tratta di sciogliere il nodo, ma di ripercorrerlo, di conoscerne le torsioni, i punti di crisi, le compensazioni sintomatiche.

Educazione ed extimité: un’etica dell’ospitalità

Il concetto di extimité ha implicazioni decisive anche nel campo educativo. In ogni relazione pedagogica autentica, l’educatore si trova a fare i conti con ciò che nel soggetto educando resiste all’assimilazione, alla norma, al progetto educativo stesso. È quel punto opaco, inquietante, che non risponde agli schemi prefissati, ma che è anche la fonte più viva e imprevedibile del soggetto.

L’educazione che tiene conto dell’extimité non punta a integrare o a normalizzare a tutti i costi, ma a creare uno spazio simbolico sufficientemente stabile perché il soggetto possa costruire il proprio modo di essere al mondo. Ciò è particolarmente evidente nei contesti educativi con soggetti disabili o con migranti, dove il lavoro educativo deve confrontarsi con forme radicali di alterità.

In questi casi, l’educatore diventa una figura di accoglienza del Reale dell’altro, ma anche un punto d’appoggio per la simbolizzazione possibile. È una funzione prossima a quella analitica: non si tratta di spiegare il soggetto a sé stesso, ma di accompagnarlo nell’invenzione del proprio modo di stare nel linguaggio e nel mondo. L’extimité, qui, non è un ostacolo ma una risorsa, il luogo stesso da cui può emergere il desiderio.

Conclusione: l’estraneo che ci fonda

Nel tempo della trasparenza e dell’identità, l’extimité resta una provocazione. Ci ricorda che non siamo mai interamente padroni di noi stessi, che c’è in ognuno una parte che sfugge, che si sottrae, e che proprio questa parte è il motore del desiderio, della creazione, della relazione. In psicoanalisi come in educazione, si tratta di sopportare questo cuore estraneo, di non cedere alla tentazione di ridurlo, di contenerlo, di spiegarlo.

L’etica che ne deriva è un’etica dell’ascolto, dell’ospitalità, della non-padronanza. Non si tratta di “conoscere” l’altro, ma di incontrarlo nel punto in cui egli stesso si scopre estraneo a sé. In questo senso, l’extimité è il nome di un’umanità che non si chiude in sé stessa, ma che accetta di farsi attraversare dall’Altro. Solo così il soggetto può non solo esistere, ma es-sistere: stare fuori da sé nel punto in cui si costituisce.


Bibliografia essenziale

  • Lacan, J. Écrits. Paris: Seuil, 1966.
  • Lacan, J. Le Séminaire, Livre XI: Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse. Paris: Seuil, 1973.
  • Lacan, J. Le Séminaire, Livre XX: Encore. Paris: Seuil, 1975.
  • Lacan, J. Le Séminaire, Livre XXIII: Le sinthome. Paris: Seuil, 2005.
  • Miller, J.-A. “Extimité”, in La Cause Freudienne, n. 1, 1988.
  • Fink, B. The Lacanian Subject: Between Language and Jouissance. Princeton University Press, 1995.
  • Zupančič, A. Ethics of the Real: Kant, Lacan. Verso, 2000.
  • Recalcati, M. L’uomo senza inconscio. Raffaello Cortina, 2010.
  • Cifali, M. L’éducateur et l’intime. PUF, 1994

🔍L'Analisi in Lacan

Fare un’ analisi secondo Jacques Lacan non è semplicemente parlare dei propri problemi. È un’esperienza trasformativa, in cui il soggetto ...